di Francesco Careri
È da qualche tempo che con il Laboratorio di Arti Civiche ci si è resi conto dell’importanza del fermarsi, di far seguire alla fase di
esplorazione una fase di incontro e di “partecipazione”. Nella fase di
esplorazione l’attenzione non è più solo portata al navigare lungo le coste e raccontarne
i paesaggi, ma anche a come incontrare chi abita quelle terre, come trovare
strategie per andargli incontro salutando, come produrre situazioni/oggetti,
spazi/architetture che riescano ad essere il risultato dell’incontro tra
stranieri, come far di tutto ciò un apprendimento reciproco.
Siamo sempre stati riluttanti a spiegare ad altri il nostro lavoro
attraverso una “metodologia” e si è sempre aggirata la questione parlando di “modalità”,
di “attitudine” o ancora meglio di “pratica”. Questo perché la parola
“metodologia” è sempre risuonata come
qualcosa di dogmatico, statico, poco interpretabile, poco malleabile, l’esatto
contrario del senso e soprattutto del “come avviene” il lavoro. Recentemente, a
Salvador de Bahia, Paola Berenstein Jacques non ci ha svelato che “metodo”
deriva dal greco methòdos (metà = per, dopo, e hòdos = via, cammino): “dopo il cammino”, ossia che la modalità con
cui fare ricerca si deduce successivamente ad una pratica; e “per, attraverso
il cammino”, ossia che il metodo lo si comprende mentre si sta procedendo. Ecco
che allora anche la deriva per come l’abbiamo intesa finora può essere un
metodo e le sue varie declinazioni nautiche fin qui praticate iniziano ad
essere una metodologia.
La stesa riluttanza ad utilizzare una “metodologia” c’è sempre stata anche
nel parlare di “progetto”, forse perché da architetti ci hanno insegnato che il
“progetto” è un disegno finito e pronto per essere eseguito, uno spartito in
cui non c’è spazio per l’improvvisazione, un processo determinato una volta per
tutte. Ecco allora che attraverso il navigare emerge il senso di un metodo e di
un progetto indeterminati, che si sviluppano nel cammino. La deriva quindi non
solo intesa come pratica conoscitiva ed esplorativa, ma anche come modo con cui
produrre un progetto, una trasformazione, un’opera, una ricerca. Il problema
ora si sposta al “come” suscitare e indirizzare una azione creativa di tipo
partecipativo e contestuale, che sia incorporata nel contesto e che cresca in
modo spontaneo nel territorio, che sia l’opposto del progetto predeterminato.
Nella pratica sono emerse alcune parole con cui raccontare questa
metodologia, certamente non da intendersi come una ricetta ma semmai ingredienti
con cui cucinare piatti diversi:
dare ascolto all’intuizione e al desiderio
salpare sgombri, con il desiderio di partire, e l’intuizione arriverà
durante il cammino. Una buona intuizione fa intravedere una rotta e non proprio
una meta. Verificare l’intuizione con le categorie di coerenza interna e
pertinenza esterna. Coerenza narrativa con l’insieme della storia che si sta
raccontando e pertinenza con le storie passate e i temi e le domande irrisolte
del attuale tempo storico.
mettersi in condizioni di inciampare
il procedere in modo strabico, con un occhio alla rotta ed un altro a tutto
ciò che ti dirotta, conduce ad inciampare in zone dove il progetto non ti
avrebbe mai potuto portare, a trovarti spaesato in situazioni inaspettate. Le
zone di inciampo sono quelle in cui la barca prende le secche, ma anche quelle
in cui è bene mettere l’ancora, sono i luoghi dove decidere di fermarsi a
perder tempo.
perder tempo, guadagnare spazio
si sa che chi cammina perseguendo con determinazione una meta perde ogni
possibilità offerta dalla deriva. La deriva porta con sé una grande dispersione
di energie e di tempo. È perdendo tempo che si guadagnano spazi altri. È solo
perdendo tempo che è possibile l’incontro.
disponibilità all’indeterminato
Una capacità che si deve avere nel progetto indeterminato, contestuale e
partecipativo, è l’essere disponibili a cambiar rotta repentinamente.
Abbandonare le certezze della posizione raggiunta e andare dove il vento è più
forte, saper leggere le increspature del mare, capire dove c’è tempesta e dove
invece c’è calma piatta. Utilizzare le raffiche, le energie umane ed urbane.
Correggere la rotta costantemente anche quando sembra un retrocedere o un
procedere incoerente.
costruire un terreno di gioco relazionale
Non produrre aspettative funzionali e invitare al gioco. Una volta
inciampati in un buon terreno costruire le condizioni perché si sprigioni
l’attività creativa. Scegliere bene i personaggi, i giocatori, individuare le
persone che hanno il desiderio di mettesi in gioco sfidando il pregiudizio atavico
degli altri abitanti. Lasciare che siano loro a trovare altri giocatori
seguendo le proprie relazioni e poi inserire anche nel loro piano dei
diversivi.
Profanare
Secondo Agamben, il gioco può avere la doppia funzione di eliminare il
mito e conservare il rito, è il caso del ludus
o gioco d’azione, o di cancellare il rito e conservare il mito, come jocus o gioco di parole: “se consacrare (sacrare) era
il termine che designava l’uscita delle cose dalla sfera del diritto umano,
profanare significava per converso restituirle al libero uso degli uomini”.
Spostare
Spostare il punto di vista e le convenzioni con cui si guadano le cose.
Spostare i desideri le aspettative, le paure i pregiudizi. Mettere fuori posto,
muovere muri, costruire ponti dove non si vedeva che un fiume. Spostare oggetti
da un contesto all’altro. Decontestualizzare. Produrre una trasformazione
spaziale e sociale. Spostare la conoscenza, anche di poco.
Salutare
L’esperienza insegna che oltre all’ingresso in un territorio è anche
fondamentale ritualizzare l’uscita. Saper salutare ed andare via con un
arrivederci e mai un addio.
…
Lasciare sempre aperto il finale
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