di Francesco Careri
pubblicato in Anna Lambertini, Annalisa
Metta e Maria Livia Olivetti (a cura di), Città Pubblica / Paesaggi Comuni, Gangemi, Roma, pp. 23-25
“Ecologías de la acción, la actuación que
tiene en cuenta su propia complejidad, riesgo, azar, iniciativa y decisión de
lo inesperado y lo imprevisto.”(Edgar
Morin)
Che tradotto in italiano suona: “Ecologia dell’azione, l’agire
che tiene in conto la sua propria complessità, il rischio, il caso,
l’iniziativa e la decisione dell’inatteso e dell’imprevisto. (Edgar Morin)
È una citazione che ha trovato German Valenzuela a casa mia
sfogliando il libro di Teresa Galì-Izard, Los
mismos paisajes. Ideas e interpretaciones, edizioni Gustavo Gili di
Barcellona. Per non perderla German
l’ha scritta in una mail che ha mandato a me e a lui, da qui oggi la ricopio e
incollo al principio di questa pagina. Per la verità ora l’ho anche cercata nel
libro per indicare meglio la referenza, ma niente da fare, non la trovo. In ogni
modo Morin da qualche parte deve averla scritta e comunque io e German ne
abbiamo parlato fino a tarda sera. German Valenzuela insegna architettura a
Talca in Cile, era ospite da me per lavorare insieme al workshop PICS dove abbiamo
realizzato insieme a molti altri, il parco Feronia a Pietralata. German ha
cominciato dicendo che questa frase spiega perfettamente quello che stiamo
facendo in questi giorni: procedere alla trasformazione della città attraverso
l’architettura, ma senza un progetto vero e proprio e in balia del caso e
dell’imprevisto. Una scelta ecologica capace di rimanere aderente alla realtà
- ci siamo detti - capace di adattarsi
al territorio nel suo divenire, di modificarsi con le azioni di tutti, con i
desideri dei singoli. Io gli ho detto che è proprio quello che io intendo
quando dico che non è vero che agisco senza un progetto, ma solo che il
progetto è indeterminato, che non credo più in quel Progetto con la P
maiuscola, il progetto determinato, che si realizza come lo si è disegnato. Ci
siamo trovati d’accordo sul fatto che anche il disegno conta, è uno degli
strumenti con cui controllare il processo, ma che poi durante il processo
intervengono così tanti imprevisti, che poi l’opera prende una forma che al
principio non era assolutamente visibile. Prende forma nella sua azione di
nascere, crescere, maturare, produrre dei frutti, dare semi, per poi
ricominciare.
Provo qui di seguito a scrivere su una serie
di azioni e di parole su cui in questi giorni ci siamo interrogati:
Ricerca. Non amo
la ricerca che serve solo a chi la fa. Soprattutto in questi anni di crisi, in
cui sono tornati temi di carattere “sociale”. I giovani ricercatori scelgono
casi studio nelle periferie del mondo, territori informali, slum, occupazioni. Architetti
e urbanisti si travestono da etnografi, fanno domande, chiedono agli abitanti
di regalargli il loro tempo, le loro storie, i loro saperi e poi se ne vanno, scrivono
la loro ricerca che finirà in una pubblicazione, che non leggerà nessuno e che
sarà messa sul tavolo di una commissione di un concorso per avere un posto in
un istituto di ricerca, fanno carriera in una università o in una
organizzazione internazionale umanitaria. Nulla di tutto ciò torna utile al
territorio studiato.
Partecipare. Parola
che nasconde molte ambiguità perché spesso usata in modo demagogico,
soprattutto da architetti urbanisti e politici. Non solo quando la
partecipazione è pura creazione di consenso, ma soprattutto quando si pretende
che i cittadini debbano partecipare a un progetto partecipativo. Il difficile
della partecipazione non è comprendere con quale metodologia far emergere i
desideri inespressi, ma capire qual è il progetto che i cittadini hanno
attivato e, se si è d’accordo, parteciparvi.
Attivare processi. L’ultima
moda di chi ha compreso che la parola progetto ha cominciato a perdere appeal è
quella di proporsi come attivatori di
processi. Più vado avanti e più mi sembra che queste parole insieme suonano
vuote e false. È molto difficile attivare veramente processi duraturi. Di
solito questi generi di processi si concludono con le foto di rito di un
banchetto o di una grande assemblea che poi non avrà più seguito. Mi sembra più
onesto allora proporsi come esploratore desiderante di processi in atto. È più
onesto e progettuale partecipare a un processo in corso e alimentarlo apportandovi
energia. Se il processo era già in atto ci sono più speranze che questo
continui anche dopo la nostra uscita dal campo di gioco.
Presa in cura. Se
si decide di fare una ricerca in un territorio e di voler partecipare alla sua
trasformazione con delle azioni architettoniche, è bene scegliere il luogo in
base alla presa in cura delle architetture che si producono. Se qualcuno già
tagliava l’erba di un parco vuol dire che la continuerà a tagliarla anche dopo
che noi siamo intervenuti. Se qualcuno si è costruito una casetta per necessità
di vita o di svago vuol dire che abiterà con piacere anche la casetta che noi
gli faremo la suo posto. Ma forse ogni tanto avrà nostalgia di quella che si
era costruito con le sue mani. Lasciare a lui la decisione e il compito di
smontarla per fare posto alla nuova.
Legittimare.
Inserirsi tra legale e illegale per rendere legittimo ciò che nasce fuorilegge.
Normative e burocrazia sono capaci di bloccare ogni processo rigenerativo e di
rimandare ogni azione a tempi biblici in
cui il processo in corso potrebbe non essere più attivo, stanco di aspettare.
L’unica strada è quella di non chiedere permessi, non firmare nessuna carta.
Orti urbani. Sono
come i sentieri. Se ci sono vuol dire che qualcuno ci passa e con il suo uso li
mantiene in vita, altrimenti spariscono, la natura se ne riappropria. Sono
luoghi delicati a cavallo tra cultura e natura, un principio insediativo
arcaico, sensibile, poetico. Coltivare la terra richiede impegno, corpo,
sudore, azione… ricercatori lasciateli stare forse non fanno per voi. Sono
ormai inevitabili, in ogni progetto sostenibile che si rispetti ci devono
essere. Almeno sulla carta.
Arte.
Architettura.
No-Autocad.
Infrastrutturazione Microurbanistica.
Queste parole invece le lascio riempire a voi che state
leggendo, anzi vi propongo di agirle piuttosto che scriverne. Ne proverete
sicuramente più soddisfazione. Vi lascio invece con la successiva mail di
German, sempre di appunti di quella sera, parlando in particolare di cosa
dovrebbe essere una Tesi del nostro Master Arti Architettura e Città.
el proyecto deja el paso a
la idea del proceso
ello significa que
la acción del arquitecto no es tanto sacar fuera de si las ideas y
plasmarlas en un papel tanto como poner en movimiento esas ideas y proponer una
FORMA de HACER
la acción que
promueve la interacción de las partes, de todo aquello que se involucra en la
producción de la realidad.
la tesis no es ya
una retórica tanto como una discusión en movimiento, que busca
una lógica que permita la materialización.
No es ya la
proyección de una FORMA, una FUNCIÓN y un PROGRAMA
sino también la organización de una forma de actuar que se pone
en cuestión....
La cui traduzione
è:
Il progetto lascia
il passo alla idea di processo
Questo significa
che la azione dell’architetto non è tanto tirar fuori da sè delle idee e di
plasmarle in un foglio, ma è come mettere in movimento queste idee e proporre
una FORMA di FARE
La azione che
promuove l’nterazione tra le parti, di tutto ciò che si coinvolge nella
produzione della realtà
La tesi non è
tanto un impianto toerico ma una discussione in movimento, che cerca una logica
che permette la sua materializzazione.
Non è la
proiezione di una FUNZIONE o di un PROGRAMMA ma anche il porsi la questione
dell’’organizzazione di una forma di agire...
Roma 29 maggio
2013
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