Constant, New Babylon, Gezic op New Babylonsche Sectoren, 1969 (Viste dei settori di New Babylon), fotomontaggio di Victor Nieuwenhuys. |
Testo pubblicato con il titolo: Autodialogo sulla produzione di utopie concrete, in Alessandra Criconia (ed), Una Città per tutti. Diritti, spazi, cittadinanza, Donzelli, Milano 2019, pp 111 - 120, ISBN978-88-5522-002-6
traduzione spagnola in: Autodiálogo sobre la producción de utopías concretas, “DEARQ” n 28, “Nuevas Situaciones”, Universidad de los Andes, Bogotà 2020, pp. 8-17, ISSN 2215-969X,
D: Il rapporto tra Lefebvre e Constant in relazione alla produzione di utopie concrete e interculturali è una riflessione centrale. Le utopie concrete e interculturali e la loro produzione sono temi che hanno accompagnato tutto il percorso di Stalker e anche le tue ricerche accademiche. Immagino che tu sia venuto in contatto con il pensiero di Lefebvre durante la scrittura del tuo libro su New Babylon, l’utopia nomade progettata da Constant (Careri 2001).
R: Ho parlato più volte con Constant di Lefebvre. Constant dopo le sue dimissioni dall’Internazionale Situazionista aveva continuato a frequentare Guy Debord, ma manteneva anche contatti con Lefebvre che invece aveva rotto definitivamente con Debord. Constant e Lefebvre hanno continuato a frequentarsi e ad avere un intenso scambio intellettuale. Il pensiero di Lefevre dava sostegno a New Babylon e New Babylon nutriva il pensiero di Lefebvre. Non è un caso quindi che libro di Jean Clarance Lambert, New Babylon. Art et Utopie, si apra proprio con una bellissima citazione di Lefebvre: «Il faut distinguer les utopistes des utopiens, autrement dit l’utopie abstraite de l’utopie concrète […]. La pensée utopiste explore l’impossible; la pensée utopienne dégage le possible»[1] (Lambert 1997, p. 7). È una frase che si può leggere immaginando le avanguardie radicali da una parte e i movimenti di lotta dall’altra. Le «utopie astratte», quelle di Superstudio e di Archigram, hanno esplorato l’impossibile. Mentre le «utopie concrete», sono state sperimentate nelle esperienze di lotta, nelle Temporary Autonomous Zones di Hakim Bey, e nelle occupazioni dagli anni settanta a oggi, dove il possibile si è sprigionato ed è divenuto realtà iscritta per sempre nella storia dell’umanità. Questa frase è decisamente una diga tra chi si crogiola sognando nel pensiero astratto e chi si impegna nella costruzione di un nuovo mondo mettendo in campo la propria vita, abitando in un altro modo questo pianeta.
D: Mi sembra di ritornare al conflitto tra
l’urbanismo unitario di Constant e la
costruzione di situazioni di Debord.
La critica a Constant era di condurre delle ricerche su astratte megastrutture
che si sarebbero potuto realizzate solo dopo la rivoluzione, mentre per Debord
l’urgenza consisteva proprio nel cominciare a costruire la
rivoluzione. In questo senso Constant è utopista o utopiano?
R: Credo che Constant risponderebbe con le parole di Lefebvre: «Il convient d’élaborer […] des projets urbanistiques très poussés comprenant des modèles, des formes d’espace et de temps urbains, sans se préoccuper de leur caractère actuellement réalisable ou non, utopique ou non (c’est a dire lucidement “utopiens”»[2] (Ibid., p.7). E la forza dell’Internazionale Situazionista stava proprio nel tenere insieme il carattere astratto e concreto della loro idea di rivoluzione radicale della società. Il problema semmai è che le avanguardie architettoniche successive hanno lavorato all’interno di un pensiero esclusivamente disciplinare e non si sono occupati di produrre delle utopie concrete, di sperimentare nella realtà degli spazi sociali alternativi insieme ai movimenti di lotta.
D: Ma anche New Babylon sembra essere un’utopia astratta, ipertecnologica e
visionaria.
R: Un collage di New Babylon, realizzato da suo figlio Victor, mostra la nuova città nomade come una grande megastruttura che ha l’immagine di un’architettura informale: sembra una favela sospesa su dei ponti. Non c’è nulla di ipertecnologico, le architetture sono autocostruite dagli abitanti con bandoni metallici e assi di legno. Come se l’utopia di Constant potesse essere realizzata da tutti, con mezzi di fortuna, abitando e trasformando di continuo gli spazi con i propri corpi e i propri comportamenti, senza bisogno di architettura, senza bisogno di grandi mezzi. È il linguaggio che si vede oggi nelle occupazioni abitative dove ci si adatta a grandi contenitori urbani dismessi e li si riattiva semplicemente abitandoli, dandogli nuova vita. In questo senso penso che il pensiero di Constant sia stato veramente concreto e anche lungimirante.
D: E questa idea di città nomade e
autocostruita è presente nel pensiero di Lefebvre?
R: Probabilmente Lefebvre era influenzato da Constant quando scriveva: «Que l’imagination se déploie, non pas l’imaginaire qui permet la fuite et l’évasion, qui véhicule des idéologies, mais l’imaginaire qui s’investit dans l’appropriation. A la ville éternelle pourquoi ne pas opposer des villes éphémères et des centralités mouvantes aux centres stables?» [3]. Sembra di descrivere l’immagine di cui parlavo prima: delle centralità mobili ed effimere che sprigionano e creano spazio per un nuovo immaginario, che scatenano le potenzialità costruttive dei neobabilonesi, di quella nuova società interculturale che sarebbe stata perennemente in transito dopo l’abolizione del lavoro.
D: Con Stalker lavorate da molti anni sui
temi della città interculturale e del nomadismo, mi riferisco all’esperienza di
Ararat e ai progetti fatti con i Rom. Che relazione hanno con la realizzazione
di utopie concrete?
R: L’utopia, come la rivoluzione, non si realizza mai. Deve essere sempre in trasformazione, sempre in tensione verso un divenire altro. Queste due esperienze, per quanto diverse tra loro, hanno senza dubbio una forte spinta utopica e neobabilonese, sono il frutto di una visione condivisa tra Stalker e tanti altri che hanno partecipato a realizzarle. Ararat è un edificio dell’ex Mattatoio di Testaccio, che abbiamo occupato insieme ai curdi nel 1999. Abbiamo raccontato la sua storia in un libro sul Campo Boario rimasto inedito ma di cui si può scaricare il pdf on line[4]. È stata la nostra prima grande azione multiculturale e ha prodotto un luogo d’incontro tra i curdi e le altre culture cittadine. Cercavamo di produrre un’autorappresentazione di quello spazio facendo interagire, come in un grande gioco, i curdi con i Rom kalderasha e le altre comunità straniere che vi abitavano. Oggi molte cose sono cambiate, ed è sorprendente che dopo venti anni Ararat sia ancora là. Forse è la produzione di spazio più importante che abbiamo realizzato con Stalker. È un modello per diverse ragioni: è l’unico centro per rifugiati che si trova dentro le mura di Roma, è uno spazio che riattiva un patrimonio abbandonato, è interamente autogestito e autodeterminato dalla comunità che lo abita. È nato come occupazione illegale, è riuscito a trovare diverse forme di legittimazione, ma è ancora lontano da una completa istituzionalizzazione e quindi mantiene ancora viva la tensione necessaria a uno spazio in lotta. In venti anni sono passati da Ararat 23.000 rifugiati che vi hanno trovato un letto, dei pasti caldi, una comunità dove parlare la propria lingua e coltivare la propria cultura. È uno spazio in cui si torna ciclicamente da tutta Europa per attendere il tempo delle pratiche e avere i documenti. È assolutamente diverso da tutti gli altri centri di accoglienza istituzionali. È un’utopia concreta, un’invenzione riuscita a farsi spazio e a sopravvivere tra le pieghe del sistema, rimanendo se stessa con la sua alterità e senza mai essere omologata. Una vera produzione di spazio lefebvriano.
D: E insieme ai Rom siete riusciti a
produrre utopie concrete e interculturali?
R: Sull’esperienza di Stalker con i Rom abbiamo recentemente scritto con Lorenzo Romito un libro in forma di autodialogo come questa intervista[5]. Con i Rom abbiamo cercato di affrontare diversi livelli del problema, cercando di offrire delle risposte alle varie scale, che potrebbero sembrare utopiche e visionarie: dal passaporto europeo transnazionale all’autocostruzione di un quartiere balcanico. Si è prodotta un’interazione culturale sia tra i Rom e i gagi (coloro che non sono Rom) che all’interno dei Rom, perché alla costruzione di Savorengo Ker - la casa di tutti hanno partecipato persone provenienti dal Montenegro, dalla Bosnia, dalla Macedonia e dal Kosovo. Era una soluzione abitativa per tutti, non solo per i Rom. Ma era anche una «casa manifesto» che esprimeva tridimensionalmente lo slogan scritto negli striscioni delle manifestazioni: «siamo Rom, non siamo nomadi, vogliamo la casa». Non si considerano nomadi da diverse generazioni e la casa doveva essere la prima di un processo di trasformazione del campo Casilino 900 in un quartiere interetnico, come i quartieri romani che da baraccopoli di emigrati meridionali, si sono trasformati in quartieri abusivi allacciati alle infrastrutture, a «toponimi», come vengono chiamate a Roma quelle parti di città nate informalmente e che sono state legalizzate. Ma per i Rom tutto questo è impossibile, per loro viene sempre pensata una soluzione «a-parte», soluzioni speciali, anche dalla Sinistra, come se il loro abitare non potesse essere integrato nell’abitare di tutti. I piani regolatori prevedono per noi gagi le zone residenziali, per loro Rom, sinti e camminanti, presunti nomadi, le zone dei servizi pubblici come parcheggi e campeggi. Ma New Babylon se è pensata solo per loro, si trasforma in un campo di concentramento monoculturale, uno ziganeur kamp come ad Auschwitz. Il problema dei Rom è la separazione che li accompagna da sempre, l’apartheid costruita da noi tutti nei loro confronti, non solo la separazione di chi li considera gli ultimi tra i diversi, la casta dei paria, ma la separazione vestita da rispetto per la loro cultura e per la loro diversità, una demarcazione della diversità ancora più pericolosa perché mascherata da buone intenzioni. Durante la costruzione della casa e in molte altre occasioni, siamo riusciti a respirare un’atmosfera neobabylonese, ma direi che New Babylon è ancora molto lontana.
D: Veniamo adesso ai nuovi condomini
interculturali nati nel mondo delle occupazioni abitative e che tu consideri un
modello di città.
R: Ci siamo approdati proprio seguendo i
Rom verso un cammino fuori dall’apartheid.
Metropoliz, una ex-fabbrica occupata dai Blocchi Precari Metropolitani nel
2009, è stata la prima occupazione che ha deciso di inserire anche i Rom nella
babele di migranti provenienti da tutto il mondo. Grazie a questo primo passo,
oggi ci sono Rom in diverse occupazioni e sono considerati degli occupanti come
tutti gli altri. Il mondo delle occupazioni è stato l’unico a rompere l’apartheid. È un mondo altamente
inclusivo e che negli ultimi dieci anni ha cominciato a dischiudersi dal suo iniziale isolamento e a produrre
spazi anche aperti alla città,
spazi inediti, simili ai centri sociali, ma decisamente più complessi, con
famiglie, bambini, anziani, un mondo decisamente meticcio. Lì è nato il
progetto Pidgin City, il tentativo di
raccontare quella città di abitanti di
origine araba, africana, italiana, sudamericana ed est europea, che per comprendersi comincia a
mescolare parole di tutte le lingue, come nella Torre di Babele, e alla fine si
ritrova ad aver inventato un proprio linguaggio, un proprio mondo, costruito
attraverso l’abitare insieme tra diversi, con tutte le relazioni anche
conflittuali che questo comporta. Dopo il film Space Metropoliz e la nascita del Museo dell’Altro e dell’Altrove,
il MAAM[6],
abbiamo cominciato a collaborare con l’occupazione del Porto Fluviale, che per
aprirsi alla città aveva inaugurato la sala da tè e per
raccontarsi aveva prodotto il suo film Good
Buy Roma[7].
Con il Laboratorio Arti Civiche[8]
abbiamo partecipato alla produzione della piazza interna, prima proponendo di
non parcheggiarvi le macchine, poi producendo un immaginario portuale di barche
volanti e altalenanti e dipingendo l’ingresso come soglia di un altro mondo.
Nel frattempo Blu dipingeva la famosa facciata, e si sono aperti spazi
cittadini come la circofficina, la ciclofficina e il laboratorio di oreficeria.
Negli ultimi anni con Stalker, e come Noantri Cittadini Planetari, abbiamo cominciato a frequentare e
interagire anche con Spin Time Lab,
occupazione di Action, che ha spazi comuni frequentatissimi come la taverna e
l’auditorium, e a ospitare nel garage la redazione della rivista «Scomodo»,
scritta da ragazzi ventenni. I tre movimenti di lotta per la casa – Bpm,
Coordinamento e Action – non solo offrono oggi casa a migliaia di persone, ma
sono l’unico progetto in città veramente inclusivo, intergenerazionale, e dove
si produce un’altra cultura e un’altra visione del mondo.
D: Immagino che sia proprio a partire da
queste esperienze che attualmente con un gruppo di ricercatori state lavorando
a un nuovo progetto che ha un nome curioso, Circo. Di che cosa si tratta?
R: Circo è un acronimo che sta per Casa Irrinunciabile per la Ricreazione Civica e l’Ospitalità ed è il progetto che stiamo portando avanti dall’autunno del 2017 all’interno del Laboratorio di progettazione architettonica e urbana del corso di laurea magistrale di Roma Tre. È un corso che condivido con il professor Fabrizio Finucci[9], con un nutrito gruppo di giovani ricercatori[10] e con moltissimi contributi esterni, con i quali abbiamo realizzato nel primo anno un’ampia mappatura degli «scarti della città», e nel secondo un tentativo di applicare l’idea di Circo in un territorio specifico, l’istituto Romano San Michele nel quartiere di Tor Marancia. È un progetto che propone di utilizzare gli spazi abbandonati per sostituire la macchina dell’accoglienza con una rete di luoghi fondati sull’ospitalità. L’acronimo rimanda esplicitamente all’immaginario del circo: quel luogo colorato, magico, nomade ed estraneo alla città, fiero della sua diversità, che si installa in terreni di scarto e dove i circensi hanno ciascuno delle competenze da mettere insieme in un progetto comune.
D: Mi sembra che la parola «ospitalità»
sia la più importante dell’acronimo. Perché sostituire accoglienza con
ospitalità?
R: Abbiamo cominciato a indagare questa parola con Stalker e No Working nel progetto Xeneide-il dono dell’Altro. Miti, pratiche, poetiche dell’ospitalità. L’idea era di ripercorrere il mito fondativo di Virgilio per rifondare Roma a partire dall’ospitalità dello straniero, di rileggere e riproporre il mito di Enea: profugo troiano che, scappato dalla guerra e approdato nel Lazio dopo aver affrontato i pericoli del Mediterraneo, dà avvio alla fondazione di Roma. Xeneide riprende la parola greca xenía, il dono che l’ospitante fa all’ospitato, ma riguarda più in generale il complesso di regole reciproche che sono alla base dell’ospitalità, che era sacra in tutto il mondo antico. Il progetto ha prodotto una prima sperimentazione dello spazio del dono all’Auditorium e in seguito, con insieme al corso di arti civiche, ha ripercorso a piedi il viaggio di Enea dalla spiaggia di Torvaianica fino alla cima del Monte Cavo sui Colli albani. Mentre «accoglienza» è una parola unidirezionale, che rimanda ai bisogni, alle coperte, ai pasti caldi, all’assistenza legale e sanitaria, all’accudimento dei corpi e non alle persone con i loro desideri; «ospitalità» si basa invece su uno scambio reciproco, guarda all’ospite come a un portatore del dono di cultura e risorse. E sotto le sue vesti potrebbe sempre essere nascosto una divinità.
D: La vostra è quindi una proposta
alternativa all’attuale sistema di accoglienza dei migranti. Da quali critiche
nasce?
R: Per l’accoglienza dei migranti in Italia sono stati stanziati molti fondi su cui purtroppo continuano a speculare in molti, come si è visto con lo scandalo di Mafia capitale. Un richiedente asilo adulto vale 35 euro al giorno, un minore 45 euro. Lo Stato investe per l’accoglienza 4,5 miliardi l’anno. Dei richiedenti asilo, solo il 15% entra nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), che è un sistema virtuoso affidato ai comuni ed è infatti attualmente in via di smantellamento dopo l’attacco al modello di Riace, mentre la grande maggioranza è accolta nei Centri di accoglienza richiedenti asilo (Cara) e nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) che essendo di emergenza ha meno controlli ed è più esposto alle frodi. A due anni dal grande esodo dell’estate del 2015, Roma è oggi l’unica capitale europea a non aver ancora redatto un piano ufficiale per l’accoglienza dei migranti, continua a essere una città dove non si è ospitati, ma anche dove ospitare è impedito con tutti i mezzi, com’è stato evidente nella esperienza di Baobab Experience, una rete cittadina di solidarietà e accoglienza per i migranti cosiddetti in transito che aveva organizzato uno spazio di accoglienza informale vicino alla stazione Tiburtina che dopo interminabili vicissitudini, è stata sgomberata definitivamente. La questione migranti è complessa e variegata e purtroppo differenziata in diverse categorie: i migranti «economici» che preferiscono non essere registrati in Italia e cercano di raggiungere il nord Europa, quelli che seppure hanno avuto lo status di rifugiato hanno finito il periodo di accoglienza e non hanno dove andare, i «dublinati» che l’Europa rimanda indietro a causa del trattato di Dublino che obbliga di richiedere l’asilo nel paese dove sono sbarcati e infiniti altri casi non categorizzabili. Finché la città non comprende che i migranti sono una risorsa e non un problema, non si faranno grandi passi avanti.
D: Insomma i fondi non mancano, quello che
manca è una visione e un progetto.
R: Con i soldi destinati all’accoglienza
la città potrebbe rinnovarsi integralmente. Si dovrebbe trasformare il problema
dei tanti spazi abbandonati in una risorsa per tutti dove produrre abitare,
servizi e cultura. La prima ricerca di Circo è stata la mappatura degli «scarti
della città», così come li abbiamo
chiamati, secondo diversi layers: le
caserme militari, le rimesse dell’Atac, i cinema, i teatri, le scuole, le
strutture sportive, le strutture sanitarie, i beni ecclesiastici, le fabbriche
dismesse. Proponiamo di abitare e recuperare gli scarti come luoghi ibridi,
porosi, inclusivi, inediti, in cui rilanciare la cultura dando spazio
all’Altro: al Rom, al migrante, allo studente fuorisede, al lavoratore
stagionale, all’artista, all’artigiano, al viaggiatore, al senza fissa dimora e
anche ai turisti. Gli studenti hanno sviluppato i differenti layers
scegliendo uno degli edifici come sede di
progetto. Abbiamo progettato «circhi» nello Stadio flaminio,
all’ospedale San Giacomo a via del Corso, in una fabbrica abbandonata vicino
all’Eur, nella rimesse dell’Atac del Tuscolano e di San Paolo, al cinema Astra
e anche un’ipotesi extraurbana a Poggio Mirteto. Abbiamo anche avuto
l’occasione di raccontare questa
esperienza alla sindaca Virginia Raggi, ma sembra che quando si affronta
il problema dei migranti, il Comune non abbia molta intenzione di seguirci. E
in seguito abbiamo sostenuto con la nostra ricerca l’azione di Noantri
Cittadini Planetari che insieme a Scomodo e ad altre realtà
cittadine hanno simbolicamente occupato per un giorno palazzo Nardini, un
palazzo quattrocentesco che è stato la prima sede del Comune di Roma, per
denunciarne il tentativo di svendita.
D: Mi sembra di capire che anche il
progetto Circo stia faticando non poco a trasformarsi in un’utopia concreta.
Com’è andata l’ultima esperienza all’Istituto Romano San Michele a Tor
Marancia?
R: È ancora in atto e non è forse il momento di tirare delle somme. È un tentativo di declinare l’idea di Circo attraverso un confronto con le istituzioni. Il San Michele è una grande Ipab (Istituto pubblico di assistenza e beneficenza) di competenza della Regione Lazio, ha come missione l’assistenza agli anziani e gestisce una residenza speciale per anziani e una casa di cura. Ma la sua realtà è molto più complessa, al suo interno ospita uno Sprar comunale, un centro di accoglienza privato, un centro anziani, una casa comune di suore laiche brasiliane, la chiesa gestita da Sant’Egidio, la comunità Emmaus, una Asl, e alcuni padiglioni del complesso sono occupati dai movimenti di lotta per la casa, altri sono in parziale abbandono o molto sottoutilizzati. Molti degli attori che immaginiamo nel «circo» sono già presenti e c’è spazio per nuove funzioni, è un terreno fertile e abbiamo cominciato a piantare i primi semi. Stiamo lavorando con i singoli attori e facendoli interagire per far emergere una visione comune. Ma produrre spazi innovativi dentro le istituzioni è forse un’impresa veramente utopica.
[1] «Bisogna distinguere gli utopisti
dagli utopiani, o dicendo in altro modo, le utopie astratte dalle utopie
concrete […]. Il pensiero utopista esplora l’impossibile; il pensiero utopiano
sprigiona il possibile».
[2] «È bene elaborare […] dei progetti
urbanistici molto avanzati che
comprendano dei modelli, delle forme spaziali e dei tempi urbani, senza preoccuparsi del
loro carattere attualmente realizzabile o no, utopico o no ossia lucidamente
“utopiani”».
[3] «Che l’immaginazione si dispieghi,
non l’immaginario che permette la fuga e l’evasione, che veicoli le ideologie
ma l’immaginario che si realizza nell’appropriazione. Perché non opporre alla
città eterna delle città effimere e ai centri stabili, delle centralità
mutanti?».
[4] Il libro di Stalker/Osservatorio
Nomade autoprodotto nel 2009 e intitolato Circles/Campo Boario è scaricabile su https://stalkerpedia.wordpress.com/circles/.
[5] F. Careri - L. Romito, StalkerOn/Campus Rom, Altrimedia
edizioni, Matera 2017.
[6] Space Metropoliz è un film del 2013 di Fabrizio Boni e Giorgio de
Finis, coprodotto da Irida Produzioni e Inside Productions, che propone la
metafora della luna per raccontare l’occupazione della fabbrica. Il MAAM (Museo
dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz) è un’operazione curata da Giorgio de Finis che ha
trasformato il Metropoliz in un museo abitato per promuovere e difendere
l’occupazione.
[7] Good Buy Roma è un film del 2011 di Gaetano Crivaro e Margherita
Pisano che racconta l’occupazione di Porto fluviale. Un estratto del film è su
<https://vimeo.com/294356852>. Per altre info si veda <https://goodbuyroma.wordpress.com/>.
[8] Il Laboratorio arti civiche (Lac)
è un gruppo di ricerca del Dipartimento di studi urbani dell’Università Roma
Tre, attivo tra il 2009 e il 2015. Sul lavoro del laboratorio al Porto fluviale
si veda: F. Careri, Tano, Blu e il
Porto fluviale, in G. de Finis, F. Benincasa, A. Facchi, Exploit. Come rovesciare il mondo dell’arte.
D-Istruzioni per l’uso, Bordeaux Edizioni, Roma 2015, pp. 611-23.
[9] Il professore Fabrizio Finucci
insegna Estimo al Dipartimento di architettura di Roma Tre con un approccio
molto utile al progetto Circo, perché è capace di valorizzare il beneficio
sociale di un progetto urbano e non solo il beneficio economico.
[10] Circo
(https://laboratoriocirco.wordpress.com/) è una ricerca elaborata in seno al
Laboratorio di progettazione architettonica e urbana della Laurea magistrale in
Progettazione urbana del Dipartimento di Architettura di Roma Tre, con la
partecipazione di Stalker/Noworking, Ararat, Atac, Baobab Experience, Caritas,
Civico Zero, Liberi Nantes, Scomodo, Sprar Poggio Mirteto, Unione
Inquilini. Al Laboratorio partecipano [a]
oggi Chiara Luchetti, Alberto Marzo, Sara Monaco, Enrico Perini, Serena
Olcuire e Maria Rocco. E nel primo anno di ricerche avevano anche partecipato
Giulia Marzocchi, Giorgio Sokoll. Tra gli invitati al corso Lorenzo Romito e
Giulia Fiocca, Max Catena, Janet Hetmann, le compagnie di danza Dom (Leonardo
Delogu e Valerio Sirna) e Louma (Alain Michard).
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