di Francesco Careri
postfazione alla nuova edizione spagnola e portoghese di Walkscapes, Editorial Gustavo Gili
Ho pensato diverse volte di scrivere un secondo libro sul
camminare o di aggiornare Walkscapes
con nuovi capitoli sugli artisti che attualmente camminano. Se non l’ho fatto è
perché credo che il libro funziona così com’è e perché non credo di saper fare molto
di meglio su questo tema. Il testo di questa nuova edizione dunque è
esattamente uguale all’originale, non ho cambiato una virgola, c’è qualche nota
in più visto che le avevo già aggiunte nell’edizione italiana e c’è qualche
immagine in meno perché alcune mi sembravano superflue. Ho invece aggiornato la
bibliografia perché negli ultimi anni sul tema è stato scritto molto, ed ho
pensato di scrivere questa breve postfazione che - forse in modo troppo
autobiografico e introverso - cerca di raccontare come io stesso ho
interpretato quelle ultime parole scritte alla fine del libro:
Andare all'avventura a New Babylon può essere un metodo utile per
leggere e trasformare quelle zone di Zonzo che negli ultimi anni hanno messo in
difficoltà il progetto architettonico ed urbanistico. Grazie anche agli artisti
che l'hanno percorsa questa città è diventata oggi visibile e si presenta come
uno dei più importanti problemi irrisolti della cultura architettonica.
Progettare una città nomade sembrerebbe essere una contraddizione in termini.
Forse lo si dovrebbe fare alla maniera dei neobabilonesi: trasformarla
ludicamente dal suo interno, modificarla durante il viaggio, ridare vita alla
primitiva attitudine al gioco delle relazioni che aveva permesso ad Abele di
abitare il mondo.
In dieci anni sono successe molte cose: tre figli da cui
imparo quotidianamente a giocare col mondo, il posto all’università dove tengo
un corso interamente camminando, la casa manifesto costruita insieme ai
discendenti di Abele e poi bruciata da Caino e dai sui amici antizigani e il
Laboratorio di Arti Civiche con cui porto avanti i progetti collettivi che
prima facevo con Stalker, e che idealmente continua a camminare lungo la via di
Stalker.
Dieci anni fa, quando Daniela Colafranceschi e Monica Gili
mi avevano invitato a scrivere il libro non mi sarei mai immaginato che potesse
arrivare a sei ristampe ed essere rieditato in questa nuova forma.
Semplicemente non avevo idea di cosa volesse dire scrivere un libro, mettere
nero su bianco affermazioni che poi mi sarei ritrovato a confermare, discutere,
argomentare, difendere. Ma soprattutto non avevo idea che un libro potesse farmi
viaggiare cosi tanto. Walkscapes, in particolare in Sudamerica, ha avuto una
inaspettata fortuna, e sono stato invitato a conferenze, seminari e soprattutto
a camminare con artisti, architetti, studenti, cittadini. Attraversando Bogotà,
Santiago de Chile, Montevideo, Sao Paolo, Salvador do Bahia, Talca, ho capito
che non so camminare nella quadricola
coloniale e che per andare in transurbanza devo cercare i punti in cui la
griglia si rompe, perdermi lungo i fiumi, circumnavigare le nuove zone
residenziali, immergermi nei labirinti delle favelas. In Sudamerica camminare significa
affrontare molte paure: paura della città, paura dello spazio pubblico, paura
di infrangere le regole, paura di appropriarsi dello spazio, paura di
oltrepassare barriere spesso inesistenti e paura degli altri cittadini, percepiti
quasi sempre come potenziali nemici. Semplicemente, il camminare fa paura e
quindi non si cammina più, chi cammina è un homeless, un tossico, un marginale.
Il fenomeno antiperipatetico ed antiurbano è qui più chiaro che in Europa dove mi
sembra sia ancora solo in via di formazione: non uscire mai di casa a piedi, non
esporre mai il proprio corpo senza un involucro, proteggerlo in casa o in
macchina, soprattutto non uscire dopo il tramonto, rinchiudersi se possibile in
gated comunities a guardare film di terrore o a viaggiare con internet,
memorizzare i consigli per gli acquisti utili a quando si cammina nei centri
commerciali. Nelle facoltà di architettura mi sono reso conto che gli studenti,
ossia la futura classe dirigente, sanno tutto di teoria urbana e di filosofi
francesi, si dicono esperti di città e di spazio pubblico ma in realtà non hanno
mai fatto l’esperienza di giocare a pallone in strada, di incontrarsi con gli
amici in piazza, di fare l’amore in un parco, di entrare illegalmente in una
rovina industriale, di attraversare una favela, di fermarsi a chiedere una
informazione a un passante. Che tipo di città potranno mai produrre queste
persone che hanno paura di camminare?
Oggi l’unica categoria con cui si disegnano le città è
quella della sicurezza. Sarà una banalità ma l’unico modo per avere una città
sicura è che ci sia gente per strada che cammina questo solo fatto permette di
controllarsi a vicenda senza bisogno di recinzioni e telecamere. E l’unico modo
per avere una città viva e democratica è che si possa camminare senza annullare
i conflitti e le differenze, che si possa camminare per protestare e per
ribadire il proprio diritto alla città.
Da quando insegno mi sento addosso delle responsabilità in più, e ho cominciato
a capire che camminare è un insostituibile strumento per formare non solo
alunni ma cittadini, che il camminare è un’azione capace di abbassare il
livello di paura e di smascherare la costruzione mediatica dell’insicurezza: un
progetto “civico” capace di produrre spazio pubblico e agire comune. Nei miei
corsi di Arti Civiche quello che cerco di trasmettere agli studenti è il
piacere di perdersi per conoscere. Non è scontato, ma dà grandi soddisfazioni. Li
porto dove ancora non sono andati, gli tolgo il terreno sotto i piedi e li dirotto
in territori incerti. Di solito all’inizio cresce in loro uno stato d’animo di diffidenza,
dubbi su ciò che stanno facendo, paura di star perdendo tempo. Ma infine, per
chi resiste, cresce anche il piacere di trovare nuove strade e nuove certezze, provano
il gusto di costruirsi un pensiero con il proprio corpo e un agire con la
propria mente. Mettere in crisi le poche certezze appena raggiunte permette
infatti di aprire la mente a mondi e possibilità prima inesplorati, invita a
reinventare tutto: la propria idea di città, la propria definizione di arte e
di architettura, il proprio posto in
questo mondo. Ci si libera di convinzioni posticce e si comincia a ricordare
che lo spazio è una fantastica invenzione con cui si può giocare, come da
bambini. Un detto che guida le nostre camminate è “chi perde tempo guadagna
spazio”. Se infatti si vogliono guadagnare spazi “altri” bisogna saper giocare,
uscire deliberatamente da un sistema funzional-produttivo ed entrare in un
sistema non funzionale e improduttivo. Bisogna imparare a perder tempo, a non
cercare la via più breve, a farsi dirottare dagli eventi, a dirigersi verso
strade impervi dove sia possibile “inciampare”, magari incagliarsi a parlare
con le persone che si incontrano o sapersi fermare dimenticandosi di dover
procedere. Saper giungere al camminare non intenzionale, al camminare
indeterminato.
Un altro passaggio è stato quello della comprensione più
profonda della parola “deriva” nel senso di “progetto indeterminato” e delle
sue potenzialità per la trasformazione della città nomade o meglio informale.
Non solo quindi nel suo significato di “lasciarsi andare alla deriva”, di
perdersi in balia delle correnti, ma nel suo significato più progettuale, come
strumento per “costruire una direzione”: una “situazione ludico-costruttiva” (Debord)
“da realizzare in forma di labirinto dinamico insieme agli abitanti
neobabilonesi” (Constant). Quello che mi attrae della metafora marina della
deriva è che il terreno su cui ci si muove è un mare incerto che cambia
continuamente in base al mutare dei venti, delle correnti, dei nostri stati di
animo, degli incontri che si fanno. Il punto è infatti come progettare una
direzione ma con un’ampia disponibilità all’indeterminatezza e all’ascolto dei
progetti degli altri. Timonare una barca a vela significa costruire una rotta e
modificarla continuamente leggendo le increspature del mare, solitamente cercando
le zone dove ci sono le raffiche ed evitando quelle di “piatta”, incontrando insomma
nel territorio stesso e in chi lo abita, le energie che possono portare avanti
il progetto indeterminato nel suo divenire: le persone giuste, i luoghi adatti e
le situazioni in cui il progetto possa crescere, modificarsi e diventare terreno
comune. È chiaro che se si ha un progetto determinato, questo non potrà che andare
in frantumi alle prime folate di vento. Mentre un progetto di questo tipo ha
sicuramente più speranze di realizzarsi.
Quanto detto ha molto a che fare con i processi creativi
“relazionali” o “partecipativi”, entrambe parole fin troppo abusate dal mondo
dell’arte e dell’architettura, diciamo di processi creativi che non possono
compiersi se non attraverso uno scambio con l’Altro. In queste situazioni di
solito si opera in due modi: o si coinvolge l’altro nei propri progetti per
assicurarsi il suo consenso, oppure si annulla la propria creatività lasciando
interamente all’altro il compimento dell’opera. L’interessante credo sia invece
proprio il navigare tra queste due sponde, consapevoli di avere un proprio
progetto creativo (anche il solo nostro desiderio di partecipare è un progetto),
ma di volerlo lasciare aperto e indeterminato. A timonare sarà allora la
coerenza interna tra le cose che si incontrano e quelle che si creano, tra
quelle che accadono e che si fanno accadere, la continua scoperta di un ordine
nascosto che vediamo nascere sotto i nostri occhi-piedi, la possibilità di
costruire un senso e una storia-rotta coerente e condivisa.
Accennavo all’inizio a una casa manifesto realizzata con i
discendenti di Abele, i cosiddetti “nomadi”. Si tratta di Savorengo Ker (in lingua
romané significa “la casa di tutti”) realizzata insieme ai Rom del campo
Casilino 900 a Roma nel luglio del 2008 e che sarebbe dovuta essere il primo
passo per trasformare il campo rom in un quartiere, in un pezzo di città, forse
un Sahel instabile tra nomadismo e
sedentarietà. Dopo aver scritto il libro la parola “nomadismo” ha assunto per
me molti altri significati, ho cominciato a frequentare chi il nomadismo lo
vive sulla propria pelle a volte non per sua scelta né per tradizioni
culturali, chi vi ha dovuto rinunciare e vive nell’apartheid dei campi nomadi,
chi ancora cerca di abitare il mondo in piena liberà ma trova infinite barriere
ai suoi spostamenti. Quella di Savorengo Ker è una storia lunga e molto
complessa, forse un giorno riuscirò a scriverci un libro, intanto ci abbiamo
fatto un film che vi invito a vedere in internet. Ma ciò che mi interessa dire
ora è che è stata una importante tappa del “progetto indeterminato”. Il suo progetto
nasce infatti non da un disegno ma da un incontro, da uno scambio reciproco di
diffidenze e di paure e poi di saperi e di desideri. La sua idea, la sua forma,
la sua tecnologia, la sua economia sono state continuamente discusse, a volte
anche con grandi conflitti, in un dialogo continuo ed aperto tra una comunità
di “nomadi” ormai costretti alla stanzialità ed un variegato gruppo di “sedentari”
appassionati di nomadismo e indignati per l’apartheid che sta oggi rinchiudendo
i Rom in campi di concentramento sempre più sofisticati. È uscita fuori una casa
in legno a due piani, con fantasiose decorazioni balcaniche e con un progetto
molto ambizioso: dire a Caino che anche Abele ha diritto di abitare nella città
interculturale, e che la sua presenza è una grande ricchezza proprio perché
porta con sé un conflitto millenario che mai troverà pace.
Da questo punto di vista mi sembra che la storia di Caino e
Abele e il gesto del KA abbiano ancora molto da insegnare alle arti che si
occupano della trasformazione dello spazio. Ne primo capitolo eravamo rimasti a
quando, dopo il primo omicidio della storia dell’umanità, Dio punisce Caino mandandolo
errante nel deserto. Quello a cui non ho più smesso di pensare è la reazione di
Caino. La sua paura non è il perdersi ma è quella di incontrare l'Altro, teme che
l’Altro lo ucciderà, la sua unica preoccupazione è come affrontare il conflitto
con il diverso. La Bibbia racconta che allora Dio dà a Caino un “segno” che
servirà a proteggerlo. Un marchio? Il marchio di Caino? Ho cominciato a
studiare e mi sembra che questo segno non si ritrovi nell'iconografia di Caino,
che invece porta con sé il bastone del viandante. Mi sto convincendo del fatto
che il Signore non ha propriamente “dato un segno” a Caino, tantomeno un
bastone, ma abbia invece “insegnato” a Caino a fare una cosa che non sapeva
fare. Dio ha insegnato a Caino a salutare, ad andare verso l'Altro facendo “un
segno” non belligerante. E sono sempre più convinto che questo saluto è lo
stesso del simbolo del Ka (che poi è anche radice del nome Kaino): due braccia
alzate che ti vengono incontro camminando, che vanno incontro all'altro non più
per ucciderlo come Caino aveva appena fatto con suo fratello, ma mostrando le
mani vuote, disarmate, inoffensive e forse protese verso un abbraccio. Sono
convinto che chi ha scritto la Genesi aveva compreso che questo primo
rivoluzionario atto di pace era legato al camminare ed al fermarsi. All’arte
dell’erranza segue l’arte dell’incontro, quella della costruzione di uno spazio
di soglia, della realizzazione di una frontiera fuori dallo Spazio e dal Tempo,
in cui affrontare il conflitto tra diversi con un saluto non belligerante.
Forse è da qui che comincerà un mio prossimo libro. Si
potrebbe chiamare “Stopscapes. Il fermarsi come pratica estetica”. Mi
piacerebbe parlare non più del camminare per perdersi ma del camminare per
inciampare nell’Altro, della decisione di fermarsi a costruire uno spazio di
incontro tra diversi, della nascita di Kronos e dello Spazio del Perder Tempo, del
progetto indeterminato e del partecipare come cittadini alle evoluzioni
meticcie di quelle Nuove Babilonie che già abitano le nostre città.
Roma, 4 agosto 2012
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