articolo scritto in occasione di
a cura di Giovanni Caudo, Janet Hetman, Annalisa Metta
Case vecchie, case nuove, case di lusso, casermoni, torri,
stecche, villettopoli, baraccopoli, zone agricole, industriali, commerciali, ferroviarie,
orti urbani, campi arati, campi incolti, parchi, giardini, fiumi, torrenti, rovine
antiche, rovine contemporanee, altri tempi, altre epoche, altri abitanti, altre
velocità, altre culture, altre abitudini. Compresenti, presenti insieme,
ibridi, contaminati, estranei, eterogenei. Uno dopo l’altro, uno di fronte
all’altro, uno dentro l’altro, uno sopra all’altro. Già… ma soprattutto, qual è
l’Uno e qual è l’Altro? E noi… siamo nell’Uno o nell’Altro? E se siamo nell’Uno,
siamo proprio sicuri di saperlo vedere, l’Altro? Siamo certi di saperlo
riconoscere il diverso da noi Uni? E di saper accettare il suo voler rimanere
Altro, finanche il suo rifiuto di diventare noi? Siamo capaci di non voler assimilare,
colonizzare, omologare, pacificare l’Altro? Siamo disposti a non indurlo a
diventar semplicemente uno dei tanti Uno?
Terrains Vagues, descampados, waste lands, spazi in
abbandono. Quanti Spazi Altri, Territori Attuali, Terzi Paesaggi, e quanti spazi
interstiziali, residuali, marginali, spariscono ogni giorno per l’avanzare dei nostri
Uno incapaci di vederli? Quanti di loro son condannati ogni giorno a
trasformarsi in parchi, prati inglesi, recintati, controllati, addomesticati? Quanta
non-città ogni giorno è costretta a diventare città? Architetti, paesaggisti,
artisti, attivisti, cavalieri della compresenza di tempi e luoghi, siamo poi capaci
di comprendere anche gli Spazi Altri? E come si fa a trovarli, riconoscerli, vederli,
e in definitiva, amarli? Siamo davvero capaci a desiderarli per come sono,
nelle loro identità molteplici e spesso conflittuali? Si perché gli Altri, da
sempre, sono portatori di disordine, di rivoluzione, di crisi delle certezze
del nostro stesso essere Uni. L’apparizione dell’Altro alimenta paure. Il suo
primo effetto è farci riconoscere in quanto Uni, differenziarci, unificarci, anche
con quelli che prima credevamo essere Altri e che oggi sono dalla nostra parte,
dalla parte degli Uni. Perché l’arrivo dei Nuovi Altri spinge i Vecchi Altri a
diventare Nuovi Uni. E il processo è in continuo divenire, spostamento dopo
spostamento. È tutto un divenir Altro.
La città è sempre più densa. Gli spazi liberi sono pochi. Ora,
ancora per poco, prima che arrivino le case, sono contesi tra chi se ne
appropria per coltivare orti urbani, attivisti ecologisti - i Vecchi Altri-, e
chi ci va a vivere e ci costruisce le baracche, sia i migranti - i Nuovi Altri
- che anche i Rom, eternamente Altri. Le amministrazioni che fino a ieri ci
avevano ostacolati, oggi ci fanno piantare gli orti perché lo spazio non sia
occupato dalle baracche. Si mettono gli Uni contro gli Altri, i Vecchi Altri
contro i Nuovi Altri. Lo spostamento è continuo, lo spazio è in divenire, e le
persone anche. I Nuovi Uni sembrano avere la meglio sugli Altri. Ma poi
arriveranno le case, gli ex Nuovi Uni ritorneranno ad essere Altri, difenderemo
gli orti ma alla fine dovremmo restituire lo spazio agli Uni, agli eternamente
Uni. È un eterno fluire tra gli Uni e gli Altri. E anche noi possiamo essere
sia gli Uni che gli Altri, anche contemporaneamente, in diversi contesti, con
diverse maschere, ora da Uni e ora da Altri.
Ma noi Uni, quelli buoni, progressisti, inclusivi non
abbiamo in fondo in fondo un po’ paura degli Altri? E gli Altri, hanno o non
hanno, anche loro, un po’ paura di noialtri? Perché presumiamo che gli Altri vogliono
essere come noi Uni? Che aspirino ad essere semplicemente accettati come
diversi? Che sappiano accettarci, comprenderci, amarci e non vogliano invece a
loro volta colonizzarci, spodestarci, assimilarci? Siamo sicuri che quegli
Altri non siano proprio quel nemico disegnato dagli Uni cattivi, i conservatori,
i puristi identitari, i razzisti? Dobbiamo proprio lasciare tutto il terreno ai
rovi, alle spine alle ortiche, alle baracche, e anche ai chador? O non c’è
forse una via, un progetto Altro, capace di vedere, amare e liberare quanti più
Uni e Altri che convivono negli spazi di Noialtri?
Spazi liberati, occupati, antagonisti, alternativi, flussi
di culture, città meticcia, ibrida e alternativa, dove persone diverse si
incontrano ma forse non si vedono veramente. Anche qui tutto sembra toccarsi ma
poi alla fine scivola via, non si tocca, non si contamina, ognuno rimane nella
sua bolla. Supponiamo, immaginiamo, pensiamo di sapere chi c’è nell’altra
bolla, ma non verifichiamo di persona la nostra ignoranza di chi vive, di chi
abita, chi passa nel nostro spazio. C’è qualcuno che ha veramente la curiosità
e il coraggio di mettere tutto insieme? C’è qualcuno che nel profondo desidera
mischiare le cose, tra gli Uni ma in fondo anche tra gli Altri? No, meglio ignorarci
piuttosto che offenderci. Demoliamo e ricostruiamo eternamente i muri ipocriti dell’ignoranza
reciproca. Rispetto ma non contatto, finta di niente, attenti a non fare una
figuraccia, minimo dello sforzo: chiamalo nero, omosessuale, disabile, rom che
se lo chiami negro, frocio, storpio o zingaro, come lo stai pensando, questo non
sta bene. Rispetta e tieni distante. Finisce che gli sorridi ma non ci parli. Va
tutto bene. Viviamo un’epoca di noncuranza, che con buona coscienza mette tutti
gli Uni insieme e contro gli Altri, incapace ormai di riconoscere e di vedere
né gli Uni né gli Altri. E in questo spettacolo c’è un posto per tutti, per i
buoni e per i cattivi degli Uni e degli Altri. Ma la sensazione è che siamo
vicini alla fine dello spettacolo. Cosa succederà quando si chiuderà il
sipario? Chi rimarrà Uno e chi rimarrà Altro? E se nel frattempo noi Uni fossimo
già diventati gli Altri? E se gli Uni cattivi ci avessero messo, proprio a noialtri,
noi Uni buoni, tra tutti gli Altri? E se non ci fosse rimasto altro che lo
Spazio Altro?
Nessun commento:
Posta un commento