13/03/23

Walkabout Pasolini. Tra baracche, palazzoni, campi rom e occupazioni abitative

          Articolo pubblicato in: María Bastianes y Andrés Catalán (ed. y trad.), Pier Paolo Pasolini, Maravillosa y mísera ciudad, Ultramarinos, Barcelona, 2022, pp. 222 – 237. Successivamente in: Giorgio De Finis e Claudia Pecoraro, Periferi@, Castelvcchi, Roma 2022, pp. 320 – 329; in corso di pubblicazione con il titolo Rome, Does Pasolini Still Live Here? Amongst shanties, tower blocks, Roma camps and squats, in: Michael Obrist e Antonietta Putzu, The Last Grand Tour, Wien 2023.

Quest’ anno, il 2022, è stato il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, poeta, regista e scrittore e giornalista, testimone attendo delle mutazioni sociali e urbane che tra gli anni Cinquanta e Settanta trasformavano il volto di Roma. La sua morte violenta, avvenuta nel 1975 nella spiaggia ad Ostia, è uno dei tanti misteri italiani ancora avvolto nelle nebbie giudiziarie. Dopo la Città Spontanea delle baracche e dei tuguri, Pasolini non ha potuto vedere i nuovi campi di concentramento per i Rom né i palazzoni brutalisti della Città Pubblica. E seppure avesse profetizzato i barconi dei migranti, non poteva immaginare la Città Meticcia prodotta dalle occupazioni dei movimenti di lotta per la casa. Questo articolo racconta la Roma descritta nei testi di Pasolini per intrecciarsi con le esperienze di chi scrive con Stalker e in seguito con il Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre.

La Città Spontanea

Il 24 maggio del 1958 su “Vie Nuove”, la rivista del Partito Comunista italiano, viene pubblicato a firma di Pier Paolo Pasolini, il Viaggio dentro Roma e dintorni, con tre articoli sulle recenti trasformazioni urbanistiche e sociali di Roma: il fronte della città, i tuguri, i campi di concentramento.[1] Due anni prima, nel marzo del 1956 c’era stata una grande nevicata che aveva completamente isolato dal centro della città i nuovi insediamenti informali nati nelle periferie. Migliaia di persone all’improvviso erano rimaste al freddo, senza cibo né acqua. Per portare i primi aiuti si era attivato un gruppo di intellettuali comunisti tra i quali Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante e Alberto Moravia[2]. Il Viaggio per Roma e dintorni pubblicato su “Vie Nuove” nasce in quel contesto e ha l’obiettivo di spronare la politica e la cultura a fare qualcosa. L’articolo il fronte della città – che comincia con una serie di domande: “Cos’è Roma? Qual è Roma? Dove finisce e dove comincia Roma?” - prosegue con la descrizione dell’ “eruzione edilizia” ai margini della città, dove i nuovi palazzoni della speculazione immobiliare avanzano velocemente divorandosi la campagna, dove i migranti meridionali costruiscono accanto agli zingari i loro tuguri, dove vengono realizzati i nuovi campi di concentramento per i poveri. Pasolini descrive lo sguardo di un ipotetico turista in arrivo per visitare gli antichi monumenti della Città Eterna, che dal finestrino del treno o del pullman assiste come testimone distratto alla rivelazione di quella “Roma ignota al turista, ignorata dal benpensante, inesistente sulle piante”.

“Allora davanti al suo occhio che non vede, voleranno di qua e di là frammenti di villaggi di tuguri, distese di casette da città beduina, frane sgangherate di palazzoni e cinema sfarzosi, ex casali incastrati tra i grattacieli, dighe di pareti altissime e vicoletti fangosi, vuoti improvvisi in cui ricompaiono sterri e prati con qualche gregge sparso intorno, e in fondo – nella campagna bruciata o fangosa, tutta collinette, montarozzi, affossamenti, vecchie cave, altipiani, fogne, ruderi, scarichi, marane e immondezzai – il fronte della città.” [3]

In quegli anni esisteva una stretta relazione tra il fronte del cemento e la natura della campagna romana, ancora incredibilmente intatta ai piedi dei palazzoni. Quella natura diventava subito spazio vissuto: campi di pallone, sentieri che collegavano altre borgate, grotte dove giocare alla guerra, casali dove nascondersi a far l’amore, marane per lavarsi e per stendere i panni. Comitive di ragazzi entrano ed escono da quel fronte in un andirivieni quotidiano tra dentro e fuori, tra città e campagna. Vivono il margine aperto come uno spazio in continuità con le nuove case che lo hanno appena violentato. Ma negli anni seguenti quegli spazi sono stati via via dimenticati, il benessere borghese li ha trasformati in luoghi sinonimi di povertà e prostituzione, i sentieri si sono riempiti di rovi e sono diventati inaccessibili. A partire dagli anni Ottanta, a quegli spazi in abbandono si sono aggiunte le fabbriche dismesse e i campi agricoli rimasti senza agricoltori e, man mano che si costruivano i nuovi quartieri di case popolari, anche le baraccopoli hanno cominciato via via a scomparire. Gli unici abitanti di quelle campagne urbane erano rimasti gli zingari italiani, i profughi Rom che scappavano dai Balcani e i primi migranti in arrivo dal sud del mondo. Il resto del territorio era sostanzialmente disabitato, dimenticato, fuori dallo sguardo e dai pensieri della politica e dei cittadini.

A metà degli anni Novanta ho partecipato alla nascita di Stalker, un collettivo di architetti, artisti, attivisti e perditempo, con cui abbiamo cominciato a camminare tra quei margini alla scoperta dei Territori Attuali[4]. Quegli spazi abbandonati erano la nostra città, un territorio fertile, un’amnesia urbana dove sognare un nuovo rapporto tra arte, natura e metropoli. Ci attiravano in quanto zone di ibridazione tra urbano e selvatico, erano interstizi rimasti vuoti tra i quartieri, terrains vagues in attesa di essere compresi, spazi di libertà dove sperimentare nuove forme di creatività. Nell’ottobre del 1995 abbiamo realizzato a piedi la nostra prima transurbanza, un viaggio iniziatico di avventura e scoperta, e al ritorno abbiamo dipinto una mappa - Planisfero Roma - e scritto un Manifesto. Volevamo raccontare la città in forma di arcipelago, con continenti urbani staccati tra di loro e attraversati da mari, golfi e insenature di vuoti. Invitare la cittadinanza a perdersi per andare a conoscerli senza pregiudizi culturali. Abbiamo camminato per quattro giorni e tre notti senza mai rientrare a casa, dormendo in tenda, avanzando con i piedi nel fango, seguendo i sentieri tra i rovi, cercando di rimanere sempre in uno spazio selvatico, prolungando i vuoti e connettendoli con nuovi sentieri. Cercavamo di camminare senza calpestare l’asfalto ma sempre la terra, con il fronte della città sempre presente sullo sfondo. Pasolini era nei nostri passi, sapevamo di essere nella sua città e mescolavamo il suo sguardo con quelli dei Situazionisti, di Robert Smithson e soprattutto di Tarkovskij, perché la Zona era anche uno spazio mistico e la natura era quella mutante del film Stalker da cui avevamo preso il nome. Avevamo deciso di immergerci sicuri che lì avremmo trovato qualcosa di importante, che non tutto era stato già detto e mappato, che anche noi eravamo degni di raccontare la nostra città attuale, certi che la Selva ci avrebbe salvato, perché come diceva Hölderlin, “là dove c’è il pericolo, cresce ciò che ci salva”. Eravamo quasi tutti architetti, ma non ci interessava fare progetti e costruire edifici. Ci sembrava molto più interessante l’insorgere di nuovi spazi nel disinteresse della città, spazi abbandonati e “inesistenti sulle piante”. Nel nostro Manifesto l’ultimo punto è proprio L’abbandono:

“Il tentativo di definizione e di controllo di tutto il territorio, da sempre miraggio della nostra cultura occidentale, proprio mentre sembrava realizzarsi, inizia a fare acqua. Le prime crepe si sono aperte nei cuori del nostro sistema, le grandi città. Quel bosco che una volta cingeva città e villaggi, dove si nascondevano lupi ed orsi, ma anche gli incubi, le fantasie e l'idea stessa di libertà, è stato sospinto lontano dalle città, messo nell'angolo, circoscritto e addirittura, con un atto di clemenza, protetto. Ed ecco che quel bosco risorge, proprio lì nelle città dove i sistemi di appropriazione e di controllo del territorio sono più vecchi, fatiscenti. Nell'impossibilità del controllo totale, il cemento con il quale era stata ricoperta la terra si spacca, la terra ne fuoriesce in forme nuove e imprevedibili si prepara a contendere all'uomo il dominio dello spazio, partendo dai sui stessi scarti. Prevedere l'imprevedibile, salvaguardare il divenire dei Territori Attuali abbandonandoli. L'abbandono è la massima forma di cura per ciò che è nato e si è sviluppato al di là della volontà e del progetto dell'uomo.”[5]

Un mese dopo il Giro di Roma eravamo di nuovo in strada, questa volta per un esplicito omaggio a Pier Paolo Pasolini in occasione del festival La Passione. Pasolini al Mandrione[6], che celebrava il ventennale della morte. Abbiamo passato giorni con una scopa in mano e con dei secchi di vernice blu a dipingere, per trecento metri, tutto l’asfalto di via del Mandrione, una stradina stretta e contorta che fiancheggia l’antico Acquedotto Felice nel suo ingresso a Roma. Via del Mandrione nel 1995 non era più quella delle foto che aveva scattato nel 1959 Henri Cartier-Bresson, né quello del testo della canzone Cristo al Mandrione scritta da Pasolini per Laura Betti e Gabriella Ferri[7], e ancora oggi è un luogo decisamente pasoliniano. È una stradina che gioca a rincorrersi con l’acquedotto e la ferrovia, e che malgrado la sua trasformazione in quartiere di casette con giardino, conserva un atmosfera che non è mai riuscita a cancellare completamente il suo passato. L’acquedotto era un’infrastruttura in grado di offrire riparo ed acqua e dagli anni Quaranta agli anni Ottanta aveva preso la forma di una lunga spina dorsale a cui si appoggiava una città di baracche. Nel 1943 vi si erano rifugiate le famiglie sfollate dal quartiere di San Lorenzo bombardato dagli americani, più tardi invece era diventato un luogo di prostituzione e di comunità Rom, i famosi zingari del Mandrione[8]. Nel suo Viaggio dentro Roma e dintorni pubblicato su “Vie Nuove” Pasolini descrive dettagliatamente i Tuguri del Mandrione e conclude:

«Ricordo che un giorno passando per il Mandrione in macchina con due miei amici bolognesi, angosciati a quella vista, c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni. Erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta trovata chissà dove come un piccolo selvaggio. Correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti, senza conoscere altro del mondo se non la casettina dove dormivano e i due palmi di melma dove giocavano. […] La pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto. Qualcosa si può, dunque, e si deve fare.»[9]

Una volta dipinto l’asfalto, la percezione di quello spazio era completamente cambiata. Di giorno gli automobilisti si trovavano a guidare su un nastro blu senza capire bene se fosse una nuova segnaletica e come dovevano comportarsi. La sera invece la strada era chiusa al traffico per il festival e sull’asfalto blu seminavamo centinaia di foglietti blu. In un lato c’era il titolo dell’azione “Walkabout Pasolini. Una strada blu d’asfalto (omaggio a Pier Paolo Pasolini)”, nell’altro lato la poesia di Pasolini Correvo nel crepuscolo fangoso[10] in cui avevamo sottolineato la frase “una strada blu d’asfalto”: 


Intorno ai grattacieli

popolari, già vecchi, i marci orti

e le fabbriche irte di gru ferme

stagnavano in un febbrile silenzio;

ma un po’ fuori dal centro rischiarato,

al fianco di quel silenzio, una strada

blu d’asfalto, pareva immersa

in una vita immemore ed intensa

quanto antica. 

(…)


Nella poesia il blu era quello del cielo che si rifletteva sulla strada bagnata dalla pioggia appena cessata, nel nostro caso la strada era veramente blu e costeggiava le arcate dell’acquedotto dove ancora si trovavano i resti delle maioliche e degli intonaci delle baracche in cui viveva quella “vita immemore ed intensa quanto antica”. Il titolo Walkabout era un riferimento all’erranza rituale degli aborigeni australiani riletta da Chatwin ne Le vie dei canti[11]. Per noi era importante sottolineare l’atto del camminare come atto estetico e rituale. Volevamo far camminare il pubblico su quella strada surreale e volevamo che ogni singola persona leggesse da solo la poesia mentre camminava lungo le arcate. Volevamo restituire il Pasolini camminatore, ricordarlo come poeta itinerante che va ad esplorare gli interstizi più crudi e al tempo stesso più umani della città.[12]

Nel 2006, quando sono diventato docente universitario, ho tenuto per la prima volta un corso peripatetico per esplorare la città come avevo imparato con Stalker. Il corso, che esiste ancora e si chiama Arti Civiche, si svolge un giorno a settimana interamente camminando[13]. Il primo anno abbiamo deciso di andare a piedi dall’ex Mattatoio, dove ha sede la Facoltà di Architettura, fino all’idroscalo di Ostia dove era stato ucciso Pier Paolo Pasolini. I miei ragazzi di vita erano una quindicina di studenti e studentesse pronte a tutto. Si camminava tra i campi accanto alla città costruita, come in tante scene di Mamma Roma e di Accattone. Finalmente eravamo fuori dalle aule universitarie e con tutto il giorno a disposizione per perderci, scavalcare cancelli, giocare con lo spazio, parlare con le persone. Non ci siamo fatti mancare anche atti di puro vandalismo, come abbattere i mattoni che chiudevano porte e finestre di casali abbandonati, lanciare una macchina abbandonata contro un muro fino a fargli esplodere i finestrini per lo scontro. Tra una avventura e l’altra ci fermavamo a leggere poesie e brani dalle Storie della Città di Dio. Molte sue poesie su Roma sono legate al camminare, sono racconti di quartieri, di strade, di adescamenti, in cui la città sembra una giungla eccitante di pericoli e solitudini. Anche se scritte dopo il suo ritorno a casa, sul sottofondo si sentono ancora i passi immersi nell’odore e nei suoni di quegli spazi. Arrivati sul luogo dell’assassinio abbiamo letto da Trasumanar e organizzar un poesia che sembrava scritta apposta per noi[14]:

“Bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c'è;
specie d'inverno; col vento che tira sull'erba bagnata,
e coi pietroni tra l'immondizia umidi e fangosi;
non c'è proprio nessun conforto, su ciò non c'è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.

Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri

- e anche di inverno. Per le strade abbandonate al vento,

Tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,

Essi sono molti – non sono che momenti di solitudine;

 (…)

Non c'è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.”

L’anno successivo, dall’idroscalo di Ostia abbiamo risalito le sponde del fiume per descriverle in un Atlante dell’abitare informale sul Tevere[15]. Abbiamo incontrato baracche di tutti i tipi, a volte isolate, altre volte a piccoli gruppi, altre volte immense baraccopoli con centinaia di persone. Sembrava di essere tornati indietro negli anni, perché le ultime baracche erano sparite negli anni Ottanta. Roma era di nuovo piena di tuguri, ma al posto degli immigrati italiani provenienti dalle campagne del sud, c’erano i migranti stranieri che venivano da tutto il mondo, di solito adulti, e naturalmente i Rom con i loro bambini, gli unici che erano sempre rimasti lì. Abbiamo passato un semestre intero a incontrare queste persone per cercare di capire e per raccontare la nostra indignazione con poesia. Quell’immagine dei bambini che giocano nel fango di fronte alle baracche purtroppo è ancora attuale. Ma in questi posti non ci entrano più gli intellettuali impegnati come dopo la nevicata del ‘56. Ci entra solo la polizia, gli assistenti sociali, le associazioni di volontariato e, quando c’è un fatto di cronaca nera, anche i giornalisti prima che arrivino le ruspe a distruggere tutto, le case di chi ha commesso un reato e le case di chi ha la sola colpa di abitargli vicino. Con il risultato che i tuguri si ricostruiscono pochi metri più in là, accanto ai detriti delle vecchie baracche distrutte e accumulate dalle ruspe. Il problema si sposta sempre e non si risolve mai, viene riportato a galla solo per fare campagna elettorale sulla pelle degli ultimi. Come al solito la guerra alla povertà viene fatta contro i poveri, sia dalle amministrazioni di destra che di sinistra. Mentre camminavamo lungo il Tevere il Sindaco Veltroni, di centrosinistra, ha avviato la costruzione di nuovi campi di concentramento monoetnici, per soli Rom, e li ha battezzati Villaggi della Solidarietà. Non sono nuovi quartieri ma campi per gli indesiderabili, veri e propri stati di eccezione lontani dalla vista della città, a volte senza acqua potabile. Le case sono container di latta, la densità è altissima, lo standard abitativo è di quattro metri quadri a persona quando la legge ne prevederebbe diciassette. Il sindaco successivo Alemanno, di estrema destra, ha trovato questo progetto molto all’avanguardia e ha deciso di ampliarlo e migliorarlo con guardiania privata e armata all’ingresso, e tutto intorno recinzioni con fili spinati e telecamere di sorveglianza: prigioni preventive per chi ha la sola colpa di essere povero e di essere Rom[16].

La Città Pubblica

L’articolo I campi di concentramento su “Vie Nuove” [17], è una breve storia di urbanistica del disprezzo[18], in cui Pasolini descrive le borgate romane dividendole tra borgate abusive e borgate ufficiali[19]. Le borgate abusive sono quelle nate nel dopoguerra lungo le vie consolari dove gli immigrati italiani avevano portato con loro un “costume di serietà e dignità rurale d’antica provincia”. Sono ammassi di casette bianche dipinte a calce come i villaggi beduini, che in seguito si sono evoluti in quartieri di villini e palazzine abusive che sono stati via via legalizzati e dotati di servizi. Le borgate ufficiali invece sono quelle “costruite dal Comune, si direbbe a bella posta, per concentrarvi i poveri, gli indesiderabili.” Le prime borgate ufficiali sono state le borgate fasciste dopo le demolizioni operate dal Regime nel centro storico, quando “forti contingenti di sottoproletariato romano, formicolante al centro, negli antichi quartieri sventrati, furono deportati in mezzo alla campagna, in quartieri isolati, costruiti non a caso come caserme o prigioni”. Al contrario della struttura urbana caotica e irregolare delle borgate abusive, in quelle ufficiali regna la geometria, lo stile è la ripetizione ossessiva delle case e dei cortili uniformi e omologanti. La seconda generazione di borgate ufficiali è quella a cui assiste Pasolini negli anni Cinquanta e che fanno da sfondo ai romanzi Una vita violenta e Ragazzi di vita: “le borgate democristiane sono identiche a quelle fasciste, perché identico è il rapporto che si istituisce tra Stato e i poveri: rapporto autoritario e paternalistico, profondamente inumano nella sua mistificazione religiosa”. Quello che cambia nelle borgate democristiane, rispetto a quelle fasciste, è la densità e l’altezza dei palazzoni, sempre identici tra loro ma disposti in diagonale per sfruttare al meglio la luce del sole. Si tratta dei quartieri neorealisti come il Quarticciolo, il Tuscolano e Tiburtino, dove lo stile dell’architettura razionalista nordeuropeo a volte si ibrida con uno più rurale e vernacolare che gli conferisce secondo Pasolini “un’aria romantica e civettuola”[20].

Il 2 novembre del 1975 Pasolini viene assassinato barbaramente all’Idroscalo di Ostia. La sua morte rimane ancora uno dei grandi misteri della storia italiana in cui sono implicati i servizi segreti cosiddetti “deviati”, la loggia massonica P2, e la direzione dell’ENI su cui Pasolini stava scrivendo il libro Petrolio. In quell’anno architetti e amministratori di sinistra lavoravano alla progettazione dei nuovi Piani per l’Edilizia Economica e Popolare (P.E.E.P.)[21], la terza generazione di borgate ufficiali che Pasolini non ha avuto il tempo di vedere: Corviale, Tor Bella Monaca, Laurentino 38, Vigne Nuove e gli altri grandi quartieri della città pubblica dove sono finiti ad abitare gli ex-baraccati descritti nel Viaggio dentro Roma e dintorni. Posso immaginare che Pasolini avrebbe vissuto la nascita di questi quartieri come una nuova generazione di “campi di concentramento per miserabili”. Erano quartieri progettati come autosufficienti e che avrebbero dovuto essere dotati di servizi e infrastrutture, ma che sono rimasti per anni dei giganteschi satelliti scollegati dalla città. La società omologata dal neoliberismo che Pasolini aveva visto nascere in embrione, aveva trasformato i cittadini in consumatori e i proletari in aspiranti borghesi. Negli ultimi anni della sua vita aveva detto che non c’era più speranza per Roma. In un’intervista che gli chiedeva di provare di antropomorfizzare la città aveva risposto:

“le attribuirei un sesso né maschile né femminile. Ma quello speciale sesso che è il sesso dei ragazzi. (…) il tipo di anima che nasce da una concezione non moralistica del mondo. E quindi nemmeno cristiana. L’anima di uno che ha una propria morale di tipo stoico-epicureo sopravvissuta, diciamo al cattolicesimo. (…) Roma è la città meno cattolica del mondo. Era una grande capitale popolare. Proletaria e sottoproletaria. Non più adesso che è diventata una città piccolo borghese. Oggi il ragazzo di borgata inforca la motoretta e viene al centro. Non si dice neanche più, come si diceva, vado dentro Roma. Il centro li ha raggiunti. (…) Prima gli uomini e le donne delle borgate non sentivano nessun complesso di inferiorità per il fatto di non appartenere alla classe cosiddetta privilegiata. Sentivano l’ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell’agiato. Lo consideravano anzi quasi un essere inferiore, incapace di aderire alla loro filosofia. Oggi invece sentono questo complesso di inferiorità. Se osserva i giovani popolani vedrà che non cercano più di imporsi per quello che essi sono, ma cercano di mimetizzarsi.”[22]

Sono passati quasi cinquant’anni dalla morte di Pasolini e la società è mutata, la città ha divorato la campagna, il neoliberismo malgrado il continuo stato di emergenza per crisi economiche guerre e pandemie, ha debellato quasi ogni forma di resistenza producendo sempre più indesiderabili e impoverendo quella classe piccolo borghese che aveva abbandonato le baracche per i palazzoni, come i romani chiamano quei quartieri grigi, fatti di edifici anonimi, in cemento armato a vista, brutali e brutalisti. Quartieri modello costruiti e subito abbandonati, prima dagli architetti che li avevano immaginati, poi dalle amministrazioni che avrebbero dovuto gestirli e infine dalla città che ha voltato la faccia per non guardarli. Pezzi di città lasciati al dibattito architettonico, alle strumentalizzazioni dei partiti, al controllo delle questure, agli assistenti sociali e alla buona volontà degli abitanti che con grande fatica sono riusciti a non farli esplodere. Dopo i primi venti anni di abbandono i palazzoni sono tornati nel dibattito urbanistico e dai primi anni del Duemila sono stati oggetto di nuove politiche di recupero urbano, cercando di dotarli di servizi per l’istruzione, i trasporti, la sanità. Oggi qui non abitano più solo gli indesiderabili, ma anche una classe medio-borghese che si organizza in associazioni e comitati e si oppone agli stereotipi e alle semplificazioni dei media, che dipingono questi quartieri semplicemente come ecomostri da abbattere.

Corviale è il più famoso di tutti i palazzoni, i romani lo chiamano il Serpentone seppure non abbia nulla di sinuoso essendo un unico edificio lineare lungo un chilometro. La prima volta che ci sono entrato è stato nel 1990 per scrivere un articolo per l’Architecture d’Aujourd’hui[23]. Corviale era abitato solo da sette anni, ma mancavano i mezzi per arrivarci: diecimila persone deportate nel pieno della campagna romana. L’articolo si chiamava Corviale la plus longue erreur du monde e finiva con le parole di un abitante: “signori architetti non rifate mai più un errore simile. Non rifate più questo errore”. Avevo ventitré anni, ero uno studente di architettura e i nostri professori, seppure le megastrutture non andassero più di moda, ci insegnavano a rimanere nell’ambito disciplinare, tra i tavoli da disegno, lontani dalla città e dalle persone. Quell’articolo era pieno di stereotipi e di parole che oggi non userei più, ma c’è una posizione critica molto chiara: “Non si può ridurre la città all’architettura e l’architettura ad opera d’arte riempita di appartamenti (…) L’architettura non deve giocare con la vita della povera gente e sottometterla ad esperimenti”. Arte, architettura e sperimentazione sociale erano termini che andavano radicalmente rivisti. La poesia doveva ritornare sul territorio per criticare e trasformare la società. Pasolini era morto ma la sua città rimaneva là e qualcuno ci doveva fare i conti.

Nel 2004 ci sono tornato con Stalker/Osservatorio Nomade e non mi ponevo più il problema se Corviale fosse o no un errore, semplicemente era lì e bisognava fare i conti con quello che c’era. L’intenzione era di esplorarlo, sgomberi da pregiudizi e dalle posizioni del dibattito accademico. Era abitato da ormai venti anni e noi come artisti eravamo chiamati dalla Fondazione Olivetti a Immaginare Corviale[24]. Osservatorio Nomade era una rete di artisti e ricercatori che Lorenzo Romito aveva costruito intorno a Stalker nel 2002. In una mappa degli attori si comprende la strategia del progetto e i ruoli di partecipanti, committenti, abitanti, artisti e architetti. È un diagramma con tre grandi insiemi: ON/Field, ossia i progetti artistici operanti nel campo; ON/UniverCity, i workshop condotti da gruppi di giovani architetti; ON/Network, la nostra televisione, i flyer e i giornalini che aggiornavano Corviale e la città su quello che andavamo facendo[25]. Il nostro quartier generale era nato con il progetto “Storie Comuni”, quando Matteo Fraterno e Cesare Pietroiusti erano riusciti a convincere Loredana, una signora rimasta sola in un grande appartamento del Terzo Lotto, ad ospitarci temporaneamente. Qui abbiamo invitato a cena, insieme e alle sue amiche, alcuni personaggi che avevano partecipato alla nascita di Corviale come Renato Nicolini, Achille Bonito Oliva e Stefano Fiorentino figlio di Mario, l’architetto del Serpentone. Avere una base dentro l’edificio ci permetteva di andare in giro non come visitatori ma come “ospiti di Loredana”, e questo cambiava tutto. La prima cosa che abbiamo capito era che gli abitanti si vergognavano di dire che abitavano a Corviale. Seppure fosse diventato un quartiere “normale”, con gli stessi problemi di tutte le periferie romane, Corviale per la città era ancora un mostro. La sua immagine stereotipata era diventata la scenografia di famose trasmissioni televisive, e i telegiornali nazionali la mostravano per ogni fatto di cronaca di una qualsivoglia periferia italiana. I media su quell’immagine obsoleta avevano costruito un immaginario di violenza, droga e disagio sociale. Di nuovo vengono in mente le parole di Pasolini degli Scritti Corsari a proposito della trasformazione borghese della società e del potere dei media:

“La responsabilità della televisione in tutto questo è enorme, non certo in quanto ‘mezzo tecnico’, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocarla. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere».[26]

La televisione e i media avevano costruito la maschera del mostro di Corviale, era dunque con i media che bisognava cercare di levargliela. Riprendendoci il potere dei media, con Corviale Network abbiamo raccontato in tutto il territorio romano una inedita immagine del Serpentone. Abbiamo compreso che i media, se usati ludicamente e poeticamente, possono trasformare la realtà più dei progetti di architettura.

Corviale è anche famoso per le case occupate del Piano Libero, i nuovi tuguri pasoliniani che attraversano tutto l’edificio laddove il progetto prevedeva lecorbuserianamente i negozi e gli spazi comuni. Se nell’immaginario cittadino Corviale era il Bronx di Roma, il quarto piano era il Bronx del Bronx. L’ATER, proprietaria dell’immobile non aveva la minima idea di chi ci abitava, per loro erano occupanti illegali che rubavano luce, riscaldamento e acqua agli assegnatari. Dall’esterno il Piano Libero si presenta con blocchetti di cemento non intonacati, lamiere metalliche, finestre di alluminio: una favela lineare che taglia orizzontalmente il blocco di cemento. Ma quando gli studenti hanno suonato alla porta e sono stati invitati ad entrare, si sono ritrovati prima in grandi spazi comuni con televisioni, sofà e tavoli da pingpong gestiti da vicinati solidali, e poi una volta dentro le case sono apparsi soggiorni accoglienti, cucine e bagni su cui si erano investiti ingenti somme. Molti degli occupanti erano figli degli assegnatari che, messa su famiglia, avevano deciso di trasferirsi in quei negozi che non avevamo mai aperto, altri avevano comprato la casa a occupanti precedenti, altri ancora affittavano ai mafiosi di turno. Tutti, o quasi tutti, avevano dato vita ad un abitare dignitoso che fuori non appariva assolutamente. Il loro desiderio era di mettersi in regola, di avere finalmente una casa. Nel 2006 ho continuato a lavorare sul Piano Libero per i nuovi Contratti di Quartiere su cui l’Ater aveva coinvolto Roma Tre. Si trattava di un programma di sperimentazione per la “realizzazione di alloggi di varia tipologia, destinati a categorie speciali, ovvero assegnati a coloro che ne hanno il titolo tra gli attuali occupanti”. Il Piano Libero era il luogo da cui cominciare per dare una nuova prospettiva all’intero quartiere, l’immaginario negativo da trasformare in una realtà positiva capace di dare risposte alle necessità degli abitanti, ritagliando il progetto come un vestito da cucire sui nuclei familiari. Insieme agli abitanti abbiamo così criticato il progetto preliminare redatto dall’Ater, abbiamo modificato i tagli e il numero degli alloggi per far spazio alle famiglie mononucleari e alle giovani coppie, abbiamo proposto di mantenere gli spazi comuni interfamiliari e i legami di vicinato preesistenti. Si è creato un Comitato che ha proposto un progetto di turnazioni dividendo il cantiere in fasi perché, assicuravano, da lì non se ne sarebbero mai andati se prima non gli veniva assegnata una nuova casa.

In questo momento sto continuando a lavorare a Corviale attraverso il Laboratorio di Città di Roma Tre[27], un presidio territoriale sostenuto dal 2018 dalla Regione Lazio come accompagnamento sociale e culturale dei nuovi interventi di rigenerazione urbana: il Chilometro Verde dell'architetta Guendalina Salimei, il Crossing Corviale dell'architetta Laura Peretti, il nuovo Piano Urbano Integrato da attuare con i fondi del PNRR messi a disposizione dall’Europa per il rilancio del Paese dopo la pandemia del coronavirus. Nel piano libero è infatti in corso un processo di regolarizzazione delle occupazioni illegali e che attraverso un Bando Speciale individua le famiglie in possesso dei requisiti per l’assegnazione di una casa pubblica[28]. Il Laboratorio si affaccia in una piazzetta dove sono presenti realtà associative di arte e artigianato, e in poco tempo emerge la volontà di regolare non solo le case ma tutti gli spazi commerciali attualmente occupati. Non ci si può limitare al Piano Libero, bisogna approfittare del momento per affrontare tutti i problemi insieme e non separatamente seguendo le logiche dei finanziamenti. Da subito attiviamo un processo artistico capace di conservare le memorie del piano occupato, non solo come testimonianza ma anche come risarcimento psicologico ed elaborazione dell’allontanamento dal proprio ambiente domestico e dell’inevitabile cambiamento della condizione di vita. Il rapporto di fiducia instaurato ci consente di entrare nelle case e nelle storie delle persone, di fotografare e rilevare gli appartamenti. I materiali esposti raccontano di case molto curate in cui si sono incrostati i ricordi, i disegni sui muri dei bambini che ormai sono cresciuti e andati via di casa. Spazi che il tempo ha permesso di personalizzare trasformando in case. La mostra, allestita in una sala condominiale, è diventata un museo permanente ed è un implicito riconoscimento pubblico alla capacità di produrre soluzioni autonome al proprio bisogno abitativo, attraverso una narrazione alternativa ai discorsi criminalizzanti o vittimizzanti sugli occupanti, attualmente prevalenti nella sfera pubblica.

La Città Meticcia

Alì dagli Occhi Azzurri

uno dei tanti figli di figli,

scenderà da Algeri, su navi

a vela e a remi. Saranno

con lui migliaia di uomini

coi corpicini e gli occhi

di poveri cani dei padri

sulle barche varate nei Regni della Fame.

Porteranno con sé i bambini,

e il pane e il formaggio

(…)

Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,

a milioni, vestiti di stracci

asiatici, e di camicie americane.

(…)

distruggeranno Roma

e sulle sue rovine

deporranno il germe

della Storia Antica.

Poi col Papa e ogni sacramento

andranno come zingari

su verso l’Ovest e il Nord

con le bandiere rosse

di Trotzky al vento… [29]

La Profezia di Pasolini si è inesorabilmente avverata. I movimenti migratori che per millenni hanno solcato le acque del Mediterraneo sono ripresi con tutto il loro vigore. Sempre più stranieri continuano a varcare i confini e abitare ciclicamente le rovine di Roma per costruirsi un rifugio, come nelle vecchie stampe in cui i pittori del Gran Tour mostravano il Colosseo abitato da baracche, con i panni stesi tra gli archi.[30] Alì dagli occhi azzurri abita qui, dorme sotto i ponti, si costruisce giacigli vicino alle stazioni, e quando infine trova un lavoro non può permettersi di trovare una casa dove mettere su una famiglia. Ma forse c’è qualcosa che nella profezia di Pasolini non era previsto. Migliaia di persone rifiutano di essere segregate e deportate nelle più lontane periferie e occupano edifici dismessi sottraendo la rendita ai poteri dominanti. Negli ultimi venti anni i movimenti di lotta per la casa, hanno raggiunto dimensioni del tutto eccezionali, sono riusciti a intercettare il flusso dei migranti, e trasformando le rovine in case hanno prodotto una rete di occupazioni abitative che conta più di cento grandi immobili dove vivono più di diecimila persone senza casa. L’incontro tra precari, studenti e famiglie di migranti provenienti dall’America Latina, dall’Africa e dall’Est Europa, ha prodotto modelli abitativi prima del tutto sconosciuti. Questi nuovi condomini interculturali sviluppano forme di coabitazione innovativa, mettono insieme sinergicamente le diverse declinazioni dell’emergenza abitativa e rispondono anche al bisogno di abitare temporaneo delle persone in transito. Al contrario del sistema dell’accoglienza istituzionale, che categorizza le persone secondo la provenienza e i diritti e le spazializza in differenti contenitori omogenei ed ermetici, nelle occupazioni tutto viene messo a contatto e ibridato. Chi abita qui non appartiene solo alla categoria dell’emergenza abitativa da anni nelle liste di attesa per la casa popolare, ma anche chi ha progetti di vita e desideri diversi e che non è considerato da nessuna politica abitativa: rifugiati e richiedenti asilo allontanati dal sistema di accoglienza istituzionale; chi ha esaurito i termini temporali senza riuscire a mettersi in regola; i cosiddetti dublinati che l’Europa rimanda indietro a causa del trattato di Dublino; i migranti economici in transito, che preferiscono non essere registrati in Italia e cercano di raggiungere il Nord Europa, e i tanti che hanno costruito relazioni e lavoro in Italia ma sono costretti alla clandestinità perché ai loro paesi non è riconosciuto l’asilo. E, fatto veramente degno di nota, le occupazioni sono state le prime realtà a includere anche i Rom nella babele di culture provenienti da tutto il mondo, rompendo quell’apartheid non dichiarato che ha da sempre escluso questa minoranza europea non solo dalle istituzioni ma anche dai contesti di lotta antagonista. Dopo molte resistenze iniziali dovute ai reciproci pregiudizi, oggi ci sono Rom in diverse occupazioni e non sono più considerati come occupanti rom, ma occupanti come tutti gli altri. Le occupazioni ospitano anche altre forme di vita urbana non residenziali che non troverebbero facilmente spazio nella città del mercato. In molti casi infatti hanno una parte “abitativa-privata” ai piani alti e una parte “sociale-pubblica” al livello della strada, dove diventano visibili e permeabili e offrono servizi e spazi per riunioni, concerti, taverne sociali, falegnamerie, ciclo-officine, spazi sportivi, laboratori artigianali, coinvolgendo non solo il mondo associativo e dei possibili alleati locali, ma anche il mondo della cultura istituzionale, delle università e dell’arte contemporanea. I tre principali movimenti romani – BPM, Coordinamento e Action - sia pure con enormi difficoltà e contraddizioni interne, realizzano quotidianamente un modello di città ospitale, inclusivo e intergenerazionale, dove si produce un’altra cultura e un’altra visione del mondo, un modello di autogestione assembleare e di ospitalità reciproca difficilmente riproducibile dalle istituzioni che si occupano di abitare e di accoglienza. Qui le culture popolari portate dai migranti si ibridano con ciò che rimane della culture antagoniste, per rivendicare insieme non più il solo diritto alla casa, ma il diritto alla città[31].  

La prima scena del film “Uccellacci e uccellini” doveva essere ambientata in un circo ed è la storia di un’aquila indomabile. Il film termina con il personaggio di Totò nei panni dell’addomesticatore francese, che dopo molteplici tentativi falliti, spicca il volo trasformandosi in volatile. L’episodio, che si chiamava "L'aigle" (l’aquila) ed è stato poi chiamato “Totò al circo”, è stato scartato durante il montaggio del film, ma ci rimangono un filmato sottotitolato e la prima sceneggiatura del film Pasolini:

“Il fondo della favola è la crisi del liberalismo occidentale e, nella fattispecie, del razionalismo parigino. M. Cournot è il domatore di un famoso circo francese, sceso a Roma. Sta dando una intervista a dei giornalisti italiani che naturalmente disprezza: che cosa annuncia? L’inizio di una impresa sensazionale: l’addomesticamento dell’aquila”[32]

Il circo di Pasolini non ha l’atmosfera dei film di Federico Fellini, di magica e onirica astronave di trombe luci e rulli di tamburo e di libertà zingara, ma è il luogo dell’addomesticamento e dell’indomabile. Il luogo della contraddizione tra ciò che vuole rimanere informale e spontaneo e la sua istituzionalizzazione in un sistema formale e razionale. Da qualche anno sto lavorando con un gruppo di giovani ricercatori di Roma Tre al progetto CIRCO, acronimo di Casa Irrinunciabile per la Ricreazione Civica e l’Ospitalità, è un progetto che prova ad entrare in questa contraddizione. È una proposta di politiche abitative per la città di Roma che nasce sulla base di quanto osservato nelle occupazioni abitative, e sulla spinta della nuova crisi dei migranti respinti ai confini europei. Il progetto nasce infatti nell’autunno del 2017 e consiste nel trasformare il patrimonio dismesso in una rete metropolitana di condomini interculturali fondati sull’Ospitalità: una città ospitale che intende situarsi esattamente nell’interstizio tra domestico e istituzionale, tra legale e illegale, tra formale e informale, proponendo alle istituzioni di sperimentare spazi innovativi in cui l’ospitalità sia concepita come occasione fertilizzante per la città. L’acronimo è un esplicito riferimento all’immaginario del circo felliniano, al nomade che porta in città un’atmosfera irreale e magica, ma decisamente estranea alla città sedentaria. Un universo itinerante che si installa nei terreni di scarto della città e che include e mete in mostra personaggi estranei e diversi come il nano, il clown, la donna canone. Il circo è il nomade che si mostra fiero della sua diversità, indossa una architettura diversa da tutti gli altri edifici, mobile e colorata come la gonna di una gitana. È il nomade socialmente accettabile, il diverso tra noi che però ci è familiare, è lo spazio dell’Altro di cui sentiamo un’arcaica necessità. È irrinunciabile, indomabile, irriducibile, è quella contraddizione di cui c’è sempre più bisogno: un luogo capace di mostrare la sua alterità, il suo potenziale conflitto la sua carica di provocazione, trasformandoli in energie rigeneratrici. Senza sottomettersi alle condizioni dell’ospitalità statale o municipale, il circo vuole essere un’architettura normogeneratrice, una rete di luoghi di sperimentazione continua che invece di subire regole è capace di proporre nuove regole per tutti. Il primo passaggio della ricerca è stata la realizzazione di diverse mappature pubbliche: quella dell’accoglienza istituzionale, quella delle occupazioni e della città resistente, e quella degli immobili abbandonati e sottoutilizzati in cui sarebbe possibile realizzare dei CIRCHI, come caserme militari, rimesse ferroviarie, cinema, teatri, scuole, strutture sportive, strutture sanitarie, beni ecclesiastici, fabbriche dismesse. In seguito sono stati individuati i potenziali abitanti di un circo, e si è compreso come insieme agli abitanti già presenti nelle occupazioni potrebbe co-abitare una vasta quantità di persone diverse che favorirebbero ibridazione e mixitè socioculturale: anziani, studenti fuorisede, expat, lavoratori stagionali, giovani precari, artisti, attivisti, volontariato sociale, fino a turisti interessati a soggiornare in una strana guesthouse sociale dove mettere a disposizione le proprie competenze.[33]

Le istituzioni hanno recentemente aperto una possibilità in cui sperimentare un prototipo di spazio ospitale a livello cittadino a partire proprio dalla regolarizzazione di un occupazione abitativa[34]. Si tratta di un progetto che prevede il “recupero partecipato del patrimonio artistico e sociale” di Porto Fluviale, una ex caserma militare occupata dal 2003 dal Coordinamento Cittadino Lotta per la Casa, con l’obiettivo di “recuperare un bene vincolato, rifunzionalizzando un immobile dismesso senza consumo di suolo e in un'ottica di sostenibilità e densificazione; incrementare il patrimonio di edilizia sociale; ridurre il disagio abitativo con un processo di integrazione sociale di una occupazione abitativa; dotare il quartiere di un nuovo spazio pubblico; utilizzare modalità innovative di gestione; attivare un processo partecipativo; incrementare la mixité sociale, intesa come antidoto ai processi di gentrificazione in atto nel quartiere e di valorizzare la prossimità sociale tra gruppi eterogenei”[35]. Porto Fluviale è infatti un edificio molto noto in città, è considerato un monumento sia dalla sovrintendenza che dai movimenti di lotta per la casa. È un'icona riconoscibile per le pitture murali dello street artist Blu, che hanno reso l’edificio famoso in tutto il mondo. Il progetto che prevede il recupero e la realizzazione di nuovi alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica da destinare agli attuali occupanti illegali e il recupero degli attuali spazi socio-culturali al piano terra che saranno riassegnati ai laboratori che attualmente lo utilizzano e ad altri servizi municipali. Nell’occupazione vivono cinquantasei nuclei familiari provenienti da tredici differenti nazionalità, e in maggioranza provenienti dall’America Latina, dai paesi del Maghreb, dall’Est Europa e dall’Italia. Qui sono nati e cresciuto più di sessanta bambini che hanno frequentato le scuole del quartiere e che oggi sono in gran parte maggiorenni. Il Comune ha riconosciuto che si tratta di una comunità che, seppure portatrice di conflitti a livello urbano, ha sviluppato al suo interno inedite e innovative forme di convivenza interculturale, aprendosi anche al quartiere con spettacoli ed attività sociali. Il percorso di inclusione, nel passaggio da occupanti abusivi ad assegnatari di alloggio pubblico, intende mettere fine ad un annoso conflitto, e prevede di operare, come nel caso di Corviale, un censimento ufficiale delle famiglie e in seguito l’apertura di un Bando Speciale che verificherà il possesso dei requisiti per l'accesso ad alloggi popolari, e assegnerà i nuovi alloggi. È previso inoltre un sistema di turnazione per fasi successive di cantiere che permetterà agli abitanti di non allontanarsi dall’immobile durante tutta la durata dei lavori.

Al piano terra vi è un grande cortile e molti spazi semipubblici e attività socio-culturali. L’interno è attualmente accessibile solo da un portone oppure dalla Sala da tè che funge da filtro tra dentro e fuori. Per molti anni il mondo esterno era percepito come ostile e l’edificio era rimasto chiuso come un fortino costretto a difendersi per la continua minaccia di sgombero. Ma poi è cominciato un processo di apertura, i cui passaggi sono stati discussi lungamente in modo assembleare. Le occupazioni sono infatti come isole di una sovranità parallela dove non vigono le regole dello Stato, ma quelle dell’assemblea. Il primo passaggio è stato quello di trasformare il parcheggio interno in un in cortile condominiale: una produzione di spazio semipubblico per sé stessi che ha prodotto spazi di gioco per bimbi, campo di calcio per i più grandi, di pallavolo per gli adulti, la zona barbecue, e spazi per mangiare in occasione di sempre più eventi proposti dal mondo associativo esterno. Ma la svolta si è avuta nel 2010 aprendo una Sala da Tè direttamente sulla strada, uno spazio visibile, permeabile, ben curato, e frequentato anche da persone che entrandovi cominciavano a comprendere un mondo spesso lontano dai loro immaginari borghesi. Non è un semplice locale, si comprende subito di entrare in un posto dove la gestione è comunitaria, quasi familiare, un salotto di una casa. La Sala da Te comunica con la strada ma anche con il cortile, è quindi uno spazio filtro, dove gli stranieri che hanno guadagnato più fiducia possono affacciarsi e partecipare della vita del condominio interculturale. I diversi gradi di intimità permettono alla conoscenza di penetrare sempre più spazi e di costruire sempre più relazioni, fino ad arrivare alla sensazione di essersi guadagnati la fiducia che ti fa sentire ospite desiderato. È da quella porta che ha fatto ingresso il gruppo dei docenti e ricercatori del Laboratorio CIRCO. Negli ultimi dieci anni ha condiviso con gli abitanti diverse azioni artistiche e di formazione universitaria all’interno del cortile, producendo un immaginario portuale di barche volanti e altalenanti e dipingendo l’ingresso come soglia di un altro mondo. Quando in occasione Bando PINQuA, l’università ha avviato con gli studenti e con la parte più attiva della comunità quel processo di partecipazione e di co-progettazione che ha portato alla vittoria del bando. Nel progetto il cortile interno continuerà a proporsi come luogo in cui celebrare iniziative politiche e le feste delle diverse culture del mondo, e su proposta dell’VIII Municipio sarà trasformato in piazza pubblica con ulteriori attività oggi assenti nel quartiere: un mercato settimanale a Km0; uno sportello a bassa soglia per donne vittime di violenza; uno spazio intergenerazionale integrato di ludoteca e servizi per la terza età; spazi per la didattica a distanza, il reskilling, il coding e il trasferimento digitale, e un’aula studio in collaborazione con l’Università Roma Tre aperta h24.

Mentre scrivo, Il progetto di trasformazione di Porto Fluviale è in fase di avvio e se verrà realizzato senza stravolgimenti di senso, avrà una grande portata innovativa nelle future politiche urbane sull’emergenza abitativa e l’accoglienza dei migranti. Roma è infatti ancora una città di rovine e di stranieri, un territorio pieno di edifici vuoti, di scarti del processo immobiliare e di servizi mai aperti, abbandonati o rimasti perennemente in cantiere e di personaggi pasoliniani provenienti da tutto il mondo. I movimenti del diritto all’abitare hanno indicato una strada possibile e le future amministrazioni dovrebbero seguirla. Le città hanno bisogno di spazi di soglia alla scala urbana, zone grigie non completamente addomsticabili, garantite dal mondo del volontariato e dalla lotta antagonista, dove la cultura popolare e meticcia possa sviluppare una propria visione del mondo, sovvertire i condizionamenti della cultura dominante. Quella mutazione antropologica che Pasolini avvertiva come imminente catastrofe è effettivamente avvenuta ed è in continuo divenire. L’omologazione sociale e culturale continua ad avanzare come il fronte della città, e la rivoluzione mediatica prima e quella informatica poi, hanno completamente modificato i tessuti sociali. Perfino i Rom, i più restii ad abbandonare le loro culture millenarie, cominciano a rinunciare alla loro fierezza di mostrarsi diversi per infine mimetizzarsi. Ma ancora qualche sacca di resistenza sopravvive, o meglio si evolve. Se ci si inoltra oltre la maschera mediatica e si cammina fuori dalla mappa si viene a contatto con quei mondi “nascosti agli sguardi dei turisti e dei benpensanti” dove cresce ancora ciò che ci salva. Chi scrive è profondamente convinto che andare a perdersi come fratelli dei cani tra gli interstizi di Roma è ancora un’Odissea degna di essere cantata.



[1] L’inchiesta Viaggio per Roma e dintorni condotta per “Vie Nuove” viene pubblicata il 24 maggio del 1958.

[2] L’episodio è raccontato in Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta, Borgate di Roma, Editori Riuniti, Roma 1960 e 1976. Da queste prime esplorazioni era nata una famosa inchiesta sulla situazione delle Borgate Romane, condotta dall’antropologo Franco Cagnetta, con la documentazione fotografica di Franco Pinna, gli studi sulle condizioni alimentari e sanitarie di Giovanni Berlinguer, i primi studi di etnomusicologia di Giorgio Nataletti e Diego Carpitella.

[3] Pier Paolo Pasolini, Il fronte della Città, “Vie Nuove”, Roma, 24 maggio 1958.

[4] Su Stalker nei suoi primi anni di attività a Roma, cfr.: Flaminia Gennari, Progett/Azioni: tra i nuovi esploratori della città contemporanea, "Flash Art" n ° 200/1996, p. 62-64; Emanuela de Cecco, Non volendo aggiungere altre cose al mondo, "Flash Art" n ° 200/1996, p. 64; Lorenzo Romito, Stalker, in Peter Lang (ed.), Suburban Discipline, Princeton Architectural Press, New York 1997, p. 130-141; Francesco Careri, Rome, archipel fractal, voyage dans les combles de la ville, "Techniques & Architecture" n° 427, Paris, pp. 84-87; Stalker, A Travers les Territoires Actuels / Attraverso i Territori Attuali, Jean Michel Place, Paris 2000.

[5] Il Manifesto Stalker, scritto da Lorenzo Romito nel gennaio 1996, è pubblicato in diverse lingue sul sito http://digilander.libero.it/stalkerlab/tarkowsky/manifesto/manifest.htm.

[6] Il festival era organizzato da Dark Camera & Art Department, gruppo di studenti di architettura nati come Stalker in seno all’occupazione della Facoltà di Architettura nel 1990 durante movimento studentesco della “Pantera”.

[7] Vedi: https://www.youtube.com/watch?v=Tor5iX8V7b0&ab_channel=GabriellaFerri-Topic

[8] Su questo tema ricordiamo il film del 1969 di Cecilia Mangini Domani vincerò, in cui si racconta il passaggio degli zingari del Mandrione da cavallari a pugili; i due documentari RAI del 1978 di Gianni Serra, Al margine  e  Essere zingari al Mandrione; le mostre Crescere zingaro al Mandrione e Zingaro a tre anni curate da Angelina Linda Zammataro.

[9] Pier Paolo Pasolini, I tuguri, Vie Nuove”, 24 maggio 1958.

[10] La Poesia è del 1951 ed è pubblicata per la prima volta in "itinerari" del 1953 e in seguito nella raccolta "Dai Diari 1943-1953. Poesia con letteratura". Cfr. Walter Siti, a cura di, Pier Paolo Pasolini, Tutte le opere, vol.1, collezione "I Meridiani", Arnoldo Mondadori, Milano 2003, pp. 754-755.

[11] Bruce Chatwin, The songlines (1987), trad. it. le vie dei canti, Adelphi, Milano, 1988

[12] L’azione di Stalker Walkabout Pasolini è pubblicata con il titolo Stalker, via del Mandrione, nella rivista “Initiales” n°7/2016, PPP numero monografico su Pier Paolo Pasolini, Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts de Lyon, pp. 98-99.

[13] Per maggiori info vedi: http://articiviche.blogspot.com/

[14] Pier Paolo Pasolini, Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano 1971.

[15] Per approfondire: https://suilettidelfiume.wordpress.com/

[16] La situazione dei Rom a Roma in quegli anni è stata descritta nel libro di Francesco Careri e Lorenzo Romito, Stalker-ON / Campus Rom, Altrimedia edizioni, Matera 2017. Si consiglia anche la visione del film di Fabrizio Boni e Giorgio De Finis, C’era una volta Savorengo Ker, 2011, disponibile su https://www.iridaproduzioni.com/produzioni-video/savorengo-ker-documentario/

[17] Pier Paolo Pasolini, I campi di concentramento, Vie Nuove”, 24 maggio 1958.

[18] Il riferimento è al libro di Piero Brunello, L'urbanistica del disprezzo: campi rom e società italiana, Manifestolibri, Roma 1996.

[19] Su questi temi cfr: Alberto Clementi e Francesco Perego (a cura di), La metropoli spontanea. Il caso di Roma, Dedalo, Bari 1983, Vezio De Lucia, Se questa è una città, Editori Riuniti, Roma 1989; Franco Martinelli, Roma Nuova. Borgate Spontanee e insediamenti pubblici, Angeli, Milano 1990.

[20] Su questi temi cfr. Ludovico Quaroni, Il paese dei barocchi, in "Casabella-Continuità", n.215, 1957

[21] Un libro utile per comprendere le trasformazioni dell’urbanistica romana è quello di Italo Insolera, Roma moderna. Un secolo di Storia urbanistica, Einaudi, Torino 1962, di cui si consiglia l’ultima versione aggiornata con Paolo Berdini, Roma moderna. Da Napoleone I al XXI secolo, Einaudi, Torino 2011.

[22] Luigi Sommaruga, Intervista a Pier Paolo Pasolini, “il Messaggero” 9 giugno 1973.

[23] Francesco Careri e Didier Laroque, Problèmes de la grande dimension: Corviale, la plus longue erreur du monde, "l'Architecture d'Aujourd’hui" n° 273/1991, pp. 105-110.

[24] Immaginare Corviale è un progetto di Stalker/Osservatorio Nomade, curato dalla Fondazione Adriano Olivetti per il Comune di Roma - Assessorato alle Politiche per le Periferie, per lo Sviluppo Locale, per il Lavoro; Dipartimento XIX - Politiche per lo Sviluppo e il Recupero delle Periferie; in collaborazione con il Laboratorio Territoriale Corviale Roma Ovest.

[25] Il progetto è stato pubblicato in: Bartolomeo Pietromarchi e Flaminia Gennari (a cura di), Osservatorio Nomade. Immaginare Corviale. Pratiche estetiche per la città contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 2006, e in numerose riviste tra le quali “Lotus International” n°124, “a+u” n°420 e “Domus” n°886. I materiali sono stati esposti in mostre internazionali tra le quali la Prima Biennale di Architettura di Pechino nel 2004, la mostra The Naked City ad Orleans per Archilab 2004, la mostra DynamiCity al NAI di Rotterdam nel 2005, la mostra Spam Arq al MAC di Santiago del Cile nel 2006 e alla mostra Non basta ricordare al MAXXI di Roma nel 2013.

[26] Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari, Garzanti, Milano, 1977, p.24.

[27] Il Laboratorio è composto da Sara Braschi, Giovanni Caudo, Francesco Careri, Fabrizio Finucci, Maria Rocco e Sofia Sebastianelli.

[28] Il progetto prevede la realizzazione di 103 alloggi laddove oggi vivono 135 famiglie. Il Dipartimento Politiche Abitative del Comune di Roma, a seguito del Bando Speciale del 2016 riservato ai residenti del Piano Libero, ha approvato l'elenco dei nuclei ammessi all'assegnazione (su 135 famiglie, 73 domande pervenute di cui 47 ammesse e 26 non accolte). È inoltre ancora in vigore la sanatoria approvata dalla Regione Lazio con la legge 27/2006.

[29] Pier Paolo Pasolini, Profezia, in Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964, poi in Alì dagli occhi azzurri (1965)

[30] Sul tema delle rovine e degli stranieri e della rifondazione di Roma attraverso l’ospitalità, si ricordano i progetti di Stalker: Tra le Rovine del Contemporaneo elaborato in occasione della residenza artistica Studio Roma, presso l’Istituto Svizzero a Roma nel 2016; e il progetto di Stalker e NoWorking Xeneide – il dono dell’Altro. Miti, Pratiche, poetiche dell’ospitalità del 2017. Cfr: Lorenzo Romito, Walking out of Contemporary, in Miodrag Mitrasinovic (Ed.) Concurrent Urbanities: Designing infrastructures of Inclusion, Routledge, 2015.

[31] Cfr. Irene Di Noto e Giorgio De Finis, R/home. Diritto all’abitare dovere capitale, Bordeaux Edizioni, Roma 2018.

[32] Pier Paolo Pasolini, Vie Nuove n° 17 del 29 aprile 1965.

[33] Cfr. Laboratorio CIRCO, CIRCO. Un immaginario di città ospitale, Bordeaux Edizioni, Roma 2021. Il Laboratorio nasce in seno al Dipartimento di Architettura di Roma tre e vi partecipano insieme a chi scrive Fabrizio Finucci, Chiara Luchetti, Alberto Marzo, Sara Monaco, Enrico Perini, Serena Olcuire e Maria Rocco. (https://laboratoriocirco.wordpress.com/)

[34] Si tratta della partecipazione al Bando PINQuA sulla Qualità dell’Abitare del Ministero delle Infrastrutture, rivolto ai comuni italiani, a cui l’Amministrazione Capitolina guidata dalla Sindaca Raggi, ha deciso di rispondere in modo innovativo, ottenendo un finanziamento, interamente pubblico, di undici milioni di euro. Il progetto è stato sottoscritto dagli occupanti e da un notevole numero di attori istituzionali tra cui tre ministeri, tre università, i tre livelli delle amministrazioni regionali, comunali e municipali, e da quindici associazioni locali interessate a prendere parte al processo.

[35] Cfr. Roma Capitale, Delibera Giunta Capitolina, DGC-43-2021, CUP n. J83D21000030001, Allegato A - Relazione

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