07/12/13

prime parole per una metodologia della deriva



di Francesco Careri

È da qualche tempo che con il Laboratorio di Arti Civiche ci si è resi conto dell’importanza del fermarsi, di far seguire alla fase di esplorazione una fase di incontro e di “partecipazione”. Nella fase di esplorazione l’attenzione non è più solo portata al navigare lungo le coste e raccontarne i paesaggi, ma anche a come incontrare chi abita quelle terre, come trovare strategie per andargli incontro salutando, come produrre situazioni/oggetti, spazi/architetture che riescano ad essere il risultato dell’incontro tra stranieri, come far di tutto ciò un apprendimento reciproco.
Siamo sempre stati riluttanti a spiegare ad altri il nostro lavoro attraverso una “metodologia” e si è sempre aggirata la questione parlando di “modalità”, di “attitudine” o ancora meglio di “pratica”. Questo perché la parola “metodologia”  è sempre risuonata come qualcosa di dogmatico, statico, poco interpretabile, poco malleabile, l’esatto contrario del senso e soprattutto del “come avviene” il lavoro. Recentemente, a Salvador de Bahia, Paola Berenstein Jacques non ci ha svelato che “metodo” deriva dal greco methòdos (metà = per, dopo, e hòdos = via, cammino): “dopo il cammino”, ossia che la modalità con cui fare ricerca si deduce successivamente ad una pratica; e “per, attraverso il cammino”, ossia che il metodo lo si comprende mentre si sta procedendo. Ecco che allora anche la deriva per come l’abbiamo intesa finora può essere un metodo e le sue varie declinazioni nautiche fin qui praticate iniziano ad essere una metodologia.


La stesa riluttanza ad utilizzare una “metodologia” c’è sempre stata anche nel parlare di “progetto”, forse perché da architetti ci hanno insegnato che il “progetto” è un disegno finito e pronto per essere eseguito, uno spartito in cui non c’è spazio per l’improvvisazione, un processo determinato una volta per tutte. Ecco allora che attraverso il navigare emerge il senso di un metodo e di un progetto indeterminati, che si sviluppano nel cammino. La deriva quindi non solo intesa come pratica conoscitiva ed esplorativa, ma anche come modo con cui produrre un progetto, una trasformazione, un’opera, una ricerca. Il problema ora si sposta al “come” suscitare e indirizzare una azione creativa di tipo partecipativo e contestuale, che sia incorporata nel contesto e che cresca in modo spontaneo nel territorio, che sia l’opposto del progetto predeterminato.
Nella pratica sono emerse alcune parole con cui raccontare questa metodologia, certamente non da intendersi come una ricetta ma semmai ingredienti con cui cucinare piatti diversi:

dare ascolto all’intuizione e al desiderio
salpare sgombri, con il desiderio di partire, e l’intuizione arriverà durante il cammino. Una buona intuizione fa intravedere una rotta e non proprio una meta. Verificare l’intuizione con le categorie di coerenza interna e pertinenza esterna. Coerenza narrativa con l’insieme della storia che si sta raccontando e pertinenza con le storie passate e i temi e le domande irrisolte del attuale tempo storico.

mettersi in condizioni di inciampare
il procedere in modo strabico, con un occhio alla rotta ed un altro a tutto ciò che ti dirotta, conduce ad inciampare in zone dove il progetto non ti avrebbe mai potuto portare, a trovarti spaesato in situazioni inaspettate. Le zone di inciampo sono quelle in cui la barca prende le secche, ma anche quelle in cui è bene mettere l’ancora, sono i luoghi dove decidere di fermarsi a perder tempo.

perder tempo, guadagnare spazio
si sa che chi cammina perseguendo con determinazione una meta perde ogni possibilità offerta dalla deriva. La deriva porta con sé una grande dispersione di energie e di tempo. È perdendo tempo che si guadagnano spazi altri. È solo perdendo tempo che è possibile l’incontro.

disponibilità all’indeterminato
Una capacità che si deve avere nel progetto indeterminato, contestuale e partecipativo, è l’essere disponibili a cambiar rotta repentinamente. Abbandonare le certezze della posizione raggiunta e andare dove il vento è più forte, saper leggere le increspature del mare, capire dove c’è tempesta e dove invece c’è calma piatta. Utilizzare le raffiche, le energie umane ed urbane. Correggere la rotta costantemente anche quando sembra un retrocedere o un procedere incoerente.

costruire un terreno di gioco relazionale
Non produrre aspettative funzionali e invitare al gioco. Una volta inciampati in un buon terreno costruire le condizioni perché si sprigioni l’attività creativa. Scegliere bene i personaggi, i giocatori, individuare le persone che hanno il desiderio di mettesi in gioco sfidando il pregiudizio atavico degli altri abitanti. Lasciare che siano loro a trovare altri giocatori seguendo le proprie relazioni e poi inserire anche nel loro piano dei diversivi.

Profanare
Secondo Agamben, il gioco può avere la doppia funzione di eliminare il mito e conservare il rito, è il caso del ludus o gioco d’azione, o di cancellare il rito e conservare il mito, come jocus o gioco di parole: “se consacrare (sacrare) era il termine che designava l’uscita delle cose dalla sfera del diritto umano, profanare significava per converso restituirle al libero uso degli uomini”.

Spostare
Spostare il punto di vista e le convenzioni con cui si guadano le cose. Spostare i desideri le aspettative, le paure i pregiudizi. Mettere fuori posto, muovere muri, costruire ponti dove non si vedeva che un fiume. Spostare oggetti da un contesto all’altro. Decontestualizzare. Produrre una trasformazione spaziale e sociale. Spostare la conoscenza, anche di poco.

Salutare
L’esperienza insegna che oltre all’ingresso in un territorio è anche fondamentale ritualizzare l’uscita. Saper salutare ed andare via con un arrivederci e mai un addio.


Lasciare sempre aperto il finale



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