19/09/17

Chi perde tempo, guadagna spazio

A-ghost city, Marco Passaro, Esplorazione da porta San Giovanni
Intervista di Valeria Verdolini a Francesco Careri per Associazione Jazzi

L’associazione Jazzi si occupa dell’abitare la natura e del recupero dei percorsi lenti. Nella nostra ricerca abbiamo incontrato il lavoro di “Walkscapes” che ci sembra un ottimo spunto di ricerca e riflessione. Ne parliamo con l’autore, Francesco Careri, docente di Arti Civiche all’Università di Roma Tre. 

Dalla biografia si evince che la tua è una formazione in studi architettonici. Come inizi ad occuparti del camminare?
Il camminare entra nella riflessione sottraendo spazio all’oggetto architettonico. È stato un lungo percorso. Nella mia tesi di laurea volevo provare a non aggiungere niente alla periferia romana. Avevo scelto uno strano luogo che passava sotto al Grande Raccordo Anulare e volevo farne un suolo, un luogo per il cammino, un vuoto in cui stare, ma senza tuttavia chiamarlo “parco”. Volevo che fosse semplicemente un percorso, uno spazio dell’andare che ci portava a leggere le nuove bellezze della città, o meglio della periferia romana. Era un luogo inclusivo ed eterogeneo, c’erano fabbriche abbandonate, rivenditori di auto usate, parcheggi, casette abusive, le rive del Tevere.  Volevo trovare il modo di farle leggere e vivere senza farle diventare un disegno del paesaggio. Insomma era un primo tentativo di proporre un altro punto di vista sulla realtà. Era un modo per osservare con altri occhi, ma allo stesso tempo, permetteva di essere presente lì, nei luoghi. In quegli anni con il gruppo Stalker abbiamo cominciato a camminare e a fare delle esperienze di derive urbane di alcuni giorni perdendoci nella città, tra i Territori Attuali, come li avevamo definiti nel nostro Manifesto. Dal 1995 abbiamo cominciato a camminare in moltissime città e non abbiamo mai smesso. È proprio da quelle esperienze che è nato Walkscapes. Avevo vinto la borsa di dottorato è ho deciso di provare a fare una genealogia del nostro lavoro, scoprendo che prima dei situazionisti, che già conoscevamo, i dadaisti, poi i surrealisti, e poi tanti altri artisti fino agli anni settanta, avevano già utilizzato la pratica del camminare come pratica estetica e che noi la stavamo recuperando, reinterpretando, reinventando, in qualche modo riadattandola ai nuovi spazi che si aprivano negli anni ‘90. Ci rendevamo conto di essere giunti alla consapevolezza di non voler più aggiungere qualcosa al mondo, che il mondo era già tanto costruito, che c’erano posti incredibilmente belli e che nessuno guardava: non servivano nuovi oggetti, servivano però degli occhi nuovi per guardare. La necessità di uno sguardo nuovo era stata un obiettivo del movimento studentesco della pantera degli anni ‘90; avevamo semplicemente deciso di attuarlo.

Dopo questi anni di riflessioni, possiamo oggi ridefinire in che relazione sta il camminare con la pratica architettonica?
È una domanda difficile alla quale da tempo giro intorno e non so se saprò rispondere mai veramente. Ho risposto nei fatti, nelle azioni artistiche, nei libri, nel mio modo di fare didattica, nelle mie pratiche quotidiane. Io oggi uso il camminare soprattutto come strumento d’insegnamento, ho un corso di architettura che si chiama “arti civiche” in cui porto i miei studenti a camminare per la città, nelle sue zone più sconosciute e meno vissute, dove natura e città si ibridano e creano nuove situazioni. Non stiamo mai in aula, nemmeno per il momento dell’esame. Usiamo il camminare per conoscere, per inciampare in luoghi inediti, per esplorare, per incontrare comunità e a volte anche per trovare dei luoghi fertili in cui costruire una nuova architettura. E io propongo una definizione amplissima della parola architettura, che include anche l’architettura immateriale, la performance, la poesia urbana. Ma a volte dal camminare sono nati dei veri e propri oggetti. Questi manufatti sono delle costruzioni relazionali: hanno bisogno di una relazione tra autore e pubblico; non potrebbero esistere senza l’apporto del pubblico; sono antiautoriali ossia contro la paternità di un autore; devono nascere da processi maieutici di condivisione e di creazione collettiva; il loro obiettivo è di attivare, provocare e leggere i desideri e i sogni di chi abita un luogo e di trasformarli in una architettura. Sono manufatti costruiti di solito in legno, in tecnologie facili da condividere, e in questo momento sono diventate anche molto in voga tra giovani gruppi di architetti ed artisti. Si chiama in gergo operare alla scala 1.1, o anche design and build. I manufatti si costruiscono sul momento e nel luogo con martelli e strumenti assieme agli studenti, agli abitanti e a chiunque voglia partecipare al processo. Il fine è trasformare lo spazio da artigiani piuttosto che architetti, bypassando il momento del disegno e del progetto. Evitare il progetto calato dall’alto, pensato prima e costruito dopo in base ai disegni, credo che il progetto nasca nei fatti, nel farsi, nel percorso con le comunità incontrate sul cammino. Il mio Nomadismo non è anti-architettonico ma sono da anni alla ricerca di una architettura che prende forma a partire dal nomadismo. Nei miei libri Walkscapes e nell’ultimo Pasear, detenerse (Camminare, fermarsi), che ancora non ha trovato un editore italiano, la tesi è che sono stati i nomadi ad aver inventato l’architettura, i primi menhir sono stati portati dalle popolazioni transitanti. L’architettura, di fatto, nasce nomade. Ma il camminare, tuttavia, ha anche delle soste; e il momento in cui il camminare diventa sedentario e comincia a costruire lo spazio, deve conservare ancora in sé un’attitudine nomade.

Alla luce di queste riflessioni ed esperienze, come potrebbe essere definito il cammino come pratica estetica?
Si tratta di ritornare all’estetica senza l’oggetto. Quado ho scritto Walkscapes ero ossessionato dalla domanda: esistono un’architettura ed un’arte senza un oggetto? La risposta è sempre sì, perché queste non sono solamente l’oggetto finale, ma soprattutto la trasformazione simbolica dello spazio in dato un tempo. Molte spazialità sono legate più alle processioni, a rituali che hanno un significato simbolico e costituiscono lo spazio dell’andare. Tutto questo comincia con uno strano evento organizzato dai dadaisti parigini alla chiesa di Saint-Julien-le Pauvre il 14 Aprile 1921. Decidono di andare tutti insieme in un luogo banale della città per farsi una foto di gruppo, nient’altro. Non portano via un oggetto per mostrarlo in un museo, né lasciano un oggetto fabbricato da loro in atelier e installato nello spazio pubblico. Semplicemente vogliono dire: noi siamo qua, ci interessa questo posto e con i nostri corpi ne testimoniamo l’esistenza, ne evidenziamo il suo valore simbolico. Dada ci dice che con i nostri corpi, con la nostra presenza possiamo attribuire un valore estetico ad un luogo banale che non ne avrebbe nessuno. È da lì che ci si comincia a mettere dei nuovi occhiali per guardare la città in un altro modo.

Quali sono i riferimenti letterari per un neofita del cammino come pratica estetica?
Sicuramente “Le vie dei canti” di Bruce Chatwin e poi direi “Perdersi” di Franco La Cecla. Il libro di Chatwin è veramente fondamentale, un incompiuto inno poetico al nomadismo, da lì si aprono mille porte. Quello di La Cecla ha un taglio più socio-antropologico, per me è stato veramente importante e dovendone scegliere solo due sceglierei questi. Ma consiglierei anche dei classici come l’epopea di Gilgamesh, l’Odissea, l’ascesa al Monte Ventoso di Petrarca, il passeggiatore solitario di Rousseau, il camminare di Thoreau, la passeggiata di Robert Walser e tantissimi scritti degli artisti che praticano il camminare come forma di arte.

Quale camminata ricordi come la più memorabile?
Quella fatta con Stalker a Roma nel 1995, il titolo è Stalker attraverso i Territori Attuali. La prima camminata nostra, il percorso iniziatico che ci ha svegliati tutti insieme, quella in cui ogni passo era un emozione e una conferma di quello che sentivamo. Quando siamo tornati a casa dopo quattro giorni di vagabondaggio eravamo veramente altri, la nostra città era diventata un'altra, tutto era diventato altro. Quella camminata continua ad essere la numero uno.

Quella invece che sogni di fare?
La Sardegna intera. Facendosi guidare dal vento, con il vento in poppa. L’idea è di Aldo Innocenzi, di Stalker, con cui abbiamo fatto molte camminate sarde. Percorrerla tutta, sospinti dagli elementi della natura è uno dei nostri sogni. L’idea sarebbe anche di accompagnarsi ai pastori, di farci consegnare da pastore a pastore e di conoscere non solo la natura ma anche le relazioni umane, di essere il tramite ed il testimone di questa relazione.

Che differenza esiste tra spazio nomade e spazio erratico?
Queste due parole fanno riferimento a due periodi storici distinti: l’erranza è il camminare dell’età paleolitica, prima della nascita dell’agricoltura e della pastorizia, è un camminare senza meta, in cui le genti deambulano nello spazio erratico, senza una direzione definita. Dopo il paleolitico, con il passaggio al neolitico e quindi la nascita dell’agricoltura e della pastorizia, allora si puo parlare di nomadismo. Le lunghe transumanze dei nomadi sono circolari e riportano ad aree stanziali. Il nomadismo prevede sempre un ritorno, un fine. Il pastore non è più il cacciatore che insegue la preda. Stalker è una parola di caccia, prima di essere un crimine, vuol dire inseguire la preda, noi lo abbiamo preso dal film Stalker di Tarkowskij, un film magico, mistico, sciamanico, insomma assolutamente da vedere. La parola nomadismo è oggi di moda perché più evocativa e sembra più poetica, ma in realtà quello che in molti cerchiamo è lo spazio dell’erranza, dell’andare, del perdersi. Uno spazio in eterno movimento, uno spazio iniziatico in cui crescere e cambiare, forse La Via dove ricevere l’illuminazione. Budda, Gesù e Maometto non sono pastori nomadi, il loro andare è un perdersi nella conoscenza per diventare altri. Lo si può fare nei boschi e nei deserti, ma anche nelle città.

Cosa cambia in questa pratica se pensiamo al cammino nella natura?
La natura è più… ho sempre dei problemi a fare questo passaggio perché oggi l’idea di natura è molto codificata ed è più difficile rovesciarne lo sguardo, c’è poco da inventare, la sua bellezza estetica è difficile da reinterpretare. Prima nella natura mi piaceva soprattutto trovare ciò che la disturba, cercavo gli elementi che rivelavano un contenuto più scomodo, mi interessava una natura contaminata, ibrida. Ma in realtà amo molto la natura come divinità, come presenza, come Dea Madre, ne sento il suo suono e mi emoziono, la so riconoscere. E mi interessano i paesaggi naturali - come quando parlavo della Sardegna - perché ci sono una serie di segni, di menhir, dolmen quasi invisibili, mi piace ripercorrere i cammini riflettendo su come collegare questi spazi. Quando camminare nella natura diventa la scoperta di qualcosa, allora mi esalta, ma non è la stessa cosa del semplice arrivare in vetta. Non sono uno che fa nordic walking, trekking o cose del genere. Mi piace trovare tracce, seguirle, aprire nuove piste, dirottare il gruppo a prendere in mano lo spazio, giocare a reinventarlo, perdersi.

Cosa distingue il cammino dal percorso?
Il camminare è più l’azione e il percorso è più il luogo. Il percorso è un tracciato un po’ più solido di un sentiero, è strada, qualcosa di fisso e di solido, anche materialmente ha uno spessore, ma il percorso è anche uno spazio percorso, il fatto stesso di percorrere. È un oggetto ed è anche un azione. Il sentiero avvicina queste due nature del percorso, il sentiero porta il cammino ma senza il cammino si dissolve. Il sentiero è la prima traccia del camminare, ci dice che esiste anche il camminare senza lasciar tracce, un azione che costruisce lo spazio e lo dimentica nel momento in cui lo fa. Creare un sentiero nella natura incontaminata è una forma di architettura che mi attrae tantissimo, è forse il mio ideale di architettura.

Dai tempi iniziali di Stalker, come è cambiato lo sguardo sul cammino?
Lo sguardo è più o meno uguale, ma con il tempo l’oggetto di ricerca è cambiato, si è ampliato. Direi che da uno sguardo sulla natura ibrida della città siamo passati ad uno sguardo sull’abitare nella città ibrida. Quella natura di prima oggi è sempre più abitata e quello che cerco è una sempre maggiore confidenza nel rapporto con l’altro, con lo straniero, con il diverso che abita nelle nostre città; nella prima camminata del 1995 siamo stati ospiti di alcuni albanesi che avevano occupato un casale e noi avevamo chiesto di montare le tende nel campetto dei figli: anche allora l’Altro come cultura urbana esisteva e ci ospitava. Ma magari trovavamo un campo rom e non ci veniva neanche in mente di entrare, mentre oggi ci si entra subito, senza troppi imbarazzi e sapendo come fare; con il tempo abbiamo messo alla prova la nostra capacità relazionale, abbiamo messo alla prova la nostra capacità di dialogo, di penetrazione più profonda nello spazio abitato.
Un mese fa ero a Lima, ho fatto delle camminate molto belle partendo dalla cordigliera delle Ande attraversando la città, fino all’Oceano, con l’idea di sentirci acqua e di percolare in discesa, trovando il nostro percorso naturale fino al mare. Mi piace camminare con gli autoctoni, si riesce sempre ad aprirgli gli occhi, a fargli vedere nuove cose, a portarli in posti dove mai si sarebbero sognati di andare. Mi piace dimostrargli che tanti posto che sembrano essere esclusi dalla città, impossibili da penetrare, là dove i fantasmi più reconditi si manifestano e vengono a galla tutte le paure, sono spesso luoghi in cui lo spazio è più disponibile, dove le persone hanno voglia di raccontarsi, hanno necessità di essere viste. Cammino molto in Sud America e lì il camminare è una riappropriazione democratica dello spazio, da europei non ci rendiamo conto di quanto spazio pubblico abbiamo ancora a nostra disposizione, di che libertà di movimento ancora possediamo. In Sudamerica, ma soprattutto in Nord America se cammini sul marciapiede o sei un homeless o sei un ladro, sei comunque visto male, se non hai un’auto sei un tipo pericoloso. La dimensione democratica del camminare è molto importante politicamente. È l’unica medicina contro la demagogia del controllo e della sicurezza che stanno sempre più limitando le nostre libertà.

L’associazione Jazzi ha inserito come tema centrale nello sviluppo della ricerca il recupero del percorso lento. Nella vostra esperienza, quale ruolo svolge la lentezza? Quanto è importante il tempo nei percorsi?
Da sempre il motto di Stalker, la nostra parola d’ordine è “chi perde tempo guadagna spazio”. E ancora oggi, sempre, prima di cominciare una camminata chiedo a tutti di dimenticare il tempo, di mettersi a disposizione dello spazio, dico che se cominciamo a camminare dobbiamo darci il tempo per perderci e per scoprire nuovi spazi. Se non perdi il tempo non li trovi. L’obiettivo è quindi cercare non solo di camminare lentamente ma di non avere una vera e propria meta, si deve avere al massimo il desiderio di una direzione. La condizione migliore con cui attraversare uno spazio, abitarci, goderne, è perdersi e perdere tempo, arrivare a saper perdersi consapevolmente. Un’altra cosa importante è il non avere il tabù della proprietà privata. Tutto lo spazio è completamente permeabile, si deve poter scavalcare e non fermarsi di fronte alle frontiere. Questo è un punto fondamentale, altrimenti si perde tutta la libertà di movimento. I luoghi sconosciuti infatti sono spesso proprio quelli oltre i confini, se non ti infili nel buco della rete, la realtà che c’è al di là non sarà mai conosciuta. E l’ultima regola è quella di non tornare mai indietro, di andare sempre avanti e non tornare sui tuoi passi, ripartire sempre in avanti.

Un altro punto fondamentale è il tema della notte, del notturno. L’avete incrociato? Possiamo riflettere anche sul percorso e la sosta notturni?

No so se lo sai ma sono proprio nel mezzo di camminate notturne che abbiamo fatto con Stalker dal 15 al 31 agosto. Il progetto si chiama A-Gosth City ed è un progetto che fa parte dell’estate romana, sono 7 camminate notturne a partire da 7 porte di Roma andando in spazi inediti o utilizzando in spazi turistici in modi altri. Io in realtà non ho partecipato alla stesura del progetto e ci sto andando diciamo come partecipante. Ieri non ho dormito neanche un secondo, ma poche notti fa abbiamo dormito in piazza del Quirinale, sulla scalinata di Piazza di Spagna, alla fontana di Trevi. Si tratta di pratiche messe in atto per riappropriarsi dello spazio della città e ribadire il diritto a dormire negli spazi della città che sono esclusi a tutti i cittadini. La notte è uno spazio tempo sospeso, succede molto poco, la città è spenta, e si attivano altre percezioni, un altro stato d’animo, ci si sente su un altro pianeta. La natura di notte fa molta più paura della città.

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