20 gennaio 1990. Prima data di nascita di Stalker
L'assemblea della Pantera vota l'occupazione della
Facoltà di Architettura di Valle Giulia.
|
Questa pagina contiene una selezione di testi e di immagini di alcuni progetti di Stalker
Indice
1993 Vivilerive. Per una pratica ambientale del rifiuto – scritto in occasione del parco illegale vivilerive alla Area ex industriale Ostiense Marconi, Roma, luglio 1993 – inedito
1994 Al-Qantara. La città del ponte sul fiume - scritto in occasione del parco illegale Al-Quantara alla Area ex industriale Ostiense Marconi, Roma, luglio 1994 – inedito
1995 Comunicato stampa – Stalker attraverso i Territori Attuali, Roma 5-8 ottobre 1995
1995 Diario di viaggio 5/8 ottobre 1995 – scritto in occasione del giro di Roma Stalker attraverso i territori Attuali – pubblicato in "Suburban Discipline", a cura di Peter Lang, Princeton Architectural Press, New York 1998, pp. 130 -141 e “Stalker attraverso i Territori Attuali”, Jean Michel Place, Parigi 2000.
1996 manifesto – scritto e distribuito in fotocopia in occasione di Mappe. Mostra a cura di Emanuela de Cecco. Centro di Documentazione Giovani Artisti / Galleria Care-Of. Milano gennaio 1996 – pubblicato in italiano francese, inglese, spagnolo e turco in diverse pubblicazioni.
1996 Stalker Rundown. Omaggio a Robert Smithson. Ex cava di selce già sito di Asphalt Rundown, via Laurentina, Roma 3.3. 1996 – scritto in occasione della mostra Smithson alla Galleria Emy Fontana di Milano – inedito ?
1999 Campo Boario – scritto in occasione – inedito? Pubblicato sul giornalino di villa medici
2003 L'Università Nomade di Stalker – spedito per mail a info@osservatorionomade.net – inedito
2003 Per una Università Nomade 1 – spedito per mail a info@osservatorionomade.net - inedito
2003 Esser presenti affinché stalker abbia luogo (da uno stalker ad altri stalker) – spedito per mail a info@osservatorionomade.net – inedito
2005 Lettera al sindaco di Roma – spedito per mail a info@osservatorionomade.net – inedito
Giardino Zen
Chissà cosa avrebbe potuto collegare, in un percorso unitario, le diverse opere che, giovani architetti, artisti e paesaggisti volontari, hanno realizzato - lungo le sponde del Tevere nel tratto che attraversa la dismessa area industriale Ostiense - se proprio in quei giorni di fine luglio alcuni dei condomìni che affacciano lì sul lungotevere non avessero deciso di cambiare le vecchie serrande di legno con delle nuove di plastica.
Facoltà di Architettura Occupata. Roma. 1990
Tra l’Aula Magna e la Biblioteca della Facoltà di Architettura di Via Gramsci c’è un cortile dove nel ‘68 gli Uccelli avevano piantato un fico. Durante l’occupazione della Pantera nel ‘90, un gruppo di studenti da vita ad un giardino abusivo aggiungendo al fico una pavimentazione di ghiaia, sampietrini, l’orma della pantera, una vasca d’acqua ed un grosso cespuglio di bambù.
Muro di macchine e carni
Monte dei Cocci. Roma. 1991
Intorno al monte di
Testaccio, l’associazione culturale Art Departemet, creata da alcuni studenti
dopo l’occupazione, organizza Accumulazioni, un festival di teatro ed
installazioni urbane. Lo stesso nucleo del Giardino Zen, che si da il nome di
Le Masse, realizza un muro di macchine pressate che sorge come un isola da un
mare di bottiglie rotte e cassette da frutta contenenti ossa e resti di carne
da macello su cui vengono proiettate diapositive di fototessere di centinaia di
persone.
Vivilerive
Lungotevere dei
Papareschi. Roma. 1993
Lungo le rive del
Tevere di fronte alle archeologie industriali dell’area dell’Italgas, una
discarica abusiva viene occupata per tre giorni e trasformata in un parco
fluviale, invitando studenti, artisti ed architetti a dare vita, con i
materiali trovati sul luogo, ad installazioni ambientali lungo un percorso
costruito con tapparelle srotolate direttamente su rovi e ortiche. L’area viene
svelata nelle sue qualità di natura ibrida e spontanea, e dopo essere stata
liberata da centinaia di siringhe, viene “donata” agli abitanti del quartiere
che vengono invitati ad un incontro con le associazioni di quartiere, gli
amministratori ed i proprietari delle aree su cui si vanno accumulando sempre
più gli interessi delle speculazioni. Dopo un incendio doloso e qualche mese di
abbandono la natura si riappropria del luogo.
VIVILERIVE
Per una pratica ambientale del rifiuto
Area ex industriale Ostiense Marconi
Roma, luglio 1993
Testo inedito di Lorenzo Romito
Una casuale e gratuita fornitura di centinaia di metriquadri di parquet. Un tappeto di serrande come percorso guida attraverso la fitta vegetazione, rocchi per cavi telefonici come tavolini per il chiosco - realizzato, quest'ultimo, con tubi innocenti e con lamiere metalliche curve - decine di infissi di legno, porte, finestre, due carcasse d'auto, reti elettrosaldate, aste e infissi metallici, bidoni, frammenti di maioliche, calcinacci, vasche da bagno, bidets, lavandini, centinaia di cassette per la frutta, scarti dei locali mercati generali.
Tutti, o quasi, materiali abbandonati nell'area o nelle vicinanze, parte integrante di quel paesaggio, particolare accezione del suo "genius loci", frammenti combinati in un percorso progettuale, che non rinunciasse a nessuna delle contraddizioni, delle tessiture, dei colori e degli spazi che caratterizzano quell'area come il terreno di un' ormai decennale lotta tra la natura e gli scarti dell'uomo, già prodotti o strutture di produzione.
Abbiamo tentato di assecondare e di amplificare quel processo di metabolizzazione, a volte di vera e propria mutazione, che sta portando la natura, almeno in quel luogo, ad aver ragione della battaglia ingaggiata con gli scarti dell'uomo, più attenti ad ascoltarne i clamori, che non ad imporre l'esito.
Sotto la luce rossa del tramonto estivo è difficile distinguere alcune aste metalliche arrugginite dalla corteccia di un arbusto rampicante che prima vi si è aggrappato e poi le ha fatte proprie, piegandole ed innalzandole come se si trattasse di rami. Opera dell'uomo o della natura? Voluta o casuale? Non sempre, percorrendo la sequenza dei microinterventi artistici e paesaggistici, è stato facile dare a tali interrogativi sicura risposta. E così alla fruizione delle opere si è alternata la scoperta dei luoghi, magari il desiderio di partecipare: a volte è bastato piegarsi su di una pozzanghera e scoprirvi il riflesso, mosso dal vento, degli imponenti edifici industriali che, come fantasmi, aleggiano tra le fronde degli alberi, o stendere un telo tra i rami di un albero per entrare nel quadro. Un operazione al limite tra artista e fruitore, tra natura e artificio, tra arte e vita, tra la città e il suo inconscio.
Consentire l'accesso in quei luoghi nascosti e dimenticati di cui ormai la città è piena, è stata la nostra principale preoccupazione, non per tornarvi con il piglio del dominio, pronti a reintegrarli nelle caotiche relazioni urbane, ma rispettandone la diversità e cercando di coglierne i segreti.
Mentre la speculazione preme ai confini dell'area cercando di ammaliare gli abitanti della zona e l'amministrazione con illusionistiche prospettive di ridenti centri commerciali, uffici e abitazioni "immersi" nel verde, lungo le sponde del fiume, con Vivilerive abbiamo cercato di fornire un diverso immaginario fatto di scarti e di frammenti, ma soprattutto di relazioni tra arte, natura, città e cittadini; evocando una possibilità di fruire di quegli spazi abbandonati che non passasse necessariamente per la loro "trasformazione" o "riqualificazione", che non desse nessun appiglio a speculatori mascherati da fate turchine.
Area ex industriale Ostiense Marconi
Roma, luglio 1994
Testo inedito di Lorenzo Romito
Testo inedito di Lorenzo Romito
Le cose sulle due rive erano chiare a metà, apparivano e sparivano, tra luce e buio. Il fiume rumoreggiava con la sua voce antica e conosciuta, muovendosi come se fosse fermo.(...). Cominciai a nuotare verso la riva del nord.(...). Continuai a nuotare, nuotare, finché i movimenti del mio corpo non si stabilirono con le forze dell'acqua in comoda coordinazione. Non pensavo più, mentre mi muovevo in avanti sulla superficie dell'acqua.(...). Continuai a nuotare, nuotare, ormai fermamente deciso a raggiungere la riva settentrionale. Questa era la meta. A poco a poco non sentii più altro che il fragore del fiume.(...). Poi entrai in uno stato tra il cieco ed il vedente. Ero cosciente e non lo ero. Dormo o son desto? Son vivo o son morto? Pur tuttavia rimanevo aggrappato ad un sottile, tenue filo: la sensazione che la meta era davanti a me e non sotto di me, e che dovevo muovermi in avanti e non verso il basso. Ma il filo si attenuò fino quasi a spezzarsi, ed arrivai ad un punto nel quale sentii che le forze del fiume al fondo mi tiravano a sé. (...). E' ora. Tutt'insieme, e con una forza che non so da dove mi venne, sollevai il busto sull'acqua. Mi voltai a destra e a sinistra: ero a metà strada tra il nord e il sud.
Non sarei stato in grado di andare avanti né avrei potuto tornare indietro. Mi girai sul dorso e rimasi immobile, muovendo a mala pena le braccia e le gambe quel tanto che mi permetteva di rimanere a galla sulla superficie. Sentivo le distruttive forze del male tirarmi verso il basso e le correnti spingermi verso la riva meridionale ad angolo curvo. Non avrei potuto mantenere l'equilibrio ancora per molto. Presto o tardi le forze del fiume mi avrebbero tirato al fondo. E in uno stato tra la vita e la morte vidi stormi di uccelli qatà che si dirigevano a nord. Siamo nella stagione invernale o in quella estiva? E' un viaggio o una migrazione? Sentii che mi stavo sottomettendo alle forze distruttive del fiume.(...). Tutto ad un tratto provai il desiderio irrefrenabile di una sigaretta. Non era soltanto un desiderio: Era fame. Era sete. Ed era quello l'attimo del risveglio dall'incubo:(...). Mossi le gambe e le braccia con difficoltà e violenza finché il busto non fu interamente al di sopra dell'acqua, e con la forza rimastami gridai, come un attore comico che strilla in un teatro: "Aiuto! Aiuto!". (Tayeb Salih, La stagione della migrazione a Nord, Sellerio, Palermo 1992) .
Gli alti argini del Tevere in candido travertino fanno pensare a un gigantesco sarcofago di età romana, privo, però, anche solo di un epitaffio che ricordi il mito e la storia di quella divinità caduta in disgrazia che fu già confine tra due mondi e poi cuore della città di Roma.
E' questa ambivalenza del fiume che lo fa essere luogo deputato al fiorire delle grandi civiltà.
Il fiume in prossimità dei guadi indica la possibilità di scambiare e di comunicare di due mondi diversi che esso stesso determina. La civiltà nasce proprio lì dove il confine diviene filtro, l'incontro ha ragione dello scontro. L'altro penetra e arricchisce i valori dell'uno e viceversa. Il fiume diviene centro, tanto più ampie le differenze tra le proprie sponde e tanto più ricco il frutto di tale confronto.
L'occultamento del fiume è metafora dell'occultamento delle differenze, l'innalzamento degli argini del rifiuto al confronto, caratteristiche queste dell'omologazione che ha reso Roma una grande indifferente periferia.
Eppure rinnovate questioni spingono affinché Roma riscopra la propria valenza di porta tra due mondi; il Tevere potrebbe essere il luogo dove, tale scambio tra diverse culture si fisicizzi, riportando ad un atto reale la metafora dell' attraversamento del guado.
La possibilità di riscoprire attraverso la memoria e l'immaginario, rinnovate ragioni di centralità del fiume rispetto alla città potrebbe portare a individuare la riqualificazione ambientale delle sue rive come una reale esigenza e non solo come astratto principio. La metafora del fiume quale porta tra due mondi potrebbe essere una chiave di accesso, una affabulazione inseguendo la quale ci si può ritrovare sulle sponde del Tevere a passeggiare, a leggere o a prendere il sole, scoprendo di aver buttato giù, almeno nella propria coscienza, il muro che da troppo tempo ci separa dal fiume.
Le relazioni interrotte.
Vivere le sponde del fiume significa ritessere quell'orditura di percorsi e di affluenti recisi, di relazioni tese tra le due rive. Attraverso itinerari paesaggistici, architettonici, teatrali, musicali ed artistici, ricondurre la città al Tevere, rinnovando l'esigenza di incontrarsi sul fiume, di scambiare, magari non più merci ma idee. Riproporre quell'incerto mondo tra acqua e terra, vero e proprio regno del fiume, fatto di moli, di barche, d’instabili architetture galleggianti, quali erano gli antichi mulini.
Le ferite prodotte dall'allontanamento della città dal fiume sono state cauterizzate dalla doppia fasciatura di massi di travertino e di lamiere di macchine, impedendo una delle più antiche e naturali articolazioni della città, tanto che la città moderna anche quando si è sviluppata in prossimità del fiume ne è rimasta immune e indifferente.
Si sono così determinate: la città di sotto, quella banchina a sezione costante che accompagna gli alti argini per tutta la loro estensione; la città di sopra, insuperabile barriera di macchine all'ombra dei platani; la città di dietro, l'antica città ormai estromessa dall'affaccio al fiume e la città nuova separata dal fiume da reti metalliche, da linee ferroviarie o stradali, da cimiteri di macchine, ma soprattutto dal timore che circonda ciò che non si conosce. Tra questi spazi si è atrofizzata ogni relazione.
Prima di elaborare complicati progetti architettonici per la tutela e la rivitalizzazione del Tevere, c'è bisogno di ri-innescare nella memoria e nella sensibilità di ciascuno il rapporto con il fiume.
Bisogna riuscire a sollevarsi dal senso di impotenza che la città attuale genera, riuscire a vedere le mille possibilità dietro l'univoca, sconcertante e soffocante evidenza della città contemporanea, dar spazio alla memoria e all'immaginazione. Si tratta di operare una sorta di alchimia, che permetta di immaginare la città come il luogo possibile dei propri sogni e de propri ricordi. La città come teatro, avvenimento, con i cittadini quali attori protagonisti. Scoprire l' accesso ai mille possibili modi di essere della città al di là della sua univoca banale evidenza, alla quale da troppo tempo siamo soggiogati.
Si invitano pertanto artisti musicisti poeti teatranti e tutti i liberi pensatori a partecipare alla redazione di un programma di attività ludiche e culturali lungo le sponde del fiume, inventando o riscoprendo percorsi e relazioni tra la città e il fiume, tra sé e gli altri.
"Questa unità estensiva delle arti forma un teatro universale che mette in scena l'aria e la terra ed anche il fuoco e l'acqua. Le sculture vi sono rappresentate come personaggi veridici, e la città come uno scenario, di cui gli spettatori sono anch'essi immagini dipinte o sculture. L'inter arte diventa entità sociale, spazio sociale pubblico, popolato di danzatori barocchi." ( Gilles Deleuze, La piega, Einaudi, Torino 1990).
Comunicato stampa
"Ma là dove c'è pericolo, cresce
anche ciò che salva". (Holderlin)
STALKER
attraverso i Territori Attuali
Roma 5-8 ottobre 1995
Giovedì, 5 Ottobre 1995 alle ore 10 presso la stazione inattiva di Vigna Clara partirà un nucleo di ricercatori del laboratorio STALKER per inaugurare un primo itinerario attraverso i Territori Attuali.
I circa 15 ricercatori realizzeranno un percorso, tuttora inedito, che si snoderà circolarmente nelle aree interstiziali della città comprese tra l'anello ferroviario e il raccordo anulare.
Per compiere l'intero itinerario inaugurale è previsto un viaggio a piedi di 5 giorni durante i quali verranno percorsi circa 60 chilometri.
I Territori Attuali una volta inaugurati, costituiranno lo spazio cittadino dove esploratori, artisti e ricercatori di tutto il mondo potranno operare i propri percorsi sperimentali di ricerca oltre i confini del quotidiano.
Verranno attraversate: la valle del Tevere, nel tratto di Tor di Quinto; la valle dell'Aniene presso l'Acqua Sacra; le aree SDO; la Valle della Caffarella; il fosso di Tor Carbone; le Tre Fontane; Pian Due Torri; la Valle dei Casali; Valle Aurelia, per poi tornare, attraverso un tunnel dismesso lungo 4 Km. alla stazione di Vigna Clara.
Si va alla scoperta di un sistema territoriale diffuso, indefinito e metamorfico all'interno del perimetro urbano, fatto di aree dismesse e boschi, fossi, campi coltivati e pascoli, ruderi, forti, casali e torri medioevali, insediamenti abusivi, centrali elettriche, antenne, acquedotti e serbatoi dell'acqua, svincoli autostradali e tunnel ferroviari; dominato dai profili dei monumentali complessi di edilizia popolare che vi affondano dentro e dalle compatte pareti della città costruita che ne determinano i margini.
Spazi affascinanti, spesso privi di ogni rappresentazione, attraverso i quali intendiamo tracciare un primo percorso unitario di connessione, per sancirne il diritto all'esistenza, rivendicando, per questi luoghi un'autonomia di sviluppo, rifiutandoli all'espansione del costruito e alle banalizzanti regole economiche, per garantirne il carattere indefinito e metamorfico, atto al gioco, all' arte e alla ricerca attraverso l'attitudine al viaggio e all'ascolto, proprie, da sempre, delle società nomadi, con cui stabilire nuove e diverse relazioni con la natura e tra gli uomini.
Nei Territori Attuali si intende tracciare una rete di percorsi, delle porte di accesso, delle stazioni di scambio, attraverso cui penetrare la realtà mutante del pensiero e del territorio, fino adesso rimossa ma allo stesso tempo alimentata da un'incredibile quantità di scarti, materiali, immateriali ed umani. Tra questi scarti si schiudono nuove forme di vita, nuovi spazi, di fatto vergini, di cui vorremmo capire il senso e le possibilità di evoluzione. E' questa un’operazione che necessita la riformulazione delle categorie attraverso cui procedere alla descrizione nonché all' intervento in questi luoghi di cui si è perduta l'intelligibilità. Sperimentare nuove forme conoscitive attraverso la reintegrazione dei percorsi di ricerca dell'arte e della scienza, alla scoperta di inediti ecosistemi che ricompongano la lacerazione tra l'uomo e il proprio ambiente, la cui realizzazione torni ad essere la naturale espressione delle relazioni che vi hanno luogo.
STALKER
Attraverso i Territori Attuali
Roma, 5-8 ottobre 1995
Diario di viaggio
Siamo partiti ieri alle 11 di mattina dalla stazione di Vigna Clara, ma solo oggi si è raggiunto quel minimo di tranquillità per potersi dedicare al diario di viaggio.
Sono le 9 di mattina e ci siamo risvegliati in un campetto di calcio, deve essere opera della comunità di Albanesi che vive qui da presso in alcuni edifici abbandonati.
Andrea, il nostro "sherpa" dovrebbe essere già arrivato, con il suo fiorino rosso, per prendere con se le tende e i sacchi a pelo. Prima che arrivi proverò ad elencare alcune delle cose successe ieri.
La partenza da Vigna Clara non ha riservato sorprese, c'era molta soddisfazione per l'articolo con foto pubblicato su Repubblica, anche se i contenuti dell'articolo sono altamente inesatti rispetto all'operazione che abbiamo intrapreso, per non parlare della foto: bambini in un campo nomadi. Eravamo però entusiasti che apparissero, a caratteri cubitali, le parole Arte e Nomadi.
Lasciata la stazione in 10 abbiamo seguito il tratto di anello ferroviario non ancora completato, contavamo di incontrare Gregorio con le sue pecore, ma il pastore non c'era, forse è partito per una transumanza urbana, magari verso Roma sud.
Raggiunta la sponda del Tevere, con un fischio, chiamiamo Alfredo il pescatore. Lui appare subito su di un motoscafo, ci chiede mezz'ora di tempo per tornare con la chiatta e traghettarci sull'altra sponda. Torna anche prima e con estrema facilità traversiamo il fiume.
Percorriamo l'argine dell'Aniene, ne seguiamo le curve. Tra il fiume e gli argini, sui quali affaccia la città compatta, ci sono solo poche decine di metri ricoperti da un fittissimo canneto, solcato da un sentiero lungo il quale si aprono ambienti più ampi, anch'essi coperti con volte a canne, spazi abitati, qua e là qualche tenda o qualche baracca. Incontriamo solo un piccolo nucleo familiare, salutiamo, chiediamo informazioni che non seguiamo inoltrandoci dritti lì dove ci hanno detto che non si passa.
Piccio avanza rapidamente, lo ritroviamo più avanti che spiana farina su dodici grandi cilindri di cemento attraverso i quali avremmo dovuto passare. Quando tutti lo abbiamo raggiunto apre una bottiglia di vino e la versa tracciando una riga attraverso tutti i cilindri di cemento infarinati. Celebrata questa "porta" la attraversiamo cercando di trarre energie dalla sacralità dell'atto appena compiuto, qualcuno non si trattiene dall'esprimere considerazioni smitizzanti sulla qualità del vino.
Incontriamo delle vasche da bagno le percuotiamo forsennatamente, suonano come tamburi.
Più avanti alcuni cani ci sbarrano la strada, riusciamo a passare ugualmente, non senza un forte spavento si raggiunge il traliccio fognario sul quale abbiamo intenzione di attraversare l'Aniene.
L'operazione non è semplicissima, bisogna calarsi con le corde. Raggiunta l'altra sponda nuove complicazioni, ci troviamo a cinque metri sopra il piano di terra e non sappiamo come scendere.
Si invoca aiuto, dalla casa più vicina esce un uomo, gli si chiede una scala, con l'aiuto delle corde e della scala tocchiamo terra.
E' arrivato Andrea, è ora di ripartire. Un'ultima cosa, ieri all'appuntamento con lui siamo arrivati con un'ora di ritardo, alle 6, era quasi buio, appena in tempo per goderci lo spettacolo di tutti quei cilindroni gialli e blu, bocche di aerazione e ascensori della stazione della metropolitana di Quintiliani, che fuoriescono dal nulla nel bel mezzo di una valle verde e che suonano con ritmo regolare il passaggio veloce dei treni.
Si riparte.
Secondo risveglio. Siamo su di un acrocoro di tufo, il posto ha qualcosa della Monument Valley.
Abbiamo piazzato le tende su di una sella tra tre piccole cime. Qui sorgevano antiche cave di pozzolana e di tufo, siamo a due passi dalle Fosse Ardeatide e dalle catacombe di S. Callisto.
Ieri sera abbiamo fatto una grande grigliata con diversi ospiti, alcuni sono rimasti, così il gruppo è cresciuto. E' arrivato Marco, il marito di Giovanna, un secondo Guido, geologo, e Silvana. Si sono aggiunti alla comitiva originariamente composta da Aldo, detto Tromba, Giovanna, Massimo Martini, che non essendo più giovanissimo torna a dormire a casa ogni sera, Piccio, in realtà Francesco, Pinocchio da Paolo, Romolo, Valerio, che è anche mio fratello, Lorenzo, ovvero me. Ieri sera c'erano a cena anche Carlotta, Cecilie, Caroline e Ilaria.
Stamattina Ilaria è tornata per proseguire con noi, anche Andrea lascia il fiorino e viene con noi.
Andrea mi sta suggerendo di riflettere attorno alla parola “scarto”, per lui è una discrasia temporale, per Tromba, con cui ne discuteva, un rifiuto.
Vorrei dar maggior spazio ad una ricerca sulla etimologia della parola scarto, ma ho a cuore un' altra questione e pochissimo tempo per prenderne nota prima che si riparta.
Lì dove abbiamo dormito si riunivano gli antichi cristiani per celebrare, in segreto, i propri riti, quello spazio è altro rispetto alla città di Roma da duemila anni. Dobbiamo andare...
Risveglio alle 7.30 nel "dromodromo", viale non finito a sei corsie sovrapassato da numerosi e nuovissimi viadotti, da noi chiamato dromodromo, trattandosi di uno spazio estremamente adatto alle corse dei dromedari, a causa del fondo in sabbia battuta. Il viadotto che attraversa il viale vicino a dove siamo accampati, gode di una strana peculiarità. Non vi passa null'altro che pullmans turistici, una volta passano in un verso, vuoti, poco dopo nell'altro verso, pieni di turisti. Abbiamo studiato attentamente la questione. Una prima ipotesi è: tutti questi turisti hanno già saputo che qui vogliamo fare una corsa di dromedari. Ipotesi immediatamente scartata. Dopo una più lunga riflessione azzardiamo una teoria che non è affatto da escludersi. Visto l'importanza che assumerà l'industria del turismo in vista del prossimo giubileo, che sia stata installata proprio qui, sulla Portuense, una fabbrica all'avanguardia per la produzione di quei venti milioni di turisti, di cui tanto si parla, da realizzare entro il Duemila ?
Intanto è passato l'ennesimo pullman di turisti, li abbiamo fotografati. Attraverso i vetri fumé del pullman siamo riusciti a cogliere la loro espressione di grande stupore. Ci hanno visti, alcuni con paternalistica pietà ci hanno salutato, per decenza quasi nessuno ci ha fotografato. Ma quando ci siamo noi rivolti a loro con macchine fotografiche e telecamere, gli si leggeva in faccia la crisi di identità. Un gruppo di turisti tedeschi fotografati, al passaggio di un viadotto, da alcuni nomadi accampati là sotto. C'è da scommettere che alcuni di loro risentiranno per molto tempo ancora di questo shock.
Siamo partiti passando attraverso una meravigliosa valle coltivata principalmente a rosmarino e salvia, un posto quasi incontaminato, dove l'unico segno di una mutazione in atto erano cinque grandi gru smontate ed accatastate nei campi.
Lasciata la valle abbiamo raggiunto l'EUR, siamo passati per il luna park, e di qui abbiamo proseguito per l'ippodromo e il campo nomadi di Tor di Valle. Abbiamo attraversato campi in fiamme per raggiungere l'argine del Tevere. Abbiamo attraversato il fiume su di un ponte dell'acquedotto ACEA. Non eravamo tutti, un altro piccolo gruppo, composto da Aldo, Pinocchio e Piccio, si è mosso autonomamente. Noi siamo saliti sulla collina dominata dai ruderi del "trullo" da dove si godeva un profilo magnifico dell'EUR.
Abbiamo raggiunto l'appuntamento serale tremendamente stanchi e in ritardo. A stroncarci definitivamente l'accoglienza di decine di amici che erano venuti a vedere, chissà cosa. Alle prime difficoltà organizzative, avevamo scelto male il luogo per il campo e non c'era ancora la spesa per la cena, sono spariti tutti.
Ci siamo così installati in questo magnifico posto dove ora Guido, il geologo, sta suonando il clarino, il suono si diffonde attraverso tutti i bocchettoni aperti della fogna appena costruita.
E' ora di andare.
Ore 10.30. Sono a casa, mi sono appena svegliato. Il viaggio è finito.
L'ultimo incontro che abbiamo fatto è stato forse il più imprevedibile. Un istrice, nel bel mezzo di una galleria lunga più di 4 km. Nel film Stalker di Andrej Tarkovskij, da cui noi abbiamo tratto il nome per la nostra iniziativa, il soprannome della prima mitica guida attraverso la zona mutante è Porcospino. Forse si tratta di un semplice errore di traduzione. Quell'istrice che abbiamo incontrato questa notte forse non è altri che Porcospino che ci è venuto a salutare. D'altronde è più probabile trovare uno Stalker nel fondo di un tunnel che non un istrice.
Questa notte, usciti dal tunnel, abbiamo rimesso i piedi proprio lì dove quattro giorni prima eravamo partiti, il giro inaugurale dei Territori Attuali si è concluso, ne abbiamo tratto scarne ed imprecise descrizioni, tutto ciò che abbiamo fatto è stato camminare, essere in quei luoghi, attraversarli, legarci ai loro destini.
Ogni volta che abbiamo scavalcato un muretto o siamo entrati in un buco in una rete, abbiamo provato apprensione, ciò ha prodotto uno stato di grande attenzione verso i luoghi e verso ciò che vi succede. In questo stato abbiamo attraversato luoghi sconosciuti, anche se a volte dietro casa.
I Territori Attuali si sono disvelati, abbiamo la chiave d'accesso, sappiamo di doverci tornare per ascoltarne ancora la Voce, per cantarne le strade, per celebrarne i luoghi, ma anche per condurvi quant'altri ne sentano l'esigenza.
Mi torna in mente quel verso di Holderlin "Ma là dove c'è il pericolo / cresce anche ciò che salva". L.R.
Roma, Stalker attraverso i territori attuali, 5-6-7-8 ottobre 1995 |
Milano, Rotte d'abbandono attraverso l'arcipelago milanese. 12-13 Gennaio 1996 |
Manifesto Stalker
Milano 1996
STALKER
E' un soggetto collettivo che compie ricerche e azioni sul territorio, con particolare attenzione alle aree di margine e ai vuoti urbani, spazi abbandonati o in via di trasformazione.
Tali indagini si sviluppano su diversi piani, attorno alla praticabilità, alla rappresentazione e al progetto di questi spazi da noi chiamati Territori Attuali.
STALKER è assieme custode, guida e artista dei territori attuali, in queste sue molteplici vesti si dispone ad affrontare le apparenti insolubili contraddizioni attorno alla possibilità di salvaguardia tramite l'abbandono, di rappresentazione attraverso la percezione sensoriale, di progetto dell'instabilità e della mutevolezza di quei luoghi.
I TERRITORI ATTUALI
Costituiscono il negativo della città costruita, aree interstiziali e di margine, spazi abbandonati o in via di trasformazione.
Sono i luoghi delle memorie rimosse e del divenire inconscio dei sistemi urbani, il lato oscuro delle città, gli spazi del confronto e della contaminazione tra organico e inorganico, tra natura e artificio. Qui la metabolizzazione degli scarti dell'uomo, da parte della natura produce un nuovo orizzonte di territori inesplorati, mutanti e di fatto vergini, che Stalker ha chiamato Territori Attuali, indicando con il termine attuale il "divenir altro" di questi spazi.
L' attuale non è ciò che noi siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l'Altro, il nostro divenir-altro. (Foucault)
Tali territori risultano difficilmente intelligibili, e quindi progettabili, perché privi di una collocazione nel presente, e quindi estranei ai linguaggi del contemporaneo. La loro conoscenza non può che avvenire per esperienza diretta, possono essere testimoniati piuttosto che rappresentati, l'archivio di tali esperienze è l'unica forma di mappatura dei territori attuali.
ACCEDERE NEI TERRITORI
Percepire lo scarto, nel compiere tale passaggio, tra ciò che è sicuro, quotidiano, e ciò che è incerto, da scoprire, genera un senso di spaesamento, uno stato di apprensione che induce a una intensificazione percettiva, improvvisamente lo spazio assume un senso, ovunque la possibilità di una scoperta, il timore di un incontro indesiderato. Lo sguardo si fa penetrante, l'orecchio si dispone all'ascolto.
ATTRAVERSARE I TERRITORI
Stalker attraversa a piedi i Territori Attuali, è questo il modo individuato per essere in quegli spazi senza mediazioni, per partecipare delle loro dinamiche. Una ricerca nomade, tesa a conoscere attraversando, senza irrigimentare, omologare e definire l'oggetto del conoscere, per non impedirne il divenire.
Attraversare è per noi un atto creativo, vuol dire creare un sistema di relazioni nella caotica giustapposizione di tempi e di spazi che caratterizza i Territori Attuali.
Attraversare, vuol dire comporre in un unico percorso conoscitivo le stridenti contraddizioni che animano quei luoghi, alla ricerca di inedite armonie.
Attraversare e far attraversare, indurre alla percezione dell'attuale perché se ne diffonda la consapevolezza, salvandone però il senso dalle banalizzazioni del linguaggio.
PERCEPIRE IL DIVENIRE
Intensificare la percezione, disporsi all'ascolto è questa una condizione necessaria affinché i territori si disvelino a chi li vuole attraversare.
Disporsi a percepire il linguaggio inconscio del mutamento, interrogare senza la pretesa di descrivere e identificare.
E' trascendenza attuale, in quanto percezione inesauribile di significati esistenti in continuo movimento.
E' l'evento che sfugge senza sottrarsi. (Tiziana Villani)
E' percepire lo scarto di spazi atemporali in un continuum temporale.
L'obiettivo è quello di segnare una traccia del nostro contatto con quell'oggetto e con quello spettacolo, in quanto essi fanno vibrare il nostro sguardo, virtualmente il nostro tatto, le nostre orecchie, il nostro senso del rischio, del destino o della libertà. Si tratta di depositare una testimonianza, non più di fornire delle informazioni. (Merleau-Ponty)
ORGANIZZAZIONE FRATTALE DELLO SPAZIO URBANO
Stalker, confortato dagli studi sulle geometrie complesse, ritiene che la quantità di margine rispetto alla superficie sia indice di ricchezza di un organismo, essendo l'articolazione dei vuoti, alle diverse scale, a determinare la struttura stessa di un organismo. I vuoti, costituiscono quello "sfondo" sul quale leggere la forma della città che altrimenti apparirebbe omogenea, informe, priva di dinamiche evolutive complesse e quindi di vita.
CONTINUITÀ' E PENETRAZIONE DEI TERRITORI ATTUALI ATTRAVERSO LA CITTA'
Difendere i Territori Attuali, garantirne il massimo di continuità e di penetrazione all'interno dei sistemi urbanizzati, arricchendo e vivificando la città attraverso il continuo e diffuso confronto con l'inconosciuto, così che possano aver ricovero fin nei cuori delle città il selvaggio, il non pianificato, il nomade.
L'ABBANDONO
Il tentativo di definizione e di controllo di tutto il territorio, da sempre miraggio della nostra cultura occidentale, proprio mentre sembrava realizzarsi, inizia a fare acqua. Le prime crepe si sono aperte proprio nei cuori del nostro sistema, le grandi città.
Quel bosco che una volta cingeva città e villaggi, dove si nascondevano lupi ed orsi, ma anche gli incubi, le fantasie e l'idea stessa di libertà, è stato sospinto lontano dalle città, messo nell'angolo, circoscritto ed addirittura, con un atto di clemenza, protetto. Ed ecco che quel bosco risorge, proprio lì nelle città dove i sistemi di appropriazione e di controllo del territorio sono più vecchi, fatiscenti. Nell'impossibilità del controllo totale il cemento con il quale era stata ricoperta la terra si spacca, la terra ne fuoriesce in forme nuove e imprevedibili si prepara a contendere all'uomo il dominio dello spazio, partendo dai suoi stessi scarti. Prevedere l'imprevedibile, salvaguardare il divenire dei Territori Attuali abbandonandoli. L'abbandono è la massima forma di cura per ciò che è nato e si è sviluppato al di là della volontà e del progetto dell'uomo.
Walkabout Pasolini. Una strada blu d'asfalto. Roma Via del Mandrione 3-4-5 novembre 1995 |
Walkabout Pasolini. Una strada blu d’asfalto.
Via
del Mandrione. Roma
3-4-5 novembre 1995
In occasione del festival su Pasolini La Passione
organizzato da Art Department e Dark Camera, Stalker dipinge di vernice blu
trecento metri di strada asfaltata lungo la via del Mandrione in omaggio ad una
poesia erratica e senza titolo di Pasolini, che viene distribuita ai passanti:
“Correvo nel crepuscolo fangoso
dietro a scali sconvolti, a mute
impalcature, tra rioni bagnati
nell’odore del ferro
(...)
innalzavano pareti
recenti e già annerite, contro un fondo
di stinta metropoli
(...)
Intorno ai grattacieli
popolari, già vecchi, i marci orti
e le fabbriche irte di gru ferme
stagnavano in un febbrile silenzio;
ma un po’ fuori dal centro rischiarato,
al fianco di quel silenzio, una strada
blu d’asfalto, pareva immersa
in una vita immemore ed intensa
quanto antica
(...)
Tuttavia chi passava e guardava
privo dell’innocente necessità,
cercava, estraneo, una comunione,
almeno nella festa del passare e guardare.
Non c’era intorno che la vita: ma in quel morto
mondo, per lui, c’era come un presagio di Realtà.”
("Dai Diari 1943-1953.
Poesia con letteratura", il testo è
del 1951, stampato per la prima volta in "itinerari" del 1953
- in Walter Siti, a cura di, Pier
Paolo Pasolini, Tutte le opere, vol.1, collezione "I Meridiani",
Arnoldo Mondadori, Milano 2003, pp. 754-755)
Stalker Rundown
Omaggio a Robert Smithson
Ex cava di selce, via Laurentina
Roma 3.3. 1996
Testo inedito
Oggi Stalker ha portato a termine un’azione nei Territori Attuali, si è trattato di un omaggio a Robert Smithson.
E' il secondo omaggio che viene da noi realizzato nel territorio romano dopo quello dedicato a Pier Paolo Pasolini il 4 Novembre 1995 lungo la via del Mandrione.
L'azione ha avuto luogo in una cava di selce abbandonata, dove Smithson nel 1969 ha realizzato asphalt rundown, una colata di asfalto giù per un dirupo.
Unica traccia da noi rinvenuta della colata è stata la testimonianza di un ex operaio della cava che ricordava come lì fosse stato realizzato l'asfalto e poi gettato con un camion. Il sito a causa delle continue trasformazioni, la cava è stata abbandonata a metà degli anni Sessanta, è oggi profondamente mutato. Quella che nel 1969 era una landa desolata in pasto alle scavatrici è diventato un paradiso naturalistico, la vegetazione selvaggia si e riappropriata degli oggetti industriali disseminati nell'area, completamente arrugginiti, ora brillano color del fuoco, apparendo e scomparendo tra valli e colline artificiali, negli scavi più profondi si è raccolta l'acqua, è acqua corrente, realizzando zone umide abitate dai tritoni, ci sono colonie di uccelli, abbiamo trovato gli aculei di un istrice. Nei pressi del complesso di lavorazione della selce un grande anfiteatro, un'unica grande collina arcuata di selce tritata e poi abbandonata. Quella selce finemente tritata, assieme al bitume, serve a realizzare l'asfalto.
Ci torna alla mente l'esperimento di Smithson usato per provare l'irreversibilità dei processi entropici: "Figuratevi una scatola di sabbia divisa a metà, da una parte sabbia nera dall'altra sabbia bianca. Prendiamo un bambino e facciamolo correre per centinaia di volte in circolo dentro la scatola, fino a quando la sabbia si mischia e diventa grigia; dopodiché facciamolo correre alla rovescia, il risultato non sarà il ripristino della situazione originaria ma un grado maggiore di grigezza ed un aumento dell'entropia." Sempre Smithson nelle sue riflessioni camminando per Passaic parla ancora di bambini e di entropia: "L'ultimo monumento che ho visto era una scatola di plastica o meglio un modello nel deserto. Sotto la luce morta del pomeriggio a Passaic il deserto diventa una mappa della infinita disintegrazione e dell'oblio. Questo monumento di particolari minuti arde sotto un sole che irradia tristezza e suggerisce la tetra dissoluzione di interi continenti, il prosciugarsi degli oceani, non ci sono più foreste e alte montagne, tutto quello che è esistito è ora milioni di grani di sabbia, un immenso deposito di ossa e sassi polverizzati. Ogni grano di sabbia è una metafora morta che equivale all'assenza del tempo e per decifrare una metafora così bisognerebbe farne passare una attraverso il falso specchio dell'eternità. Questa scatola di sabbia sembrava una tomba aperta, una tomba su cui giocano i bambini allegramente." Non saranno quei bambini una metafora dell'umanità che manipolando la terra non fa che aumentare il caos e avvicinare la fine?
Eppure la cava di selce, uno spazio così manipolato dall'uomo, è ora un vivissimo ambiente, come se la terra fosse stata eccitata da tanti sommovimenti, e la natura offesa si fosse dedicata con tutte le forze a risorgere lì più ricca che altrove. Esiste forse un processo inverso all'entropia, in quegli stessi passi inconsapevoli dei bambini che giocano, un processo creativo che, per caso e per gioco, dispone la terra a nuova vita, in -parafrasando Robert Smithson- un gioco di riflessi tra passato e futuro?
Con questa speranza, come quei bambini abbiamo giocato allegramente su quell'ammasso entropico, ci siamo rotolati giù in ricordo della colata di asfalto.
Un’azione infantile con la quale abbiamo festeggiato la scoperta di quel posto, da noi oggi dedicato a Robert Smithson.
Roma. Aprile-Maggio 1996
Testo inedito
E’ una
manifestazione curata da Vittoria Blasi con Lorenzo Romito, e con il contributo
dell’ACEA e dell’ATAC. Stalker realizza tre progetti di arte urbana per
relazionarsi ad un pubblico involontario
di spettatori occasionali.
Fenomeni
quotidiani è un progetto pubblico, aperto ai passanti muniti di spirito di
osservazione. Gli autobus di Roma vengono tappezzati da migliaia di inviti in
cui si chiede ai cittadini di segnalare a una segreteria telefonica il luogo,
l’ora e le condizioni (pioggia, tramonto, passaggio di un treno...) in cui si
puo assistere ad effetti strani ed interessanti prodotti dalla luce naturale o
artificiale. Chiunque puo scoprire e svelare un fenomeno luminoso
assumendosene, come svelatore-autore, la paternità artistica. La promessa di
realizzare una mappa con le indicazioni per assistere ai fenomeni raccolti non
viene mantenuta.
Il
fuoco corre sull’acqua è un operazione che ha per supporto il percorso del
Tevere. Sulle acque del fiume si snoda una processione di trecento fiaccole
appoggiate su dei pezzi di legno raccolti alla foce di Fiumara. Da Ponte Duca
d’Aosta alle rapide dell’Isola Tiberina, dove le fiaccole si estinguono
salutate dai pendoli di fuoco di Paolo Buggiani, i turisti giapponesi consumano
le loro pellicole fotografando un fenomeno di cui non sono ancora riusciti a
comprendere la causa. La meraviglia dei turisti è tutt’altra cosa rispetto alle
aspettative del pubblico da noi invitato.
La struttura della città viene paragonata a
quella frattale delle galassie: un rarefarsi ed addensarsi della materia
intorno a nuclei di maggiori densità. Per tre sere un tram della linea 13,
allestito con luci e altoparlanti, dopo il count down della partenza attraversa
la città diffondendo percussioni e rumori di fondo interrotti dalla voce di
Tito Stagno che descrive in diretta televisiva il primo allunaggio. Un scia di
motorini segue il tram tentando di salire su quella che sognano essere una
discoteca ambulante.
Ex mattatoio di
Testaccio.
Roma. 1997
In occasione della
mostra Riciclart, arte e riciclaggio al mattatoio, curata da Giuliana Stella e
Crear, Stalker ricordando il legame Mattatoio-Mira Lanza, produce sul luogo
centinaia di saponette: cenere, soda e grasso animale dopo essere stati cotti
in un grande bidone vengono colati in casseforme e marchiate con la scritta
STALKER. Il processo viene mostrato su un bancone da lavoro, su cui sono
lasciati gli strumenti ed i materiali. Un percorso di paglia accompagna le
saponette tra i muri del mattatoio fino ad un installazione video nelle pese
degli animali. Alla fine della mostra le saponette sono quasi tutte sparite, e
vengono conservate da un pubblico feticista.
Sortir de Paris Stalker ( Francesco Careri, Aldo Innocenzi, Romolo Ottaviani, Lorenzo Romito) con Pierre Yves Argeant, Sandro Carbone ed il gruppo Arcitecture Urbane. Parigi, 15 marzo 1997. In occasione della mostra “Stalker” 18 marzo-11 aprile 1997, presso la Galery I.A.V., Institute d’Art Visuelles D’Orleans.
Stalker compie un percorso a piedi di circa 40 km, nel tentativo di uscire dalla città superando la “petite cinture”. Il percorso parte dalla stazione abbandonata di Fléche D’Ori per arrivare all’aeroporto Charles de Gaulle, percorrendo il Boulevard Peripherique, le zone abbandonate di Montreuil e proseguendo lungo i corridoi vuoti a fianco delle ferrovie, delle autostrade e dei canali. All’interno della mostra sono presentati materiali che documentano le transurbanze di Roma, Milano e Parigi. Vengono esposte tutte le mappe realizzate fino a quel momento riguardanti le transurbanze di Roma e Milano alle quali si aggiunge una mappa in tre moduli dedicata all’intervento romano. Quest’ultima, esposta in penombra in contemporanea alla proiezione delle diapositive, può essere esplorata dai visitatori con l’ausilio di torce, con un percorso nel percorso. Vengono proiettate le diapositive ed i video realizzati in occasione delle tre transurbanze e le mappe realizzate nell’occasione dell’esplorazione di Parigi e dei territori attuali di Orleans.
“Parigi è completamente satura,
al suo interno ci sono solo alcuni buchi tra cui la Petite Cintoure, la lunga
area dismessa del vecchio anello ferroviario. Si esclude l’ipotesi di
percorrerla interamente, e si decide invece di partire da una delle sue
stazioni abbandonate, la Flèche d’ori, nel tentativo di uscire dalla città per
arrivare all’Aeroporto Charles de Gaulle. Quaranta chilometri di deriva in una
sola giornata, in compagnia di Pierre Yves Argeant, Sandro Carbone ed il gruppo
Architecture Urbaine. Si attraversa il Boulevard Peripherique, poi le zone
abbandonate di Montreuil con i murs à peche, e si continua seguendo autostrade,
ferrovie e canali, unici corridoi liberi di non-città. Ci perdiamo in una ville
pavillonaire, ed è quasi notte quando il territorio finalmente si apre in vaste
zone di vuoto. Gli aeroplani sono sopra di noi. Nella stesso tempo della nostra
sortita per arrivare all’aeroporto, dall’aeroporto si arriva in ogni angolo del
mondo […].
E’ la prima mostra interamente dedicata al nostro lavoro. Presentiamo le mappe frattali di Roma, Milano, Parigi e Orléans, con le rotte dei viaggi compiuti. A queste si aggiungono due cartografie rosse: Tutte le strade tra Roma e Parigi, e Rosso su rosso. Ci sono le documentazioni video e le foto di tutte le esperienze di transurbanza compiute fino a quel momento. Per il catalogo viene stampato in migliaia di esemplari il manifesto stalker, contenente l’immagine planisferica di Roma e le riflessioni sul divenire inconscio degli spazi attraversati, nonchè una sorta di metodologia di lettura percettiva della città, con le rispettive referenze filosofiche ed estetiche”.
E’ la prima mostra interamente dedicata al nostro lavoro. Presentiamo le mappe frattali di Roma, Milano, Parigi e Orléans, con le rotte dei viaggi compiuti. A queste si aggiungono due cartografie rosse: Tutte le strade tra Roma e Parigi, e Rosso su rosso. Ci sono le documentazioni video e le foto di tutte le esperienze di transurbanza compiute fino a quel momento. Per il catalogo viene stampato in migliaia di esemplari il manifesto stalker, contenente l’immagine planisferica di Roma e le riflessioni sul divenire inconscio degli spazi attraversati, nonchè una sorta di metodologia di lettura percettiva della città, con le rispettive referenze filosofiche ed estetiche”.
Una mappa di Roma realizzata in tre moduli, 1997, acrilico su
stampa su poliestere 264 x 78,9 cm -
314x82cm - 335x 84 cm.
Tutte le strade
tra Roma e Parigi, 1997, indelebile rosso su stampa su poliestere, non
misurato. La mappa, che cerca una rapporto analitico con il territorio, è
accompagnata da due strisce fotografiche del volo Roma-Parigi.
Rosso su
rosso 1997. acrilico su stampa su
poliestere 182,5 x 88 cm. Come se le strade fossero
vene che attraversano la carne, rappresenta il territorio compreso fra
Romartin e Blois, riferendosi esplicitamente alla deambulazione dei surrealisti
del 1924.
Arcipelago Orleans 1997, acrilico su
stampa su poliestere 113 x 84,5cm.. viene qui indagato il territorio nei
suoi vuoti e nei suoi pieni.
Parigi Frattale, Mappa non presentata su Parigi, 1997, acrilico su stampa
su poliestere, non misurata. Con una interpretazione libera del calcolo dei
frattali le macchie rosse ipotizzano le porzioni del territorio da svuotare.
Gran Tour. 100
campeggi per Roma.
Palazzo
delle Esposizioni. Roma. 1997
Per la mostra Città - Natura, curata da Carolyn Christov-Bakargiev, Massimo Ilardi ospita Stalker all’interno della sezione urbanistica. La prima proposta di una situation room, in cui invitare artisti e architetti a rappresentare in tempo reale le dinamiche inconscie della città, non viene accolta. Si realizza invece un progetto pubblico per la libera transurbanza: un invito ai cittadini a individuare e comunicare cento zone in cui desidererebbero pernottare. Cento campeggi da mettere in rete all’interno dei territori attuali per viaggiare all’interno del binomio città-natura. Su di una grande mappa che rappresenta l’arcipelago frattale di Roma vengono indicate con dei picchetti le zone in cui Stalker ha già pernottato; un video alterna installazioni ambientali di tende a tratti del giro di Roma; un libretto accoglie i desideri ed i dubbi dei cittadini.
Agnese: Lido di Ostia
Firma illegibile: Giardini vaticani
P.zza S. Pietro
Giardini del Quirinale
Piazza del Campidoglio
Piazza Montecitorio
Francesco: Villa Pamphili
Teresa: Villa Farnesina
Flaminia: il tetto del poligrafico dello Stato,
Piazza Verdi
Carlotta: siti sacri antichi
Giotto: suite del Plaza
Firma illegibile: l’idroscalo
B.M.: Piazza San Pietro
Luca: Monte Mario (per fare l’amore con Mary)
Barbara Martuscello: sotto casa di Silvia Rossi in
Via Clelia
Anonimo: Viale Marconi n°440 – 450
Eleonora ’97: Villa Adriana
Barbara Martuscello: Piazza Zama al posto del
capolinea dei Bus
Piazza Epiro al posto del mercato
Piazza Lodi al posto di quel che già non c’è
Piazza Re di Roma al posto della piattaforma di cemento
Nel mini parcheggio all’ingresso della Stazione Tuscolana
Via Appia di fronte alla libreria Tuttilibri
Anonimo: Forte prenestino
MSP: Sotto lAccademia di Belle Arti
Emiliano di Pescara: nelle case di persone conosciute
Ale: Fori romani
Graziano: sulle piste di Fiumicino
Luca e Alessia: dentro l’alimentari di Via Salaria
Paola, Tommaso e Susy: Gianicolo
Guy Salbara, norvegese: Piazza Mattei accanto alla
fontana delle tartarughe
Claudia: Villa Borghese
E.R.: Circo Massimo
AnnaRita Lombardo: giardini di Castel S.Angelo
Firma illegibile: Spinaceto
Abstract Tour Operator
Berlino 1997
Alberovia
Villa Medici. Roma. 1998
Siamo stati invitati
alla mostra La ville, le jardin, la
memoire, curata da Carolyn Christov-Bakargiev, Hans Ulrich Obrist e
Laurance Bossé. Villa Medici è un recinto chiuso sottratto alla frequentazione
del quotidiano, un ispessimento delle mura di un centro storico ormai
trasformato in parco tematico con “tesori” archeologici da scoprire. Il
progetto è quello di attraversare la villa senza entrarvi, collegando con un
percorso aereo il Viale di Trinità dei Monti con il Muro Torto. Un primo
tentativo di costruire un percorso praticabile, si scontra con i vincoli
storico-ambientali. Si realizza una sorta di ponte tibetano in corda di
ciniglia arancione, che si snoda per trecento metri appendendosi ai pini della
villa. E’ la rappresentazione di un desiderio. Un oggetto che non intende
avverare desideri, ma suscitarne di nuovi.
Milano attraverso Stalker
Architettura in movimento. Galleria Opos Milano 1998
Attraversare
e far attraversare, percepire con i sensi i luoghi attraversarti. Scoprire, nei
coni d'ombra di un territorio solo apparentemente evidente, la sedimentazione
di frammenti di memorie in abbandono e l'insorgere di possibili futuri in lotta
per diventare realtà, frammenti che affiorano casualmente legati dall'unicità
di una esperienza: il percorso.
I
percorsi che noi realizziamo sono pratiche insieme esperienziali e conoscitive,
svolte con attitudine ludica e curiosità, azioni dinamiche e unitarie
attraverso la frantumazione spazio-temporale del territorio contemporaneo.
Architetture trasversali attraverso cui scoprire, varcando limiti e
costeggiando margini, processi e relazioni altrimenti invisibili.
Rappresentare
tali esperienze all'interno di un contesto chiarificato e determinato, quale è
una galleria, è per noi una operazione difficile, poiché l'oggetto delle nostre
ricerche non è distinguibile dalla modalità con cui tali ricerche vengono realizzate:
non esiste percorso senza territorio.
E' per questo che abbiamo pensato di
far viaggiare il visitatore attraverso il territorio delle nostre esperienze
così come noi viaggiamo attraverso altri territori.
Trasformeremo la galleria in un
territorio di immagini, testi, cartografie, testimonianze dei nostri viaggi, un
mare di fogli accartocciati in cui ci si trova immersi e attraverso cui
realizzare l'esperienza fisica di un viaggio in Stalker.
Un viaggio attraverso la sedimentazione
di memorie, dove frammenti di una esperienza, compongono un territorio di
scarti che rifiutano l'evidenza, ma che si lasciano "spiegare" da chi
ha ancora curiosità e voglia di giocare.
La nostra esperienza si fa territorio,
un territorio caotico, dinamico e instabile, animato dagli stessi visitatori,
liberi di realizzarvi i propri percorsi, soggettivi e casuali, di avvicinamento
alla nostra ricerca.
E'un gioco, che disponendosi a
molteplici e infinite letture offre l'opportunità non solo di scoprire il
nostro lavoro, ma anche di esperire la modalità con cui tale lavoro si esplica.
Stalker
Si invitano tutti i visitatori a realizzare una esperienza
attraverso il nostro territorio, liberi di "spiegare" e portar via le
testimonianze e frammenti che più interessano, con l'unica raccomandazione di non fumare.
Frequentazione Orizzontale
Galleria A.A.M. Roma I998
Frequentare il
territorio della galleria, dilatarlo ed abitarlo in quegli spazi ed in quei
tempi in cui si sottrae agli sguardi, questo è il senso dell’operazione
condotta per la mostra Orizzontale - Verticale, curata da Francesco Moschini e
Gianfranco Neri, alla quale partecipa anche il gruppo Sciatto.
Lo sguardo consuma
lo spazio e lo spazio vive, quando non è visto, una vita propria, spontanea ed
autonoma. Passare la notte con lui, dormirlo, permette a lui di mostrarsi ed a
noi di frequentarlo in stato di incoscienza. Abbiamo dormito qui nel corso
della mostra che ci ha preceduto, abbiamo portato qui le nostre cose, il nostro
tavolo e il nostro telo di cotone, un abito che unifica spazi esterni ed
interni varcando i confini dello spazio espositivo. Un percorso-dimora che
permette all’andatura verticale del nomade di prendere le forme della
sedentarietà orizzontale. L’atto quotidiano del dormire, come quello del
camminare, si fa azione estetica. L’abitare inconscio costruisce, modificando
la percezione dello spazio, nuove architetture.
Si invita il
pubblico a sdraiarsi nel telo (massimo due persone per volta) e a dormire una
notte in galleria. Consigliamo i cortili esterni nel caso non piova.
Campo Boario
Esistono ovunque nelle grandi città, ma soprattutto nelle città del mediterraneo, delle strane pieghe dove la ripetuta sovrapposizione di margini consente al corso del tempo di sedimentare lì frammenti eterogenei di spazi e di tempi diversi da quelli che la città stessa vorrebbe riuscire ad affermare, frammenti di altrove che col tempo diventano humus, si territorializzano, garantiti dalla marginalità e dallo scarso controllo, danno vita a forme congenite di diversità.
Si tratta spesso di aree di scarto, prossime alle porte della città, ai porti per le città di mare, e alle stazioni in tempi più recenti. In una città come Roma dove è la mano del tempo piuttosto che quella dell'urbanista a disegnare lo spazio un territorio di questa natura riesce a sopravvivere ancora oggi nel cuore stesso della città.
Proprio lì dove anticamente era il porto fluviale,in un angolo del centro storico, stretto tra le mura aureliane, la ferrovia e il Tevere si trova il complesso dismesso del Mattatoio, assieme al Monte Testaccio e al cimitero acattolico. Una posizione marginale, nello stesso tempo eccezionale, che riesce a garantire a Testaccio una sorta di diversità dal resto della città. Non a caso il segno fisico più rappresentativo dell'area è il Monte Testaccio, frutto del sedimentare dei resti delle anfore con cui i romani trasportavano vino, olio e altre mercanzie. Un monte di scarto, meticcio divenuto col tempo genius loci di questo angolo di città.
Sotto il Monte Testaccio, verso il fiume si distende il Mattatoio, complesso edilizio d'inizio secolo dismesso nel 1975. E' diviso in due grandi aree, il Mattatoio vero e proprio e il Campo Boario. Il
Mattatoio, solo recentemente aperto ad uso pubblico, è stata per decenni ermeticamente chiuso e isolato dal contesto. La possibilità di sbirciare all'interno, ha stimolato, come in ogni città proibita, la curiosità e il desiderio dei cittadini, così come i sogni degli artisti e i progetti degli architetti.
D'altro canto il Campo Boario, pur recintato, ma con le porte aperte, ha visto succedersi una quantità infinita di eventi, di usi e di appropriazioni dello spazio. Lì hanno occupato alcune stalle per i cavalli i conducenti delle carrozze, chiamate botticelle, che fanno servizio turistico nel centro storico, da anni è usata come area di transito dai Calderasha, nomadi italiani che lavorano il metallo, vi ha luogo anche un centro sociale, il Villaggio Globale, nonché una piccola comunità di senegalesi, alcuni altri immigrati in ordine sparso e perfino una palestra e un ristorante palestinese. Così mentre il Mattatoio è pieno di strutture vuote, prive di uso, il Campo Boario è una enorme area vuota, ricca di usi diversi.
Più attenti all'ascolto e all'uso dello spazio che non alla astratta pianificazione frutto di un altrettanto astratto desiderio (che di concreto ha spesso solo interessi speculativi), Stalker è intervenuto sull'area proprio in occasione dell'apertura al pubblico del Mattatoio, quest'anno, con la Biennale dei giovani artisti del Mediterraneo. Lo abbiamo fatto, con un workshop, per far fronte ad una emergenza civile alla quale sentivamo che la città dovesse provare a dare una risposta: uno spazio di legittimazione, poche centinaia di metri quadri per esistere non solo come individui ma soprattutto come società civile, così centinaia di Kurdi in esilio, molti dei quali arrivati a Roma al seguito di Ocalan, hanno costruito Cartonia a due passi dal Colosseo, nella speranza di mantenere una visibilità internazionale, di ricordare il loro dramma. Cartunia oggi è stata smantellata: era uno spazio architettonicamente inconsistente, interamente fatto di baracche di cartone, eppure un raro esempio di spazio pubblico contemporaneo. C'erano un piccolo ristorante, una sala da te, due barbieri e degli spacci alimentari. Che sia stata smantellata, non può voler dire far sparire il problema dei Kurdi.
Obiettivo del workshop è individuare uno spazio pubblico dove progettare e realizzare un foro kurdo, una nuova piazza Kurdistan, dove sia pensabile il trasferimento, in forme minimali e meno aleatorie, di quello spazio da loro voluto e costruito per riconoscersi e far conoscere la propria causa. Uno spazio, frutto di una relazione, quella tra la città e i Kurdi, tutta da inventare. Uno spazio pubblico, di scambio e di confronto, che possa costituire una ricchezza per la città e per un intero popolo.
E' così che è nato, al Campo Boario, l'Ararat:
Il 21 maggio l'edificio dell'ex veterinario del Foro Boario, un immobile abbandonato allo spaccio di eroina e al degrado sociale, è stato occupato per sperimentare una nuova forma di spazio pubblico fondata sull'accoglienza e l'ospitalità. Un territorio dove verificare direttamente le potenzialità di relazione tra l'attività artistica, la solidarietà civile e la trasformazione del territorio.
L'edificio è stato ribattezzato con il nome di Ararat, monte leggendario che emerse dal Diluvio Universale, caro alle memorie dei profughi curdi dell'esodo. E' il monte dei curdi e degli armeni, le principali minoranze martoriate dall'espansionismo Kemalista, ma è anche uno dei territori simbolici sottratti dal nazionalismo turco alla memoria delle genti oppresse del Kurdistan.
La costruzione di questo spazio è stata possibile grazie allo sforzo dei profughi curdi, dell'associazione Azad, del Villaggio Globale, e degli artisti, architetti e studenti di architettura che hanno partecipato al workshop " Da Cartonia a Piazza Kurdistan" curato da Stalker per la sezione architettura, curata dall'IN/Arch, all'interno della Biennale dei Giovani artisti dell'Europa e del Mediterraneo.
Durante i giorni del workshop gli studenti e i profughi curdi hanno realizzato per il centro multietnico la sala da tè, la cucina, il barbiere, la sala di lettura e gli spazi abitativi. L'intero edificio continuerà a trasformarsi nel tempo attraverso nuove iniziative artistiche, culturali e politiche.
Ararat è dunque un progetto per trasformare un confine in uno spazio pubblico.
Il confine è quell'insieme di distanze e differenze che ci dividono da chi arriva in città dopo essere stato costretto ad abbandonare il proprio Paese di provenienza. Tali distanze e differenze non trovano ancora in questa città luoghi dove dispiegarsi, restando perlopiù impercorribili.
Per chi vive in città e necessariamente si confronta con l'evidenza dei fenomeni di immigrazione, non esiste un percorso di avvicinamento, ci si ritrova sotto gli occhi la presenza dell'altro senza aver coperto alcuna distanza nel tentativo di avvicinarsi e di comprendere. Questa evidenza, accompagnata dalla banalizzazione che ne fanno spesso i media, rende tale confine trasparente e allo stesso tempo insormontabile, condannando all'emarginazione e al silenzio culture compresenti in città ma che non si può dire che convivano in assenza di spazi di rappresentazione della propria identità ma soprattutto di relazione e di confronto con il resto della cittadinanza.
Nel tentativo di dare spazio a questo dispiegarsi di differenze, vorremmo dare a questo confine la visibilità, la consistenza e la vivibilità di uno spazio pubblico.
L'Ararat intende essere uno spazio promiscuo dove si possa, attraverso spazi e comportamenti conviviali, di ascolto e di espressione, frequentare e abitare quelle distanze e quelle differenze.
Entrando nelle delicate dinamiche di convivenza nell'area siamo venuti a contatto con il grande sforzo di solidarietà e di promozione interculturale svolto dal Villaggio Globale da più di dieci anni. Un lavoro sul campo fatto di impegno e presenza nella gestione quotidiana di difficili convivenze, di contenimento del degrado, ma anche di progettualità. Qui infatti è nata l'idea di un progetto di recupero attento e solidale di quel territorio, che fa della caoticità e della marginalità del Campo Boario, la principale risorsa per un rilancio non solo urbanistico ma anche ambientale e sociale dell'area. A questo progetto abbiamo aderito con l'intento di istruire un laboratorio di ricerca interdisciplinare, in un territorio paradigmatico di una realtà caotica ma viva e per larghi tratti solidale, quale è il Campo Boario.
Oggi, davanti alle ennesime ipotesi di riqualificazione dell'area invitiamo l'amministrazione e la cittadinanza a comprendere che Il Campo Boario è un luogo unico a Roma, espressione caotica, ma anche estremamente complessa delle contraddizioni della città contemporanea, un luogo che non ha bisogno di una tabula rasa per essere reinventato, ma di una attenta operazione di ascolto e di interazione creativa, affinché la marginalità che lo connota si possa emancipare e dar luogo ad un laboratorio unico nel suo genere, dove l'arte possa contribuire, calandosi al centro delle contraddizioni, a elaborare nuovi modelli di convivenza, ovvero a trasformare quel luogo di confine in uno spazio pubblico. Un laboratorio qualificato sotto il profilo culturale, politico e tecnico, dove le diversità vengono messe in scena e le contraddizioni, trovando luogo di espressione e di confronto, fungano da stimolo progettuale.
L'Università Nomade di Stalker
Roma, giugno 1999. Nel programma della Biennale dei Giovani Artisti dell'Europa e del Mediterraneo, tra i diversi workshop di paesaggio, fotografia e architettura d'interni, una materia chiamata "Stalker" viene presentata ai potenziali studenti in questi termini: "un seminario nomade che indaga nuove modalità di abitare e di essere cittadini di Roma, (…) un'esplorazione della nuova realtà metropolitana, un viaggio nell’habitat dei Curdi a Roma". A parte la cripticità dell’argomento, a differenza degli altri seminari, qui Stalker figura sia come insegnante che come materia di studio.
Stalker professore e Stalker materia didattica. Questa nuova e del tutto inedita veste pedagogica ci obbliga da subito - in quanto Stalker - a porci alcune domande: può Stalker essere una "materia didattica", un "sapere" insegnato da alcuni e appreso da altri? e ancora, può l'attività didattica rientrare negli interessi e nelle attività di Stalker? e dunque, in fondo, perché insegnare, che cosa insegnare, come insegnare? e poi ancora un ultimo dubbio, chi è l’insegnante? Come può Stalker organizzare un workshop quando intende farlo "in gruppo" e quando il "gruppo" non è quello degli studenti ma degli "insegnanti", ossia una tribù di numero quasi uguale al numero degli studenti?
In realtà a queste domande Stalker non ha mai voluto dare una risposta. Nel corso dei due anni trascorsi al Campo Boario ha praticato sul terreno - organizzando anche nuove occasioni "didattiche" - le contraddizioni insite in quelle domande, e forse solo oggi che l'esperienza al Campo Boario sembra passare ad una nuova fase si può provare a cominciare a rispondere: Stalker si può insegnare? Si, forse il termine non è proprio "insegnare", ma Stalker è un qualcosa che si può condividere e quindi trasmettere, e al Campo Boario esistevano le condizioni perché la trasmissione avvenisse. In quel primo workshop in realtà eravamo noi stessi nella condizione di voler imparare, ci trovavamo di fronte un mondo mai affrontato prima e non potevamo indossare le vesti degli insegnanti ma casomai condividerle con quelle dei nostri studenti. Abbiamo così deciso di invitare ancora altri insegnanti – persone con cui volevamo condividere quell’esperienza - e abbiamo trasformato anche i nostri studenti in insegnanti: ci siamo cioè messi al centro del flusso della trasmissione funzionando da catalizzatori tra i due poli. In questo modo si poteva contemporaneamente imparare e trasmettere ad altri - e quindi a noi stessi - ciò che stavamo imparando, si poteva partecipare ciò che insieme stavamo divenendo, o meglio si riusciva a condividere il nostro divenir altro.
Con il tempo ci siamo convinti che le modalità desunte dall'esperienza al Campo Boario potevano essere applicabili anche in altre situazioni. È nata dunque l'idea di prolungare in altri contesti una forma di apprendimento e trasmissione che potesse spostarsi in diversi luoghi e intervenire incidendo direttamente e istantaneamente sulla realtà. A questa cosa abbiamo dato il nome di Università Nomade e abbiamo cominciato a praticarla traendone alcuni insegnamenti che possono essere utili non solo per diventare architetti o urbanisti, ma per essere semplici cittadini.
Nell’Università Nomade gli studenti – e quindi anche noi - si trovano spesso in situazioni in cui è già troppo tardi per intervenire, figuriamoci per progettare. Ci si trova a mettere in piedi in poco tempo e senza soldi una sorta di pronto intervento spaziale basato solamente sulle nostre capacità di adattamento e di organizzazione. In queste condizioni si deve ri-imparare a liberare quella creatività spesso repressa e a recuperare quell’istinto all'autodeterminazione del proprio ambiente e quella primordiale attitudine all’appropriazione dello spazio urbano oramai andata dimenticata tra nozioni didattiche e barriere disciplinari di vario genere. Si deve ritrovare tra le nostre capacità, quella innata attitudine al gioco delle relazioni che ci ha permesso in altre occasioni di condividere lo spazio con altri: comprendere velocemente quali sono le regole del gioco, capire quali sono le leggi interne di un territorio, osservare che cosa vi accade, dove sono i confini non tracciati e che risultano a prima vista invisibili, in poche parole cosa è bene fare e cosa assolutamente non si deve fare e poi una volta capito farlo con poesia. Tutto ciò non è un processo scontato. Per chi partecipa a un nostro workshop, è spesso la prima volta che si trova a realizzare una propria "architettura" nello spazio pubblico, e a volte il primo istinto è quello di firmare un luogo con dei graffiti oppure di mettere in ordine e raccogliere l'immondizia per trasformarla in inutili oggetti "trash". Bastano poche ore per comprendere che tutto ciò resta inefficace a produrre spazio pubblico. Un altro atteggiamento è quello di instaurare un contatto con gli abitanti cercando di risolvere i loro problemi. In pochi minuti veniamo trasformati in assistenti sociali e ci troviamo a risolvere problemi e conflitti che hanno veramente poco a che fare con la trasformazione dello spazio. Ma tra l’0pera d’Arte e il Volontariato Ecumenico ci sono in realtà una infinità di possibilità e di sfumature. Il difficile sta nel non cadere nelle trappole preparate dalla nostra cultura e di essere invece capaci di utilizzare il territorio come medium, come una sorta di interlocutore attraverso cui è sempre possibile porsi nuove domande e trovare nuove risposte. Semplici operazioni come celebrare i luoghi, trovare e inventare nuovi riti e nuovi miti, nuovi nomi e nuovi toponimi, costruire dispositivi e oggetti conviviali, essere catalizzatori per processi già in atto, ci sono sembrate delle appropriate modalità di intervento di una disciplina che può ancora chiamarsi architettura. L’architettura è ancora "trasformazione dello spazio", ma per "spazio" si deve intendere una parola più vasta che non significa solo spazio geometrico-proporzionale, ma anche spazio vissuto, spazio sociale e quindi spazio politico, e allo stesso modo anche per "trasformazione" non si deve intendere solo progettare una pur bellissima mutazione dello spazio ma mettere in moto un processo in cui noi stessi veniamo trasformati.
Cercando di andare oltre l'ampliamento dei confini disciplinari abbiamo trovato una modalità di intervento in cui l'esperienza didattica non si conclude in sé, ma resta indefinitamente aperta sia per gli insegnanti che per gli studenti. Nella nuova veste di insegnanti, piuttosto che metterci in cattedra, abbiamo voluto costruire un dispositivo di ascolto in cui pseudo-insegnanti e pseudo-studenti apprendono dal territorio (inteso quindi come territorio vissuto) e trasmettono ad altri pseudo-insegnanti/studenti (e quindi anche agli abitanti del territorio), cercando di costruire uno spazio pedagogico in cui didattica e ricerca possono finalmente fondersi nella trasformazione dello spazio. In realtà, infatti, ciò che ci aveva spinto a trasformare in forma pedagogica la nostra esperienza era proprio il fatto che a noi tutto ciò era mancato: nessuno nella nostra formazione di architetti o di cittadini ci aveva mai proposto di trasformare la realtà, nessuno ci aveva proposto da studenti un salto dalla teoria disegnata alla teoria praticata sul terreno e nessuno ci aveva tolto per qualche giorno dagli spazi astratti dei computer e delle biblioteche per farci intervenire nel vivo della città, nelle tre dimensioni dello spazio reale e in contesti sociali difficili. Nell’Università Nomade l'unica cosa che chiediamo agli studenti - e quindi anche a noi stessi - è di essere capaci di abitare lo spazio vissuto, di riuscire a comprenderne le vocazioni, di svelarne i valori estetici simbolici e politici, di arrivare a rendere visibile ciò che prima era invisibile e accessibile ciò che era inaccessibile, in una parola di trovare spazi e renderli pubblici: essere capaci di produrre spazio pubblico.
L'Università Nomade è solo all’inizio.
Per una Università Nomade
“Quali nuove regole del gioco sociale indurranno a non sprecare alcuna competenza, nessuna qualità umana?
Come far capire a tutti che l’altro è il depositario unico di competenze e creatività?
Come riuscire a passare a organizzazioni intelligenti nel loro complesso?
Ecco alcune delle domande che si pone l’ingegneria del legame sociale, questa tecnica molecolare della politica ancora tutta da inventare.”(…)
“Il collettivo intelligente è il nuovo volto della città democratica.
Mossa da questo ideale, la “politica molecolare” allenta la stretta dei poteri territoriali, sospende momentaneamente l’azione dei circuiti deterritorializzati dell’economia mondiale per lasciar giocare, in seno al vuoto così ottenuto, i processi rizomatici, le sfaccettature e i risvolti dell’intelligenza collettiva. Non si tratta di formulare un programma, di dare un “contenuto”, ma solo di abbozzare alcune regole del gioco. In particolare vorremmo evitare che l’intelligenza collettiva si bloccasse su un obiettivo, o si reificasse su uno dei suoi aspetti interni, o su una certa fase della sua dinamica, quando l’essenziale è il movimento autonomo, il processo creatore in sé. (…)
La città intelligente ha per finalità la propria crescita, la propria proliferazione, la propria estensione, il ritorno su di sé e l’apertura al mondo.
In una prospettiva politica le grandi fasi della dinamica della intelligenza collettiva sono l’ascolto, l’espressione, la decisione, la valutazione, l’organizzazione, la connessione e la visione, e ciascuna di esse a sua volta rinvia a tutte le altre. (Pierre Levy, L’intelligence collective, Paris 1994, Milano 1999)
“... esporremo una interpretazione che non concepisce il conoscere come una rappresentazione del ‘mondo là fuori’, bensì come permanente produzione di un mondo attraverso il processo stesso del vivere.” ( H. Maturana e F. Varela, El arbol del conocimiento, Santiago 1984)
La Struttura: L’Università Nomade
L’Università Nomade è un soggetto creativo, una intelligenza collettiva, contestuale e partecipe delle realtà indagate.
L’Università Nomade si dispone ad abitare, comprendere e descrivere criticamente ambienti transitori, marginali e di confine con l’obiettivo di contribuire alla loro evoluzione creativa.
L’Università Nomade contesta all’attuale sistema universitario, l’assenza di interdisciplinarietà e l’abissale distanza dai contesti reali che pretende di studiare, nonché lo sclerotico sistema gerarchico e l’esasperato formalismo.
L’Università Nomade non è una struttura parcellizzata né verticalmente in classi gerarchiche, né orizzontalmente in comparti disciplinari. Opera in termini di ricerca e formazione senza soluzione di continuità, mantenendo fluido il sistema di relazioni che la tiene unita e che la lega all’ambiente abitato/osservato.
L’ambito di ricerca: la marginalità
Il configurarsi di una nuova geografia, caratterizzata dall’affermarsi di diversi concetti di distanza - sempre meno legati ai tradizionali rapporti di prossimità - e dal conseguente, spesso istantaneo e violento, contatto di realtà diverse, genera ovunque nel mondo alternativamente: conflitti e commistioni. Conflitti lì dove i confini vengono marcati, commistioni lì dove in assenza di strumenti di intervento certi ai confini si sostituiscono frontiere, ambiti di marginalità più estesi dove, come in un limbo, vengono, per distrazione o per incapacità di intervenire, lasciati accadere fenomeni di promiscuità e di incertezza.
Sono proprio questi territori i luoghi nei quali si sta attualmente giocando la ridefinizione della nostra società e del nostro ambiente in transito verso un futuro incerto.
Si tratta di territori di frontiera e interstiziali:
Di frontiera perché costituiscono i luoghi fisici al margine della nostra società dove si affrontano problematiche di cui non si conoscono gli esiti.
Interstiziali, perché tali problematiche, attraversano trasversalmente lo spazio urbano. Territori vitali dove, attraverso strategie di sopravvivenza, si sperimentano usi primari dello spazio, inedite relazioni ambientali e sociali, a cavallo tra retaggi del passato e presagi di futuro.
Quali sono le caratteristiche di questi territori dell’incertezza? Indeterminazione, mutevolezza, promiscuità, ma anche attesa, sospensione del giudizio, incapacità di decidere, che genera paura, rimozione, rifiuto di guardare a quanto non si riesce a comprendere e quindi ipocrisia, criminalizzazione dell’altro e dello sconosciuto oramai terribilmente vicino.
Gli strumenti di indagine
L’incertezza è tanto più destabilizzante quanto più affrontiamo il suo territorio con degli strumenti di osservazione inadeguati, retaggio di una società delle certezze, atti a determinare piuttosto che a comprendere. Strumenti incapaci di cogliere fenomeni instabili, che si preferisce nascondere sotto una coltre di indifferenza e timore sociale.
La naturale incertezza dei processi, è osteggiata da un paradigma dominante incapace di vedere e rappresentare molte delle energie che stanno attualmente ridisegnando le geografie politiche e economiche dell’Europa contemporanea.
Dobbiamo pertanto reinventare gli strumenti di indagine consapevoli che:
“Tracciare una mappa del territorio sociale che sta emergendo è una necessità morale e a questo compito devono contribuire con umiltà coloro che producono conoscenza”. (A. Melucci Culture in gioco, 2000)
Ma anche che:
“Non ci sono strutture che esistano oggettivamente; non c’è alcun territorio predeterminato di cui possiamo tracciare una mappa; è l’azione stessa del tracciare una mappa che genera le caratteristiche del territorio.” ( F. Capra The web of Life, 1996 )
L’esperienza del Campo Boario e la ricerca di un metodo d’intervento
Il lavoro al campo Boario è un esempio di intervento sul territorio, nel quale l’investigazione dei fenomeni in atto, l’interazione con essi - attraverso strategie ludiche e relazionali - e l’innesco di processi di trasformazione sono tratti difficilmente distinguibili.
Attraverso lavori nei quali al progetto si sostituiscono dispositivi (trappole?), attraverso pratiche incerte (sperimentali?) abbiamo tentato di affrontare la conoscibilità, la praticabilità e la trasformabilità, di quegli ambiti territoriali e sociali che per la loro indeterminatezza e promiscuità mettono in crisi i consolidati metodi di intervento.Approcci sperimentali attraverso cui si tenta di configurare una modalità per la comprensione e l’intervento all’interno di quei territori e paesaggi umani che rappresentano - proprio per la loro incertezza intesa come indeterminatezza e potenziale complessità - gli ambiti concreti che maggiormente sfuggono alla conoscenza e quindi al progetto.
Esser presenti affinché stalker abbia luogo
(da uno stalker ad altri stalker)Che vuol dire amico, quando diviene personaggio concettuale, o condizione dell’esercizio del pensiero? Ovvero amante, non è forse piuttosto amante? E l’amico non reintroduce persino nel pensiero un rapporto vitale con l’altro che si era creduto di escludere dal pensiero puro? (Deleuze/Guattari)
Sono combattuto se scrivere una cosa su stalker o a stalker, procedo senza curarmene poiché in fondo qualsiasi cosa su stalker, almeno da parte mia, è sempre stata fatta o scritta per evincere stalker, per lasciarlo divenire, è un pensare ad alta voce e in comune, piuttosto che descrivere ad altri o un difendersi da altri. In fondo stalker è un soggetto attorno al quale ci muoviamo anche ‘noi’, chi più vicino chi più lontano, chi più spesso chi meno. Questo per dire che stalker non è incarnato in nessuno, tanto meno in ‘noi’ che abbiamo contribuito a far si che divenisse. (tanto più che questo ‘noi’ ha sempre compreso ‘altri’ che senza la pretesa di essere noi hanno partecipato a far si che stalker accadesse e quindi di fatto sono anch’essi ‘noi’).
E’ di questo “noi” che sento il bisogno di parlare, prima che questo ‘noi’ si indurisca, si sclerotizzi, che perda il desiderio di diventare altro e altri.
Il primo invito è a comprendere che nessuno di noi è stalker, che stalker non è un gruppo, ma un sistema aperto interrelato e in divenire che si esplica attraverso il suo aver luogo, un accadere scatenato dall’esser presenti di quanti operano con (per, tra..) stalker.
Questo ‘esser presenti’ abbisogna oggi più che in passato, tra quanti lo praticano, della doppia e contraddittoria dimensione di immediatezza e coscienza di sé. Non siamo stalker perché siamo dei bravi artisti o dei fini intellettuali, non vorrei che montasse tale astratto e un po’ ridicolo convincimento, ma perché grazie al nostro esser presenti e voler essere degni di ciò che accade, riusciamo a far sì che stalker abbia luogo.
Stalker nasce nel suo rifiutare una storia e una geografia a priori, in ciò trova nell’immediatezza una condizione essenziale, ma il suo divenire ha prodotto sedimi, tracce, percorsi, nuove e complesse relazioni, tutto ciò non può non far parte della coscienza di stalker, l’immediatezza coincideva forse all’inizio con la coscienza di sé oggi non può più essere così se non attraverso un alto grado di presenza a se stessi, altrimenti una pretesa pseudo-immediatezza oggi è incoscienza, frutto o di disinteresse o di malafede, e quindi falsa (in quanto reiterazione astratta e strumentale di un comportamento efficace), o semplicemente demente.
Chiunque può essere stalker e nessuno è stalker, per dirla con Guattari, stalker è una comunità desiderante dove ‘non vi è appartenenza ma singolarità che si incontrano’. Quindi necessariamente è una realtà instabile e una, ancora Guattari attraverso Bifo, ‘comunità provvisoria che si fonda sul possibile, sul desiderio e sull’intenzione, sulla promessa e sulla attesa’. Tanta potenza desiderante è l’ipotesi di stalker, ‘eccitazione trasgressiva, tensione mobilitante, investimento energetico verso il futuro’, disponibilità al dono e alla dissipazione senza la quale stalker è un falso problema. Perché tale potenza si dispieghi senza calcolata determinazione, ma disegnando una vitale geometria dinamica, stalker non potrà che generare sempre un continuo dissipamento di energie, e perché tale disponibilità non si traduca in depressione, tale flusso entropico di energie non può non generare vitali flussi neg-entropici e creativi che consentano appunto al divenire di stalker di aver luogo, di tirare il fiato, di non consumarsi nel proprio desiderio né di perderlo, ma di vederlo, non soddisfatto (evitiamo il compiacimento), ma aver luogo, diventare altro da stalker: realtà autonoma, sottratta al chaos, non generata per determinazione ma per desiderio, non voluta ma istigata ad accadere.
Lascio le ragioni e le conseguenze etiche dell’aver luogo ad Agamben: ‘ Dio, o il bene, o il luogo, non ha luogo, ma è l’aver luogo degli enti, la loro intima esteriorità. Divino è l’esser-verme del verme, l’esser- pietra della pietra. Che il mondo sia, che qualcosa possa apparire e aver volto, che vi siano esteriorità e illatenza come la determinazione e il limite di ciascuna cosa: questo è il bene. Così proprio il suo essere irreparabilmente nel mondo è ciò che trascende ed espone ogni ente al mondano. Il male è invece la riduzione dell’aver luogo delle cose ad un fatto come gli altri, l’oblio della trascendenza insita nello stesso aver luogo delle cose. Rispetto a queste, il bene non è però in un altro luogo: è semplicemente il punto in cui esse afferrano il proprio aver luogo, toccano la propria intrascendente materia.
In questo senso - e soltanto in questo – il bene deve essere definito come un autoafferramento del male, e la salvezza come l’avvenire del luogo a se stesso’.
Scusate la premessa che può esservi sembrata astratta rispetto alle ‘questioni’ di stalker, ma credo che tale premessa costituisca la possibilità stessa di esistere, in termini concettuali, di stalker. Credo che sia non solo lo spazio di esistenza ma anche lo spazio di libertà di stalker, la necessaria instabilità ma anche la sua necessità in un mondo ambientalmente e psichicamente offeso e degradato. Questa credo sia il fondamento dell’ecologia di stalker, ancora: la sua necessità ad aver luogo.
Tale aver luogo genera uno spazio, che è assieme etico, politico ed estetico, ma soprattutto è uno spazio reale, autonomo e vivente, un territorio fatto di ambienti, situazioni e luoghi che si dispiega tra il chaos e chi lo produce, tra vittime e carnefici.
In tale necessità è l’etica, la politica e l’estetica di stalker.
In mancanza di tali presupposti stalker diventa una truffa.
Stalker tende ad essere un soggetto desiderante e dissipativo che si adopera per catalizzare fenomeni creativi, per produrre luoghi, ambienti e situazioni auorganizzanti, sottraendo materia al chaos non per consegnarla morta, in cambio di denaro, al dominio del banale e dell’omologante, ma per contribuire all’affermarsi di un mondo che riesca a farsi spazio tra distruttori e distruzione, operando per ristabilire quella circolarità creativa prostrata oggi dall’unidirezionale metabolizzazione della vita in merce, della realtà in denaro.
Lettera al sindaco di Roma
Caro Sindaco,
Le scriviamo a proposito delle ultime vicende del Campo Boario di Testaccio, un luogo a cui teniamo molto e di cui nel tempo abbiamo seguito le trasformazioni. Per alcuni anni abbiamo condiviso con la comunità curda il centro Ararat, dove con il sostegno della Fondazione Olivetti e di Villa Medici, abbiamo costruito un luogo di incontro tra le arti, le culture e la società civile, un progetto di arte pubblica che ha trasformato il Campo Boario in un importante terreno comune di studio e di confronto. Non abbiamo mai smesso di monitorarlo, di osservarlo, di stargli vicino. Pochi giorni prima dello sgombero vi avevamo organizzato un workshop con gli studenti della vicina Facoltà di Architettura di Roma Tre, insieme a loro abbiamo condiviso l’esperienza di fotografarne la situazione nel massimo della sua complessità e di vederla cancellare sotto i nostri propri occhi. Le faremo avere i materiali.
Eravamo presenti nel momento dello sgombero giovedì 2 dicembre, è stata una brutta esperienza e siccome crediamo che a lei nessuno lo abbia raccontato, abbiamo deciso di portarle questa nostra testimonianza insieme ad alcune riflessioni sul valore e le potenzialità di questo spazio. Premettiamo di non essere mai stati strenui difensori dello status quo: un intervento del Comune era sicuramente auspicabile mentre continuare a lasciarlo allo stato di abbandono sarebbe stato criminale, come lo è stato in tutti questi anni. Consideriamo anche l’arrivo dell’Accademia di Belle Arti e del Mercato dell’Altra Economia dei fatti molto positivi, così come pensiamo che le condizioni di vita nelle baracche erano assolutamente inaccettabili. La situazione doveva essere affrontata, lei lo ha fatto, lo sta facendo, e questo è un suo merito.
Era un momento importante, il primo in cui il Comune entrava al Campo Boario, e ci sarebbe piaciuto che lei avesse fatto questo primo passo in modo veramente esemplare, da Sindaco di Tutti, anche di quelle cinquanta persone che vivevano nelle baracche, non tutti spacciatori come le sarà stato detto, ma anche richiedenti asilo, rifugiati politici, comunque persone. Ci sarebbe piaciuto che la richiesta di trasferimento in un’altra abitazione per fare posto ad altre attività, fosse stata esemplare per il rispetto della persona. Forse fare una cerimonia di addio sarebbe stato chiedere troppo, ma far sapere a quelle persone dove sarebbero andati ad abitare, magari qualche giorno prima di demolirgli casa, questa sarebbe stata una normale regola di educazione civica.
Vede Signor Sindaco, si può essere esemplari anche nel demolire le baracche. Per esempio si può dare qualche giorno di preavviso o almeno aspettare che tutti gli abitanti siano tornati. Abbiamo visto una signora rumena che è tornata a casa e non ha trovato più nessuna delle cose che l’avevano accompagnata per una vita. Si può per esempio aspettare per mettere in moto le ruspe, evitare di demolire la baracca sotto gli occhi di chi ha faticato a costruirsela, perché costruirsi una casa, lo spazio intorno a sé, è da sempre un rito, da millenni, per ogni persona. Con le baracche abbiamo visto sparire molte altre cose: tanti cavalli, un piccolo maneggio per pony, una fattoria dove i bambini del quartiere andavano a vedere gli animali, maiali, galline, conigli, pecore; un’area giochi con cavallino a dondolo, scivolo e tricicli a disposizione dei figli dei curdi, dei nomadi e dei baraccati; l’atelier improbabile del “pugliese” un personaggio storico del quartiere; una mostra permanente allestita in una stalla da un etologo molto cordiale, alcuni tipici cavallari testaccini che avevano lavorato nel mattatoio e non se ne erano più staccati. Già soprattutto tante persone: molti erano rumeni, altri senegalesi, alcuni moldavi, ucraini, marocchini, tunisini, turchi, iracheni, albanesi, bosniaci, uno era scappato dalla guerra ed arrivato a piedi, dall’Afghanistan fino al Campo Boario.
Non c’è stata violenza fisica, è vero, non essendoci stata nessuna resistenza. Ma noi di violenza ne abbiamo vista molta. Abbiamo visto dividere i deboli dai più deboli: chi sarebbe rimasto da chi sarebbe dovuto ripartire. I curdi e i nomadi assistevano muti chiedendosi quando sarebbe stato il loro turno, quale la loro sorte. Si erano salvati è vero, ma qualche cosa si era rotto, si stavano macchiando della colpa dell’Homo Hominis Lupus. Costretti a vedere senza poter parlare. Costretti al silenzio.
Eravamo presenti anche al suo discorso d’inaugurazione dei lavori per il mercato dell’altra economia, e anche lì c’era un silenzio molto strano. Solo una ragazza nomade, Charlotte, ha preso il microfono per ricordarle di aver ricevuto il diploma di terza media dalle sue mani, come prima ragazza calderasha ad essere riuscita nell’impresa. Charlotte le ha detto di quanto la sua comunità è integrata nel tessuto sociale di Testaccio e di quanto sarebbe grave per loro uno spostamento in periferia dove sarebbero semplicemente “zingari” mentre qui sono persone che vanno al mercato, al bar, nei negozi, portando la loro cultura a mescolarsi con le altre del quartiere. Dopo l’intervento di Charlotte nessuno ha più preso il microfono. Nessuno ha parlato dello sgombero avvenuto pochi giorni prima, nessuno le ha chiesto quale sarà il proprio destino. Ma soprattutto nessuno ha risposto a Charlotte. Poi il tutto è passato in sordina, silenzio dei media, della città e degli abitanti del campo, di quelli che per il momento restano. Imbarazzo generale.
Ci sarebbe piaciuto sentirle dire che per lei il Campo Boario è una Città Laboratorio, che è il luogo simbolico dove affrontare quelle contraddizioni della società che di solito si nascondono tra le pieghe delle periferie. Che il progetto di “riqualificazione” (che brutta parola) prende le mosse dai valori di cui questo luogo, malgrado tutto, è portatore, e quindi sarà la Città dell’Accoglienza, dell’Ospitalità e della Solidarietà con l’altro, anche con chi ha diversi modi di abitare e di vivere la città. Che per lei è onore avere al centro di Roma un campo nomadi che è un esempio in tutta Europa per il suo livello di integrazione con il quartiere. Che in memoria delle tante culture che lo hanno abitato, questa sarà anche la Piazza dei Popoli, dove genti provenienti da tutto il mondo si incontreranno nei propri centri culturali e dove si celebreranno le tante festività che non trovano spazio nella nostra città, come già avviene con i grandi fuochi e balli del Newroz, il capodanno mesopotamico che ogni anno richiama i curdi da tutta Italia. Che i tanti mestieri presenti oggi saranno l’anima di quella Città dei Lavori che si dovrà mettere in piedi per ristrutturare lo spazio. Che insieme ai laboratori d’arte ci saranno laboratori artigianali, dove i curdi potranno tessere tappeti e i nomadi lucidare i metalli, trovando sinergie con l’Accademia e con il mercato dell’altra economia. Che il mattatoio da stanza della morte degli animali, si trasformerà simbolicamente in Città degli Animali, avrà una piccola fattoria e cavalli con cui passeggiare lungo il parco fluviale. Che il Campo Boario non è una superficie vuota come l’area dei Mercati Generali - futura Città dei Giovani - ma un mondo eccezionale, quasi surreale, che mai ci s’immaginerebbe di trovare in pieno centro, nel Primo Municipio. La Città dell’Altro che convive con la Città del Turismo.
Lei forse non riesce a vedere come tutte queste Città potrebbero convivere con la Città delle Arti, ed è per questo forse che ha fatto un primo passo falso. Già, ma le arti non dovrebbero essere proprio loro a tentare di comprendere la realtà, a tradurla, rappresentarla, raccontarla e magari anche a trasformarne i problemi in risorse? È un atto insensato ripulire una realtà complessa prima di darla in braccio alle arti, negare alle arti il proprio materiale vitale, la possibilità di entrare in relazione con le forti contraddizioni della società per magari comprenderle, forse trasformarle.
È una grande occasione quella che le si presenta. Al Campo Boario si può inventare un tipo di spazio pubblico che è sicuramente innovativo, inedito, forse utopico, ma concreto, perché gia esiste.
Un luogo esemplare per l’Europa, un luogo eccezionale per la città: un cortile aperto che riesce a contenere tanti mondi diversi che coabitano ed interagiscono tra di loro. Una città fatta di tante città sovrapposte, tutte diverse e tutte portatrici di importanti valori.
Crediamo che il quartiere sia pronto, è da anni che accoglie i nomadi, i rifugiati curdi, i ragazzi del centro sociale, il passaggio dei cavalli. Crediamo che anche l’Università e l’Accademia di Belle Arti e il mercato dell’Altra Economia e il Centro di Cultura Giovanile, potrebbero con saggezza accettare questa sfida; per ultimo crediamo anche che una buona fetta del suo elettorato lo capirebbe. Ma bisogna avere coraggio, solo un po’ più di coraggio.
Roma 6 gennaio 2005