di Francesco Careri
in corso di pubblicazione in un'opera in memoria di Mario Manieri Elia
C’è un testo, tra i tanti scritti da Mario Manieri Elia su Roma, che mi
sembra essere centrale nella sua idea della Città Eterna. Il suo titolo è “Il
Progetto Roma” e si trova nel primo numero di Topos e Progetto, quello dedicato
al Topos come Meta. Già nel titolo
del volume è chiara la volontà di mettere insieme due idee di spazio apparentemente
contrastanti, lo spazio dello stare e lo spazio dell’andare, la città sedentaria
e la città nomade, Caino con Abele. L’articolo comincia proprio da qui, dai due
fratelli biblici, Caino agricoltore sedentario, che sa usare le armi e
costruire le città e Abele pastore nomade e pacifico “pellegrino su questa
terra”, come scrive il berbero Sant Agostino. Manieri si avventura con loro nella
rilettura della “Città di Dio” di Sant Agostino e trovando l’archetipo e soprattutto
la nascita del Progetto Roma come Città capitale del mondo occidentale cristiano.
Scrive Mario Manieri: “All’alba del Medioevo nel testo agostiniano si allude a
una basilare dicotomia: la ‘città terrena’ fondata dall’uomo nei limiti della
sua azione autonoma e della sua capacità di abitare – cioè del suo esserci nel
mondo a far la propria parte nella creazione - ; e la ‘città celeste’ contesto
immateriale nel quale è destinato a muoversi l’homo viator, in quanto parte della cercante schiera degli eletti,
le cui vicende sono narrate nelle scritture.” [1]
Secondo Manieri dunque, Agostino costruisce le basi di un teorema
teologico che si realizzerà lungo il corso dei secoli successivi risignificando
i luoghi della città imperiale, fino a trovare la sua conclusione nella
costruzione della Piazza San Pietro di Bernini. La visione di Agostino è “un
manifesto ideologico, secondo un preciso uso
pubblico della storia che giunge a proporre un decisivo programma per Roma;
un Progetto, cioè, che si pone come perno di una svolta epocale, fondando
cultura occidentale identificata con la tradizione storica cristiana. (…) Abele
resuscitato, viene cosi ad abitare da Caino; Numintore da Amulio; Remo da
Romolo. (…) l’incontro cioè tra l’archetipo biblico, madido del sangue di Abele
(e poi di Remo), divenuto nel mondo pagano, ‘maschile’, stabile e monumentale
della Città Aeterna; e il grande, periodico evento erratico del pellegrinaggio.”[2]
Il piano urbanistico della città dei papi sarà d’ora in avanti la
trasformazione della città antica romana in una città da attraversare per i pellegrini
e i viandanti, una strategia di riscrittura urbana di altissimo valore
simbolico ed economico. Questo progetto attraversa diverse fasi: le basiliche
costantiniane poste fuori dalle mura, nelle principali vie di accesso, in modo
da offrire ai pellegrini un segno inconfondibilmente cristiano prima di
incontrare dentro le mura quelle vestigia pagane impossibili da occultare; in
seguito la restaurazione altomedioevale della Città Santa come ‘Città di
Pietra’, che ricompone i nuovi impianti religiosi con i monumenti pagani; la
serie di processioni spettacolari organizzate da Gregorio Magno nel 590 per
esorcizzare la peste e che dalle basiliche costantiniane arrivano in San Pietro
attraversando ponte Elio. Luogo centrale questo, posto sotto il controllo del
nuovo Angelo posto in cima al vecchio Mausoleo di Adriano che sembra riporre la
spada nella fodera, in segno di pace: il ponte tra le Due Città, il transito
tra Campo Marzio e il Vaticano, tra città romana e città cristiana, tra città Terrena
e città Celeste, tra la città dell’amor
sui e quella dell’amor Dei. Una volta fallito il progetto dei papi avignonesi
e conclusesi le crociate verso la terra Santa, “si chiude di fatto un’epoca:
quella avventurosa e confusa dei pellegrinaggi di bande armate – difficilmente
riferibili all’archetipo ‘pellegrino’ e pacifico di Abele (…). E apre l’era
degli Anni Santi, indetti e organizzati dalla Chiesa romana, dispensatrice di
ben più affidabili indulgenze da offrire ai fedeli, uomini ma anche donne,
questa volta, disarmati e portatori di energie positive da tutto il mondo.”[3]
Bonifacio VIII indice il primo dei grandi Giubilei e afferma Roma come la Meta
dei pellegrinaggi cristiani. Di qui in poi la città organizzerà la sua
struttura urbana come una “macchina per l’accoglienza”, si appresta ad accogliere
il ciclico ritorno in città di Abele, il nomade, l’Altro, lo straniero. Si
passerà dalla “strutturazione risimboleggiante e pervasiva tentata nel tardo
cinquecento, alla spettacolarizzazione discontinua barocca (…) che con Bernini,
grande regista della messa in scena del trionfo della fine di ogni
conflittualità, trova un acme nell’eccezionale sequenza semantica che
attraversa l’area vaticana (…) e il progetto Roma, qui, sembra chiudersi in
bellezza”[4].
Fin qui Manieri Elia. E devo dire che spesso, durante le lezioni al suo
Master, abbiamo parlato dei due nostri amici biblici, Caino e Abele. Mi ha
sempre colpito il fatto che le loro iniziali C ed A sono proprio quelle del KA,
lo spirito dell’eterna erranza, un
simbolo antichissimo, compagno
di viaggio dei primi uomini del paleolitico tra i labirinti di una natura ancora ostile. Il ka, il simbolo dell’eterna erranza dal mondo
dei cacciatori-raccoglitori si era poi trasferito nell’universo nomade delle
transumanze pastorali e dando alla luce – secondo Giedion - alla intera storia
dell’architettura in pietra, dalle caverne, ai monumenti megalitici, ai templi
egiziani[5].
Nei geroglifici egiziani il simbolo del ka
è raffigurato come una lettera U formata da due braccia alzate con i bicipiti
ingrossati e le mani aperte, un’immagine che collega l’antica postura dell’uomo
“orante” disegnato nelle incisioni rupestri delle caverne, con l’atto regale
del faraone nel ricevere l’energia divina camminando con le mani alzate. Una
immagine che combina la forma del saluto con quella del camminare.
Ma
ritorniamo a Caino e Abele. In realtà non è solo Abele il pellegrino, ma nella
religione giudaico cristiana, sembra essere proprio Caino la nuova
personificazione del ka primitivo. Il
nome Caino contiene la primitiva radice ka
da cui deriva la radice ebraica –kaw, la
strada primitiva, l’antico cammino. E Caino incorpora l’erranza vissuta
come punizione e il saluto come suo antidoto per l’accesso alle terre
straniere. Mi ha sempre colpito quel passaggio della Bibbia in cui, scacciato
dall’Eden per il suo peccato fr atricida,
Caino sembra avere come sua unica preoccupazione quella del come incontrare lo straniero
nell’erranza:
«Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io
mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e
chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere». Ma il Signore gli disse: «Però
chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a
Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato».[6]
Ora un fatto straordinario è che a Caino è collegata la nascita del primo
segno nella storia
dell’umanità: quello che permette agli uomini di attraversare territori
stranieri e di incontrarsi con l’Altro. Il passo della Genesi si può interpretare
sia nel senso che il Signore incide un marchio su Caino - seppure
nell’iconografia di Caino questo marchio non sia chiaramente rintracciabile - e
sia che il Signore “insegni” a Caino un segno da fare verso lo straniero, una
modalità con cui incontrare l’altro e instaurare una relazione pacifica e non violenta: il saluto non belligerante, le mani alzate
in senso di resa, di disarmo e di pace e forse lo stesso atto di amare, di
abbracciare e di accogliere. Quella di Caino e Abele, dell’agricoltore
sedentario che uccide il suo fr atello
pastore nomade, è anche la storia del primo omicidio commesso dall’uomo, della
prima incapacità di risolvere pacificamente un conflitto. Sembra quasi che l’omicidio
sia stato commesso a causa di un’immatura capacità di relazione con l’Altro e
che questo primo fallimento della relazione umana sia stato colmato da Dio insegnando
a Caino come interagire in modo più maturo nella soluzione dei conflitti: il signore insegna a Caino il salutare
nell’erranza, insegna un comportamento verso lo straniero, un gesto
verso l’Altro, un attitudine pacifica e insieme una chiave per passare di
territorio in territorio, per
continuare a navigare nel vasto mare dei deserti affr ontando
i pericoli e i conflitti a cui andrà incontro. Sembra quindi che il pellegrino
Abele, subito dopo la sua morte, si sia in qualche modo “reincarnato” in Caino,
sia andato ad abitare insieme a lui in unico corpo pellegrinante.
Forse per le mie discendenze sarde o per le mie ascendenze erratiche ho
sempre pensato che questo segno ha la sua patria in Sardegna, che qui sia stato
venerato e declinato in diverse forme. Come ho accennato il ka di Caino (e Abele) si trova in molti
dei graffiti rupestri della Sardegna paleolitica come “orante”, diventa corna
del Toro Api inciso nelle domus de Janas
del primo neolitico ed è scolpito sui menhir sardi come segnale per non perdere
la via. Ma soprattutto, se visto in pianta e quindi inciso sulla terra, è il
disegno delle prime complesse architetture megalitiche sarde, le Tombe dei
Giganti, architetture che di fronte alla tomba a corridoio, hanno uno spazio a
semicerchio. Una specie di esedra a cielo aperto che sembra voler andare
incontro ai pellegrini, un luogo di incontro che accoglie i pellegrini. E
infatti quello che mi sorprende di più rileggendo Mario Manieri e il suo Progetto
Roma, è che il simbolo del ka
potrebbe essere interpretato come un abbraccio, lo stesso abbraccio non
belligerante con cui Gian Lorenzo Bernini disegna la Piazza San Pietro
per accogliere i fedeli: Abele il pellegrino nomade torna nelle braccia del
segno di Caino. “Abele resuscitato, viene cosi ad abitare da Caino” direbbe
Manieri, il Progetto di Sant’Agostino si è veramente compiuto con Bernini. Di
questo però con Mario non ne avevo mai parlato.
[1] Mario Manieri Elia, Il progetto Roma, “Topos e Progetto”,
Fratelli Palombi, Roma 1999, p.17.
[2] Ibidem, … p.18.
[3] Ibidem, … p.23.
[4] Ibidem, … p.28.
[5] Sono molte le statue del
faraone che cammina con in testa il copricapo con le mani alzate del ka. E secondo Giedion nel II millennio,
la sala ipostila del tempio di Amon Karnak in Egitto, è una architettura costruita
per l’erranza del ka e "non è un
posto di raccoglimento per una congrega di devoti; né un luogo di riposo; è
semplicemente un luogo di passaggio, il più colossale che sia stato mai
concepito". (Sigfr ied Giedion, The
Eternal Present, vol. II "The Origins of Architecture", London 1964).
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