A-ghost city, Marco Passaro, Esplorazione da porta San Giovanni |
L’associazione Jazzi si occupa
dell’abitare la natura e del recupero dei percorsi lenti. Nella nostra ricerca
abbiamo incontrato il lavoro di “Walkscapes” che ci sembra un ottimo spunto di ricerca
e riflessione. Ne parliamo con l’autore, Francesco Careri, docente di Arti
Civiche all’Università di Roma Tre.
Dalla biografia si evince che la tua è una
formazione in studi architettonici. Come inizi ad occuparti del camminare?
Il camminare entra nella riflessione sottraendo spazio all’oggetto
architettonico. È stato un lungo percorso. Nella mia tesi di laurea volevo
provare a non aggiungere niente alla periferia romana. Avevo scelto uno strano
luogo che passava sotto al Grande Raccordo Anulare e volevo farne un suolo, un
luogo per il cammino, un vuoto in cui stare, ma senza tuttavia chiamarlo “parco”.
Volevo che fosse semplicemente un percorso, uno spazio dell’andare che ci portava
a leggere le nuove bellezze della città, o meglio della periferia romana. Era
un luogo inclusivo ed eterogeneo, c’erano fabbriche abbandonate, rivenditori di
auto usate, parcheggi, casette abusive, le rive del Tevere. Volevo trovare il modo di farle leggere e
vivere senza farle diventare un disegno del paesaggio. Insomma era un primo
tentativo di proporre un altro punto di vista sulla realtà. Era un modo per
osservare con altri occhi, ma allo stesso tempo, permetteva di essere presente
lì, nei luoghi. In quegli anni con il gruppo Stalker abbiamo cominciato a
camminare e a fare delle esperienze di derive urbane di alcuni giorni
perdendoci nella città, tra i Territori Attuali, come li avevamo definiti nel
nostro Manifesto. Dal 1995 abbiamo cominciato a camminare in moltissime città e
non abbiamo mai smesso. È proprio da quelle esperienze che è nato Walkscapes. Avevo
vinto la borsa di dottorato è ho deciso di provare a fare una genealogia del nostro
lavoro, scoprendo che prima dei situazionisti, che già conoscevamo, i dadaisti,
poi i surrealisti, e poi tanti altri artisti fino agli anni settanta, avevano già
utilizzato la pratica del camminare come pratica estetica e che noi la stavamo
recuperando, reinterpretando, reinventando, in qualche modo riadattandola ai
nuovi spazi che si aprivano negli anni ‘90. Ci rendevamo conto di essere giunti
alla consapevolezza di non voler più aggiungere qualcosa al mondo, che il mondo
era già tanto costruito, che c’erano posti incredibilmente belli e che nessuno
guardava: non servivano nuovi oggetti, servivano però degli occhi nuovi per
guardare. La necessità di uno sguardo nuovo era stata un obiettivo del
movimento studentesco della pantera degli anni ‘90; avevamo semplicemente deciso
di attuarlo.
Dopo questi anni di riflessioni,
possiamo oggi ridefinire in che relazione sta il camminare con la pratica
architettonica?
È una domanda difficile alla quale da tempo giro intorno e non so se saprò
rispondere mai veramente. Ho risposto nei fatti, nelle azioni artistiche, nei
libri, nel mio modo di fare didattica, nelle mie pratiche quotidiane. Io oggi uso
il camminare soprattutto come strumento d’insegnamento, ho un corso di
architettura che si chiama “arti civiche” in cui porto i miei studenti a
camminare per la città, nelle sue zone più sconosciute e meno vissute, dove
natura e città si ibridano e creano nuove situazioni. Non stiamo mai in aula,
nemmeno per il momento dell’esame. Usiamo il camminare per conoscere, per inciampare
in luoghi inediti, per esplorare, per incontrare comunità e a volte anche per
trovare dei luoghi fertili in cui costruire una nuova architettura. E io
propongo una definizione amplissima della parola architettura, che include
anche l’architettura immateriale, la performance, la poesia urbana. Ma a volte
dal camminare sono nati dei veri e propri oggetti. Questi manufatti sono delle
costruzioni relazionali: hanno bisogno di una relazione tra autore e pubblico;
non potrebbero esistere senza l’apporto del pubblico; sono antiautoriali ossia
contro la paternità di un autore; devono nascere da processi maieutici di
condivisione e di creazione collettiva; il loro obiettivo è di attivare,
provocare e leggere i desideri e i sogni di chi abita un luogo e di
trasformarli in una architettura. Sono manufatti costruiti di solito in legno,
in tecnologie facili da condividere, e in questo momento sono diventate anche
molto in voga tra giovani gruppi di architetti ed artisti. Si chiama in gergo operare alla scala 1.1, o anche design and build. I manufatti si
costruiscono sul momento e nel luogo con martelli e strumenti assieme agli
studenti, agli abitanti e a chiunque voglia partecipare al processo. Il fine è trasformare
lo spazio da artigiani piuttosto che architetti, bypassando il momento del disegno
e del progetto. Evitare il progetto calato dall’alto, pensato prima e costruito
dopo in base ai disegni, credo che il progetto nasca nei fatti, nel farsi, nel
percorso con le comunità incontrate sul cammino. Il mio Nomadismo non è
anti-architettonico ma sono da anni alla ricerca di una architettura che prende
forma a partire dal nomadismo. Nei miei libri Walkscapes e nell’ultimo Pasear,
detenerse (Camminare, fermarsi), che ancora non ha trovato un editore
italiano, la tesi è che sono stati i nomadi ad aver inventato l’architettura, i
primi menhir sono stati portati dalle popolazioni transitanti. L’architettura,
di fatto, nasce nomade. Ma il camminare, tuttavia, ha anche delle soste; e il
momento in cui il camminare diventa sedentario e comincia a costruire lo
spazio, deve conservare ancora in sé un’attitudine nomade.
Alla luce di queste riflessioni ed esperienze, come
potrebbe essere definito il cammino come pratica estetica?
Si tratta di ritornare
all’estetica senza l’oggetto. Quado ho scritto Walkscapes ero ossessionato dalla domanda: esistono un’architettura
ed un’arte senza un oggetto? La risposta è sempre sì, perché queste non sono
solamente l’oggetto finale, ma soprattutto la trasformazione simbolica dello
spazio in dato un tempo. Molte spazialità sono legate più alle processioni, a
rituali che hanno un significato simbolico e costituiscono lo spazio dell’andare.
Tutto questo comincia con uno strano evento organizzato dai dadaisti parigini
alla chiesa di Saint-Julien-le Pauvre il 14 Aprile 1921. Decidono di andare
tutti insieme in un luogo banale della città per farsi una foto di gruppo,
nient’altro. Non portano via un oggetto per mostrarlo in un museo, né lasciano
un oggetto fabbricato da loro in atelier e installato nello spazio pubblico.
Semplicemente vogliono dire: noi siamo qua, ci interessa questo posto e con i
nostri corpi ne testimoniamo l’esistenza, ne evidenziamo il suo valore
simbolico. Dada ci dice che con i nostri corpi, con la nostra presenza possiamo
attribuire un valore estetico ad un luogo banale che non ne avrebbe nessuno. È da
lì che ci si comincia a mettere dei nuovi occhiali per guardare la città in un
altro modo.
Quali sono i riferimenti letterari per un neofita
del cammino come pratica estetica?
Sicuramente “Le vie dei
canti” di Bruce Chatwin e poi direi “Perdersi” di Franco La Cecla. Il libro di
Chatwin è veramente fondamentale, un incompiuto inno poetico al nomadismo, da
lì si aprono mille porte. Quello di La Cecla ha un taglio più
socio-antropologico, per me è stato veramente importante e dovendone scegliere
solo due sceglierei questi. Ma consiglierei anche dei classici come l’epopea di
Gilgamesh, l’Odissea, l’ascesa al Monte Ventoso di Petrarca, il passeggiatore
solitario di Rousseau, il camminare di Thoreau, la passeggiata di Robert Walser
e tantissimi scritti degli artisti che praticano il camminare come forma di
arte.
Quale camminata ricordi come la più memorabile?
Quella fatta con Stalker
a Roma nel 1995, il titolo è Stalker
attraverso i Territori Attuali. La prima camminata nostra, il percorso
iniziatico che ci ha svegliati tutti insieme, quella in cui ogni passo era un
emozione e una conferma di quello che sentivamo. Quando siamo tornati a casa
dopo quattro giorni di vagabondaggio eravamo veramente altri, la nostra città
era diventata un'altra, tutto era diventato altro. Quella camminata continua ad
essere la numero uno.
Quella invece che sogni di fare?
La Sardegna intera. Facendosi
guidare dal vento, con il vento in poppa. L’idea è di Aldo Innocenzi, di
Stalker, con cui abbiamo fatto molte camminate sarde. Percorrerla tutta,
sospinti dagli elementi della natura è uno dei nostri sogni. L’idea sarebbe
anche di accompagnarsi ai pastori, di farci consegnare da pastore a pastore e
di conoscere non solo la natura ma anche le relazioni umane, di essere il
tramite ed il testimone di questa relazione.
Che differenza esiste tra spazio nomade e spazio
erratico?
Queste due parole fanno
riferimento a due periodi storici distinti: l’erranza è il camminare dell’età paleolitica, prima della nascita
dell’agricoltura e della pastorizia, è un camminare senza meta, in cui le genti
deambulano nello spazio erratico, senza una direzione definita. Dopo il
paleolitico, con il passaggio al neolitico e quindi la nascita dell’agricoltura
e della pastorizia, allora si puo parlare di nomadismo. Le lunghe transumanze
dei nomadi sono circolari e riportano ad aree stanziali. Il nomadismo prevede sempre
un ritorno, un fine. Il pastore non è più il cacciatore che insegue la preda. Stalker
è una parola di caccia, prima di essere un crimine, vuol dire inseguire la
preda, noi lo abbiamo preso dal film Stalker
di Tarkowskij, un film magico, mistico, sciamanico, insomma assolutamente da
vedere. La parola nomadismo è oggi di moda perché più evocativa e sembra più
poetica, ma in realtà quello che in molti cerchiamo è lo spazio dell’erranza,
dell’andare, del perdersi. Uno spazio in eterno movimento, uno spazio
iniziatico in cui crescere e cambiare, forse La Via dove ricevere
l’illuminazione. Budda, Gesù e Maometto non sono pastori nomadi, il loro andare
è un perdersi nella conoscenza per diventare altri. Lo si può fare nei boschi e
nei deserti, ma anche nelle città.
Cosa cambia in questa pratica se pensiamo al
cammino nella natura?
La natura è più… ho
sempre dei problemi a fare questo passaggio perché oggi l’idea di natura è molto
codificata ed è più difficile rovesciarne lo sguardo, c’è poco da inventare, la
sua bellezza estetica è difficile da reinterpretare. Prima nella natura mi
piaceva soprattutto trovare ciò che la disturba, cercavo gli elementi che rivelavano
un contenuto più scomodo, mi interessava una natura contaminata, ibrida. Ma in
realtà amo molto la natura come divinità, come presenza, come Dea Madre, ne
sento il suo suono e mi emoziono, la so riconoscere. E mi interessano i
paesaggi naturali - come quando parlavo della Sardegna - perché ci sono una
serie di segni, di menhir, dolmen quasi invisibili, mi piace ripercorrere i
cammini riflettendo su come collegare questi spazi. Quando camminare nella
natura diventa la scoperta di qualcosa, allora mi esalta, ma non è la stessa
cosa del semplice arrivare in vetta. Non sono uno che fa nordic walking, trekking
o cose del genere. Mi piace trovare tracce, seguirle, aprire nuove piste,
dirottare il gruppo a prendere in mano lo spazio, giocare a reinventarlo, perdersi.
Cosa distingue il cammino dal percorso?
Il camminare è più
l’azione e il percorso è più il luogo. Il percorso è un tracciato un po’ più
solido di un sentiero, è strada, qualcosa di fisso e di solido, anche
materialmente ha uno spessore, ma il percorso è anche uno spazio percorso, il
fatto stesso di percorrere. È un oggetto ed è anche un azione. Il sentiero
avvicina queste due nature del percorso, il sentiero porta il cammino ma senza
il cammino si dissolve. Il sentiero è la prima traccia del camminare, ci dice
che esiste anche il camminare senza lasciar tracce, un azione che costruisce lo
spazio e lo dimentica nel momento in cui lo fa. Creare un sentiero nella natura
incontaminata è una forma di architettura che mi attrae tantissimo, è forse il
mio ideale di architettura.
Dai tempi iniziali di Stalker, come è cambiato lo
sguardo sul cammino?
Lo sguardo è più o meno
uguale, ma con il tempo l’oggetto di ricerca è cambiato, si è ampliato. Direi
che da uno sguardo sulla natura ibrida della città siamo passati ad uno sguardo
sull’abitare nella città ibrida. Quella natura di prima oggi è sempre più
abitata e quello che cerco è una sempre maggiore confidenza nel rapporto con
l’altro, con lo straniero, con il diverso che abita nelle nostre città; nella
prima camminata del 1995 siamo stati ospiti di alcuni albanesi che avevano
occupato un casale e noi avevamo chiesto di montare le tende nel campetto dei
figli: anche allora l’Altro come cultura urbana esisteva e ci ospitava. Ma magari
trovavamo un campo rom e non ci veniva neanche in mente di entrare, mentre oggi
ci si entra subito, senza troppi imbarazzi e sapendo come fare; con il tempo
abbiamo messo alla prova la nostra capacità relazionale, abbiamo messo alla
prova la nostra capacità di dialogo, di penetrazione più profonda nello spazio
abitato.
Un mese fa ero a Lima, ho
fatto delle camminate molto belle partendo dalla cordigliera delle Ande attraversando
la città, fino all’Oceano, con l’idea di sentirci acqua e di percolare in
discesa, trovando il nostro percorso naturale fino al mare. Mi piace camminare
con gli autoctoni, si riesce sempre ad aprirgli gli occhi, a fargli vedere
nuove cose, a portarli in posti dove mai si sarebbero sognati di andare. Mi
piace dimostrargli che tanti posto che sembrano essere esclusi dalla città,
impossibili da penetrare, là dove i fantasmi più reconditi si manifestano e
vengono a galla tutte le paure, sono spesso luoghi in cui lo spazio è più
disponibile, dove le persone hanno voglia di raccontarsi, hanno necessità di
essere viste. Cammino molto in Sud America e lì il camminare è una riappropriazione
democratica dello spazio, da europei non ci rendiamo conto di quanto spazio
pubblico abbiamo ancora a nostra disposizione, di che libertà di movimento
ancora possediamo. In Sudamerica, ma soprattutto in Nord America se cammini sul
marciapiede o sei un homeless o sei un ladro, sei comunque visto male, se non
hai un’auto sei un tipo pericoloso. La dimensione democratica del camminare è
molto importante politicamente. È l’unica medicina contro la demagogia del
controllo e della sicurezza che stanno sempre più limitando le nostre libertà.
L’associazione Jazzi ha inserito come tema
centrale nello sviluppo della ricerca il recupero del percorso lento. Nella
vostra esperienza, quale ruolo svolge la lentezza? Quanto è importante il tempo
nei percorsi?
Da sempre il motto di
Stalker, la nostra parola d’ordine è “chi perde tempo guadagna spazio”. E
ancora oggi, sempre, prima di cominciare una camminata chiedo a tutti di
dimenticare il tempo, di mettersi a disposizione dello spazio, dico che se cominciamo
a camminare dobbiamo darci il tempo per perderci e per scoprire nuovi spazi. Se
non perdi il tempo non li trovi. L’obiettivo è quindi cercare non solo di
camminare lentamente ma di non avere una vera e propria meta, si deve avere al
massimo il desiderio di una direzione. La condizione migliore con cui
attraversare uno spazio, abitarci, goderne, è perdersi e perdere tempo,
arrivare a saper perdersi consapevolmente. Un’altra cosa importante è il non
avere il tabù della proprietà privata. Tutto lo spazio è completamente
permeabile, si deve poter scavalcare e non fermarsi di fronte alle frontiere.
Questo è un punto fondamentale, altrimenti si perde tutta la libertà di
movimento. I luoghi sconosciuti infatti sono spesso proprio quelli oltre i
confini, se non ti infili nel buco della rete, la realtà che c’è al di là non
sarà mai conosciuta. E l’ultima regola è quella di non tornare mai indietro, di
andare sempre avanti e non tornare sui tuoi passi, ripartire sempre in avanti.
Un altro punto fondamentale è il tema della notte,
del notturno. L’avete incrociato? Possiamo riflettere anche sul percorso e la
sosta notturni?
No so se lo sai ma sono proprio
nel mezzo di camminate notturne che abbiamo fatto con Stalker dal 15 al 31
agosto. Il progetto si chiama A-Gosth City ed è un progetto che fa parte
dell’estate romana, sono 7 camminate notturne a partire da 7 porte di Roma andando
in spazi inediti o utilizzando in spazi turistici in modi altri. Io in realtà
non ho partecipato alla stesura del progetto e ci sto andando diciamo come
partecipante. Ieri non ho dormito neanche un secondo, ma poche notti fa abbiamo
dormito in piazza del Quirinale, sulla scalinata di Piazza di Spagna, alla
fontana di Trevi. Si tratta di pratiche messe in atto per riappropriarsi dello
spazio della città e ribadire il diritto a dormire negli spazi della città che
sono esclusi a tutti i cittadini. La notte è uno spazio tempo sospeso, succede
molto poco, la città è spenta, e si attivano altre percezioni, un altro stato
d’animo, ci si sente su un altro pianeta. La natura di notte fa molta più paura
della città.
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