Articolo pubblicato con il titolo Bagnasciuga urbani, oltre le città sedentarie in: Alessandra Criconia, Isotta Cortesi, Anna Giovannelli (eds), 40 parole per la cura della città, quodlibet, Macerata 2020, pp. 62-67
La nostra natura
consiste nel movimento.
La quiete assoluta è
morte.
(Pascal, Pensèes)
Confinamento
Camminare fa bene al corpo e alla mente. Rimette in circolo il sangue e i pensieri, permette il fluire delle energie vitali, svuota la testa e riempie lo spirito. È per questo che il camminare è un diritto irrinunciabile, è una necessità primaria per la quale siamo disposti a tutto, anche a sfuggire al controllo sotto quarantena. Lo abbiamo visto nei giorni del covid, quando camminare era diventato illegale e si portava continuamente a spasso il cane, si usciva con il carrello della spesa, in compagnia di una bicicletta, travestiti da sportivi o da congiunti. I centri commerciali erano chiusi, i parchi erano chiusi, chi voleva farsi un giro per prendere aria non sapeva più dove andare. Se uscivi dovevi stare fermo nelle file dei supermercati e delle farmacie. Quando ci si incontrava sullo stesso marciapiede si dovevano fare grandi manovre di aggiramento e gli occhi sopra le mascherine mostravano il timore di essere denunciati. Le macchine della polizia pattugliavano le strade a caccia di pedoni come fossero sospetti sovversivi. Un signore che aveva deciso di fare una camminata sulla spiaggia è stato accerchiato da poliziotti con moto da sabbia, e giornalisti sull’elicottero. Una scena indimenticabile.
Durante il
confinamento per camminare bisognava trovare posti fuori dal controllo, e in alcune
città questi spazi esistono ancora, per fortuna. Sono quei posti dove non c’è
nessuno, o quasi. Quelle zone dove prima si vedevano solo i rom di ritorno alle
baraccopoli con i carrelli pieni di ferraglie, i migranti che uscivano dai
cespugli in bicicletta con lo zaino giallo di Glovo, oppure quelle comitive di
adolescenti che ci si trovano per fumarsi le canne, che fanno tardi la notte,
che bevono e parlano ad alta voce e gridano e a volte si menano. Sono i posti
dove, da sempre, vanno solo quelli che cercano di sottrarsi al controllo delle
telecamere e delle finestre. Zone che di solito cominciano con un parcheggio asfaltato,
poi con una strada rotta e polverosa e da lì un buco nella rete che ti porta a
un sentiero, a diramazioni e altri sentieri, e se sei motivato puoi fare
chilometri a piedi senza essere visto da nessuno.
I margini
delle città sono pieni di questi posti. E le città che non ne hanno abbastanza
soffrono, gli manca l’aria. La salute di una città dipende anche dall’esistenza
di spazi in cui nascondersi.
Nei giorni
del covid, questi luoghi sono diventati l’unico spazio pubblico possibile. Il covid
ha chiuso tanti spazi, ma ne ha svelato molti altri. Quelli dove il selvatico
tiene a bada l’azione dell’uomo e riconquista il suo spazio alla città: spazi
di bordo, indefiniti, nascosti, abbandonati, sconosciuti o ritenuti pericolosi.
Posti dove già prima della pandemia, le piante crescevano rigogliose tra le
crepe dell’asfalto e invadevano la strada, zone dove nessuno viene a innaffiare
gli alberi o portare via i frigoriferi. Posti dove tra le lavatrici e i
copertoni delle auto, fioriscono alcove per umani e tane per gli animali. Durante
la quarantena tutto questo si è popolati di uccelli, di volpi, di cinghiali che
dalle zone più lontane si avventuravano verso il centro. Il covid ha
trasformato gli spazi del degrado in luoghi del possibile, e lo ha fatto per
tutti, non solo per gli animali e le piante, anche per noi. E quando finalmente
si è potuti uscire seppure solo intorno a casa, questi spazi sono diventati
parte delle nostre case, del nostro quotidiano. Chi voleva espandere l’ora
d’aria dal proprio terrazzo in spazi più vasti, andava lì. E lì trovava la
complicità di persone di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali, alcuni
addirittura senza mascherina, e nessuno con l’intenzione di denunciarti.
Signori a passeggio, alcuni con il cane, altri in coppia, a volte in gruppi ma
distanziati, e poi famiglie nascoste nei canneti a fare un pic-nic, bambini che
giocavano a pallone, altri imparavano a camminare. Tutti complici e tutti
illegali. Tutti liberi di camminare e di socializzare.
Sicurezza
Mi sono
chiesto se questo è successo solo nella mia città e com’è andata nelle città europee
e nel resto del mondo. Amici spagnoli mi hanno raccontato di fenomeni molto
simili, mentre nei continenti americani, la paura di camminare si è invece
acuita, sia per il virus che per il senso di insicurezza. E in generale i
ricchi sono rimasti in casa e i poveri per sopravvivere hanno continuato a
camminare illegalmente. I ricchi hanno continuato a uscire in macchina, quella
estensione della casa che oramai è diventata una sorta di periferica del nostro
corpo, come lo smartphone. Il fattore sicurezza, che è il principale criterio
con cui oggi si fa l’urbanistica, è anche il principale nemico della libertà di
camminare. Nelle città italiane la sindrome securitaria, seppure alimentata dai
media e dai politici, ancora non ha avuto la meglio. Da noi lo spazio
dell’andare resiste, continua ad essere uno spazio a diverse velocità e dove i
flussi permettono l’incontro dell’Altro e la mixité sociale. È spazio della scoperta e del perder tempo,
dell’assembramento e della solitudine, del consumo ma anche dell’incontro, della
relazione e dell’indifferenza di chi ha fretta e non ha tempo per ciò che gli
capita accanto. Fa incrociare i flussi di quelli che corrono e di quelli che
sono lenti, di quelli in macchina, di quelli in bici e di quelli in panchina.
Ma soprattutto fa incrociare i flussi di quelli che sono belli, bravi e buoni
con quelli che sono “brutti, sporchi e cattivi”.
Fuori dall’Europa
chi cammina per le strade è un homeless,
un ladro o un potenziale assassino. Nelle strade dei ricchi siamo spiati ovunque
da inutili telecamere di sorveglianza, capaci di ricostruire la dinamica di un
assalto in un video, ma non certo di inibire o fermare chi ti sta assalendo. Non
volendo portare l’esercito nelle strade in difesa dei pedoni, è chiaro che
l’unica soluzione alla supposta violenza è aumentare gli occhi umani, i loro
corpi, le loro capacità relazionali.
Deve
aumentare la gente che cammina. Se i ricchi vogliono avere più sicurezza,
devono cominciare ad andare a piedi. Forsa potrebbe essere l’occasione di
incontrare gli altri e abbassare il livello dei propri pregiudizi. Solo allora le
città saranno anche più sicure: più gente cammina per strada e più c’è sicurezza,
questa è un ovvietà. Ma non così tanto, e la direzione che sta prendendo il
mondo è quella opposta. A Sao Paulo in Brasile i super ricchi non scendono
neanche più per strada. Dal loro appartamento salgono sul terrazzo e si
spostano in elicottero, i loro figli vanno all’università con l’autista ed
entrano in aula con le guardie del corpo, li ho visti.
Ma anche in
Europa, nella nuova dispersione urbana, dove vive la classe media, le cose non
vanno molto meglio. Interi quartieri nuovi sono raggiungibili solo in macchina
e chi ci abita prolunga lo spazio privato dalla sua casa all’ufficio, passando per
il proprio garage, per la corazza mobile della sua macchina e poi per un altro
garage del centro commerciale o dell’ufficio. Stanno scomparendo i naturali
“luoghi di attrito” con l’Altro, come il giornalaio, il panettiere, il
tabaccaio, la fermata dell’autobus. Ormai anche quando ci si sposta si vive in
bolle non comunicanti, in isole autoreferenziali. Con Stalker negli anni novanta
avevamo cominciato a descrivere la città come arcipelago di isole e di mari: un
mare di vuoti, insenature e interstizi a volte ben mantenuti come parchi e
terreni agricoli, altre volte abbandonati come pascoli e terrain vagues. Questi spazi aperti separano delle isole più o meno
grandi come quartieri, enclaves, gated
comunieties, aree industriali, campi rom, slums: isole omogenee, non connesse tra loro e spesso neanche con
le reti veloci della mobilità su ferro. Nelle isole più lontane e dimenticate,
se sono anche povere, allora oltre ai percorsi sicuri mancano luoghi aperti,
spazi di incontro, giardini, e al loro interno non c’è più spazio disponibile
per realizzarli. In questi casi la metafora dell’arcipelago ci viene incontro.
Bagnasciuga
Se vogliamo
che la gente ricominci a camminare non basta pedonalizzare le zone centrali
delle isole, si deve lavorare sul “bagnasciuga”, sui bordi e sugli spazi di
attrito divenuti visibili grazie al covid. Il bagnasciuga è uno spazio ibrido tra
terra e mare, tra vuoto e pieno, tra nomade e sedentario. Nella metafora marina
i bordi sono sempre diversi, a volte sono costa, a volte scogliere impervie,
altre volte spiagge accessibili, altre volte ancora lungomare attrezzati. Spesso
lungo i bagnasciuga urbani c’è spazio, bastano pochi metri e allora un
marciapiede può diventare pista ciclabile, contenere sport, ombra, sedute,
piccoli servizi, alberi, giardini, zone incolte, fino a diventare parchi
lineari, lunghi e ibridi spazi interstiziali. Spazi vuoti che possono dialogare
e interagire con la natura in abbandono, ospitare non baraccopoli ma campeggi
in cui i turisti possono convivere in tenda accanto ai senza fissa dimora, inventare
posti in cui l’Altro può manifestarsi fiero della propria diversità, come
succedeva con i circhi negli spazi di bordo di tutti i paesi. Nel bagnasciuga
ci sono ancora avventure da sperimentare. Dal bagnasciuga partono sentieri che
attraversano i mari, rotte che raggiungono in pochi minuti quelle stazioni
delle metro dove spesso non ci sono sufficienti parcheggi e per arrivarci in
macchina o in autobus si impiegano ore. Sui bordi si possono immaginare moli,
pontili, lungomari, darsene, spiagge, porti… chilometri di costa dove il mare
dell’Altro, il deserto del Nomade e le barche dei Migranti possono approdare e
dialogare con le nostre vecchie e sfinite Città Sedentarie.
Per
costruire la città del camminare non servono soldi e neanche architetti, serve
solo che la gente cammini.
Finito il confinamento si è potuto uscire, ma era meglio
stare in spazi aperti, meglio non prendere gli autobus, meglio camminare. Sempre
più gente ha scoperto questi bordi a cui non aveva mai pensato prima, e di cui
soprattutto non aveva mai sentito la mancanza. La voce ha cominciato a
circolare, avevamo tutti un tesoro sotto casa. E alcuni hanno cominciato a indignarsi,
a protestare, a dire quanto spreco, quanto basterebbe poco per pulire tutto,
illuminare, mettere le panchine e trasformare in un parco. E raccontavano di
parchi visti nell’ultimo viaggio all’estero con fontane che si attivano quando
passi e bellissime architetture contemporanee. Ma molti altri dicevano che era
meglio di no, che era bello così, che bastava occuparsene e prendersene cura,
una pulizia sì, poteva andare bene, ma non c’era bisogno di architetti e
paesaggisti, solo di persone, di animali e di piante. Che se si decide di fare dei
progetti poi chiudono tutto per anni e non si potrà più usare, che per spendere
più soldi e guadagnarci di più avrebbero fatto cose inutili e anche brutte,
meglio abitarlo e trasformarlo nel tempo, con il minimo dello sforzo. Che il
selvatico altrimenti sarebbe tornato lontano, solo nei boschi. Che l’unica
architettura per abitare insieme questi posti è nei nostri piedi, è il
camminare.
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