22/02/12

autodialogo su metropoliz

Autodialogo su Metropoliz

di Francesco Careri
(scritto per il libro "space Metropoliz" in corso di pubblicazione)











D: dopo l‘esperienza di Savorengo Ker mi sembra che siano cambiate molte cose. Com’è avvenuto il passaggio da Casilino 900 al Metropoliz?
R: si sono cambiate molte cose, direi che l’intero quadro è cambiato. La prima è Stalker, non abbiamo mai detto che sia finito ma che è entrato in una fase di riflessione, come si dice tra fidanzati. La seconda è che il Casilino 900 è stato sgomberato e quindi seppure con molte persone abbiamo mantenuto ottimi rapporti, non c’era più il campo e non aveva senso lavorare con loro dentro ai nuovi campi in cui li avevano rinchiusi. La terza è stata la sfiducia nelle istituzioni, visto com’era andata al Casilino, non ci sembrava più il caso di avanzare proposte alle istituzioni, né loro sembravano interessate a riceverne. E nel frattempo era nato Metropoliz, una realtà nuova che andava in una nuova direzione, verso l’inclusione dei Rom in una “città meticcia”, insomma un’esperienza da seguire, magari cercando di non ripetere alcuni errori compiuti al Casilino. Anche perché dopo che Savorengo era stata bruciata, la nostra idea era di costruire un condominio meticcio in autocostruzione, fare un salto di scala e non più per soli Rom. A Metropoliz questo stava già succedendo e ci è sembrato più interessante seguirne il processo che ricrearlo da zero.
D: Calma calma… troppe cose date per scontate. Andiamo con ordine. Proviamo a seguire i punti che hai detto. Dunque a Metropoliz non è più Stalker che agisce? E chi è allora?
R: diciamo che a Metropoliz ha partecipato quella parte di Stalker che aveva deciso di partecipare all’operazione Savorengo Ker. A Ilaria piace dire che Stalker si è impantanato nella palude del Casilino, che là è l’ultima volta che è stato avvistato, e forse è vero ed è bello vederla così. Credo che Stalker, come pensiero e come modalità, ci sia sempre stato in ogni azione compiuta al Metropoliz. Ma mancandone una parte importante il nome non è stato usato, non era Stalker il soggetto in campo. Al suo posto abbiamo usato il LAC, che sta per Laboratorio di Arti Civiche e che raccoglie persone che si sono formate con Stalker negli ultimi anni di interazione con l’università, attraverso esperienze come il corso di arti civiche, workshop, tesi, camminate etc.

D: Fabrizio Boni e Giorgio De Finis hanno partecipato attivamente a Savorengo Ker. Che rapporti hanno con Stalker e con il LAC?
R: beh intanto lo chiederei a loro… non mi è mai piaciuto dare o non dare la patente di Stalker. Penso di poter dire che Fabrizio e Giorgio non si sono mai autodefiniti Stalker. Ma hanno lavorato molto con e su Stalker, e quando condividi un’esperienza con noi per documentarci da dentro, a un certo punto fai anche parte del processo che stai osservando, diventi un elemento in gioco. Sicuramente l’esperienza di Casilino ha cementato la nostra relazione, e non è un caso che poi ci siamo ritrovati insieme al Metropoliz insieme ad Azzurra e Ilaria. Per quanto riguarda il LAC, Giorgio e Fabrizio hanno mantenuto sempre la stessa distanza che avevano con Stalker, non hanno mai fatto parte di LAC. Poi oggi con Space Metropoliz mi sembra che tutto ciò si sia ancora più chiarito, loro sono un soggetto in campo molto ben definito, molto più di Stalker e del LAC.
D: Ok, ma su tutto questo vorrei arrivarci dopo. Proviamo a seguire il filo di prima. Dunque il Casilino non c’è più. I vostri amici rom finiscono nei campi e si esaurisce la fiducia nelle istituzioni.
R: Lo sgombero del Casilino è stato il fischio di inizio del Piano Nomadi a Roma. Le persone con cui avevamo costruito Savorengo Ker sembravano anche fiduciose in un futuro diverso, volevano credere nelle promesse del sindaco. Najo, l’ex portavoce del Casilino, era diventato delegato del Sindaco per l’emergenza Rom, e questo è stato un duro colpo, una vera delusione affettiva di quelle che ti danno da pensare. E poi avanti cosi: Hakja si faceva fotografare sorridente mentre gli demolivano la sua bellissima casa a due piani e poi entrando al campo di Salone prendeva la tessera numero uno del DAST, il nuovo tesserino con codice a barre che sancisce l’apartheid dei Rom a Roma. Mirsad, Bayram, Klej dopo aver cercato di resistere e di chiedere garanzie, avevano ceduto con la promessa che si trattasse solo una soluzione temporanea e che avrebbero avuto un campo nuovo. Il gruppo di Senad, l’unico a rifiutare i campi, era invece finito al CER, Centro Emergenza Rom, assistito come se fossero persone incapaci di intendere e di volere.
Noi che fosse tutto una presa in giro e che sulla loro pelle si stesse facendo solo bello il sindaco lo avevamo capito perfettamente. Era evidente che il mondo in cui stavano per entrare era infinitamente peggiore di quello che stavano lasciando. Ma non potevamo certo metterci a fare barricate al posto loro… C’è stata anche la festa di chiusura del Campo con il concerto di Mannarino sul piazzale. La foto su tutti i giornali di Najo, il Prefetto e il Sindaco che mettono insieme il lucchetto al cancello del campo, l’assessore ai servizi sociali che dichiarava ai suoi elettori che “a Roma non ci saranno mai case per i Rom” … Noi a quella festa non ci siamo andati.



_l’ingresso nella fabbrica occupata

D: E veniamo allora al Metropoliz. In che occasione ci siete arrivati?
R: Mentre stavamo facendo il giro a piedi del Grande Raccordo Anulare con il corso di Arti Civiche e Primavera Romana, mi ha chiamato Leroy, un mio laureando-occupante: “Aho Prof ! Stamo a occupà ‘n posto ncredibile! Na fabbrica sulla prenestina, vicino al GRA! Dovete venì subito!”. Eravamo ancora a Roma Ovest e gli ho promesso che ci saremmo andati quando passavamo da quelle parti. E così è stato. Dopo molti altri inviti di Leroy che nel frattempo aveva deciso di abitarci e di farci la sua tesi di laurea, verso l’inizio dell’estate ci siamo entrati e Leroy ci ha fatto da guida raccontandocelo come una sorta di mondo nuovo. Indicava ammassi di ferraglia in stanze diroccate e ne parlava come della nuova biblioteca, e poi qui i condomini, e le sale multimediali, le aule universitarie... visitavamo un suo progetto completamente sovrapposto alla realtà. Lui indicava il tutto con una spada. Sembrava una sorta di Don Chisciotte dell’archeologia industriale. Giorgio De Finis che era con noi ha ripreso tutto. Quella puntata di Appunti dal GRA è un documento importante di questa storia. Abbiamo visto la fabbrica di salumi ancora come era dopo l’ultimo turno di lavoro del giorno in cui era stato chiuso il cancello vent’anni fa.
D: E questa visita è stata amore a prima vista? Quand’è che avete deciso di lavorarci?
R: No in realtà sono passati diversi mesi. Il fatto scatenante è stato quando Metropoliz ha accolto i Rom del canalone di Centocelle, chiamati erroneamente del Casilino 700, che era invece il campo famoso sgomberato nel 2000 in occasione del Giubileo. Avevo seguito le loro vicende tramite Popica Onlus e sono stati loro ad avvertirmi che i Rom si erano messi in una fabbrica a fianco al Metropoliz. Mi arrivavano continue notizie da Maria, Leroy e Margherita che avevano cominciato a dividere lo spazio tra le famiglie, a disegnare per terra i nuovi lotti e a seguire i lavori di autocostruzione. In quei giorni era programmato che dovessi fare un workshop della Facoltà di Architettura e lo avevo immaginato ancora al Casilino per documentarne gli ultimi giorni. Doveva durare una settimana, cosi dopo aver preso accordi con Popica si è deciso di fare il primo giorno di visita al Casilino sotto sgombero (il problema), il secondo giorno al campo di Salone (la soluzione istituzionale) e gli altri tre a Metropoliz (la soluzione auto-organizzata) in aiuto all’autocostruzione dei Rom.
D: Che tipo di lavori avete fatto?
R: siamo arrivati di sera e in una prima riunione con i Rom e Popica intorno al fuoco, abbiamo spiegato che avevamo parecchie mani volenterose, circa cinquanta studenti. Dissero che alle case ci avrebbero pensato loro e in effetti erano già a buon punto, mentre la loro priorità era fare i bagni. Poi, già che eravamo tanti abbiamo cercato anche di mettere in sicurezza il tutto con un minimo di anti-incendio, togliere i vetri rotti in bilico dalle finestre, stappare le gronde del tetto e i tombini del piazzale… insomma lavori di prima necessità a cui abbiamo aggiunto dei giochi per i bambini e qualche lavoro più simbolico-artistico tipo le ruote di bicicletta sulla facciata di mattoni. L’interazione non è stata molta anche perché loro erano occupati a farsi le case. Ma la delusione più grande è che dopo aver fatto i bagni nel posto indicato da loro, questi non siano mai stati usati. Ancora oggi i bisogni si fanno in una baracca esterna, sotto una lamiera vicino alla recinzione. Non ho ancora capito se avevamo fatto male noi le pendenze dei bagni o se loro avevano sbagliato ad indicarci il posto giusto, troppo vicino alle case...
D: Un’esperienza assolutamente diversa da quella di Savorengo...
R: Beh si. Non c’era stato proprio il tempo di costruire una relazione affettiva e di reciproca fiducia e quindi di collaborazione. E soprattutto era un lavoro molto funzionale-edilizio e per nulla simbolico-politico. Direi che è stato un errore nostro, dovuto alla troppa velocità. Ci siamo presentati come una task force di volontari e quindi il lavoro è stato per loro e non con loro. C’è anche, devo dire tutt’ora, un diverso grado di comunicazione reciproca. Sono qui da pochi anni, pochi di loro parlano l’italiano, sono tutti molto giovani… per dire, nessuno di loro ha vissuto nella Romania di Ceausescu, semplicemente non erano ancora nati. Insomma è un mondo molto diverso dai Rom italiani del Campo Boario o dagli ex-balcanici del Casilino che erano da quarant’anni in Italia, e che hanno anche più o meno la nostra età. Una sorta di gap culturale e generazionale, che comunque continua a procurare difficoltà di relazione, anche se non con tutti chiaramente. In particolare sembrano più le donne qui a voler prendere in mano la situazione e a voler riscattarsi da questa condizione. Mentre gli uomini sono sempre indaffarati intorno ai camioncini, a raccogliere ferro, ammassare cose, a parlare tra loro immaginando imprese e progetti… donne e bambini sembrano più attenti alle relazioni che si instaurano con gli altri occupanti del Metropoliz.

D: Insomma forse l’ingresso è stato un po’ un passo falso. È mancato l’elemento ludico-onirico e utopico…
R: Decisamente si… l’anno seguente con il workshop “Pidgin Macam” abbiamo cercato di mettere qualche toppa e le cose sono andate meglio, ma ancora non alla perfezione. Questa volta c’è stata una maggiore preparazione del terreno di gioco. In una prima riunione con Popica e i BPM abbiamo definito gli obiettivi e il nostro ruolo. C’era anche Giorgio De Finis e si è parlato di come avremmo voluto portare a Metropoliz una rete di artisti con il fine di aprire l’occupazione alla città, e di costruire relazioni di vicinato con il quartiere. In fondo dopo il Casilino l’errore che non volevamo correre era di non coinvolgere il quartiere intorno, e da questo punto di vista Adriana Goni con la sua esperienza di partecipazione e di comitati di quartiere alle spalle, si è rivelata di grande aiuto.
Anche questo secondo workshop è stato di autocostruzione, seguendo quasi alla lettera il progetto di tesi di laurea di Leroy: abbiamo ripulito dal guano due grandi zone al primo piano della fabbrica per farci una ludoteca e un aula di italiano, che sono venute molto bene, colorate e funzionali, e poi abbiamo disegnato la pavimentazione michelangiolesca della piazza del Campidoglio nel piazzale di ingresso, anche questo dal disegno di Leroy. Ma la cosa che ha fatto cambiare la relazione con gli abitanti è stata l’organizzazione dei pranzi. Invece di spendere i soldi al bar si è deciso di pagare alcune famiglie di Metropoliz per cucinare. Ogni giorno abbiamo avuto modo di assaggiare diversi menù e soprattutto di conoscere le diverse persone che vivono nell’occupazione. Questo ha fatto nascere anche una più forte collaborazione. L’ultimo giorno di workshop ci sono state molte lacrime di addio.

D: Durante il workshop si sono anche avvicinati alcuni importanti personaggi di Tor Sapienza…
R: Si devo dire che questo è stato merito dei BPM, che avevano già cominciato a lavorare sul territorio per collegarsi con la storia operaia di Tor Sapienza. Durante il workshop sono venuti degli ex operai della fabbrica che ci hanno raccontato dove lavoravano e come funzionava tutto il ciclo produttivo. Ed è venuto Nicola Marcucci che è un pilastro della storia di Tor Sapienza, e ci ha raccontato della nascita delle prime case intorno alla stazione, del ruolo di Michele Testa, a cui oggi è dedicata la più importante associazione di quartiere, delle baracche, delle lotte per la legalizzazione delle case abusive, per i servizi e per le scuole, del ruolo sociale del vecchio PCI, dell’arrivo delle case popolari negli anni ottanta, dei campi rom attrezzati negli anni novanta. Insomma ci un racconto di un quartiere la cui storia è in piccolo quella della città di Roma. Da subito con l’associazione Michele Testa è nata un’ottima sintonia, e si sono create diverse occasioni per fare costruire un ponte tra Metropoliz e Tor Sapienza, per esempio il carnevale del 2011 a cui hanno partecipato in piazza tutti i bambini dell’occupazione. Una cosa che mi è sembrata molto importante è stato il loro impegno con la petizione pubblica che raccoglie le firme per l’acquisizione pubblica della ex-fabbrica a fini culturali ed abitativi. In questi giorni con loro stiamo lavorando a un importante progetto di interazione con il quartiere, ma siamo solo all’inizio.

D: Hai detto acquisizione pubblica a fini culturali ed abitativi. È questo il progetto di Metropoliz?
R: Direi di si, ma non voglio essere io a dirlo, dovrebbe farlo piuttosto qualcuno dei BPM, e probabilmente avranno dello spazio in queste pagine per farlo. Comunque la petizione firmata anche da loro dice questo. Il proprietario non ha un progetto alternativo per la ex-fabbrica, è solo in attesa di rivenderla a più soldi di quanto l’ha comperata, di utilizzare i premi di cubatura del piano casa, e nel frattempo lasciarla cadere a pezzi senza utilizzarla. Mentre la petizione parla di beni comuni, di memoria del quartiere, di progetto sostenibile, di risposte nuove e inclusive per i Rom, di case a chi ne ha bisogno. Insomma sono più che sicuro che gli abitanti non se ne andranno in cambio di proposte abitative alternative, le quali non potrebbero che essere fuori dal GRA, o in residence che sperperano denaro pubblico per una falsa assistenza o in quartieri speculativi che hanno divorato il suolo della campagna romana. Insomma quella fabbrica è un prototipo della città veltro-alemanniana che si vuole attaccare. Mi sembra di poter dire che Metropoliz vuole abitare là, rivendicando che le case si possono fare autorecuperando il costruito, senza ulteriore consumo di suolo e nel vivere una socialità diversa da quella dei condomini borghesi. Questo però non vuol dire che l’unico tema sia l’emergenza abitativa e che non si vogliano aprire anche spazi culturali per la città e per il quartiere. La volontà di farlo mi sembra esplicita vedendo come gli abitanti hanno accolto favorevolmente sia il progetto del film che le azioni degli artisti che hanno accompagnato per mesi il lavoro lunare.
_la Luna a Metropoliz

D: e veniamo finalmente alla Luna e al film Space Meropoliz! Comìè uscito fuori?
R: Un giorno Fabrizio e Giorgio sono venuti a casa mia, mi hanno raccontato l’idea della luna, mi hanno fatto vedere il film di Méliès e mi hanno regalato il dvd di “Miracolo a Milano”. Era da tempo che aspettavo un momento come questo. Su Metropoliz eravamo impantanati in mille cose tutte interessanti ma nessuna veramente coinvolgente e l’idea di andare sulla Luna mi ha fatto subito sognare: finalmente qualcosa capace di trascinarsi dietro tutto, allo stesso tempo leggera e profonda, utopica e concreta. La luna è un terreno di incontro comune a tutti, un progetto senza steccati sociali: nessuno di noi sa niente della luna più degli altri, nessuno ci è stato, né i registi, né i professori, né gli attivisti, né i rom, né i peruviani, né gli eritrei … finalmente tutti sullo stesso piano! Insomma sono stato subito entusiasta di questo film allo stesso tempo fantascientifico e neorealista e ho messo in campo tutto quello che potevo: i lanci alla Biennale di Venezia, a Festarch a Perugia, e alla Biennale dello Spazio Pubblico di Roma; il workshop con il DPU della University College di Londra sul muro che separa le due occupazioni; con Roma Tre abbiamo partecipato e vinto il bando “Roma Provincia Creativa” della Provincia di Roma (non molto ma una base con cui si poteva cominciare a lavorare); ho coinvolto diversi amici come Francesco Sylos Labini che ha fatto una lezione astrofisica nella Piazza Perù, Cesare Pietroiusti con una memorabile lezione di arte relazionale nel cortile delle due Olghe ucraine, la collettiva Geologika con un cretto lunare in terra cruda. Insomma mi sembrava che finalmente potevo girare per Metropoliz con un ruolo che mi stava meglio: non più nelle vesti del prof con una squadra di autocostruttori, ma di un cosmonauta pronto a partire insieme a tutti gli abitanti per un viaggio tutto da inventare.

D: E un viaggio iniziatico lo avete anche fatto. Se non sbaglio una camminata notturna. Mi dici qualcosa?
R: Si, il nome è “Pidgin Moon Walk” ed è stata la camminata del corso di Arti Civiche che ogni anno faccio con gli studenti in zone diverse della città. Avevamo deciso di deambulare nel quadrante est, tra Prenestina e Casilina, per attraversare i livelli di interazione multiculturale della zona più “meticcia” di Roma. “Pidgin” è una sorta di “lingua meticcia”, un idioma ancora non solidificato in lingua come il creolo, ma che si trova ancora al suo grado zero, nel suo divenire attuale, attraverso inciampi, incomprensioni e sbagli di pronuncia. Insomma una parola che parla di volontà di relazione tra diversi e di accettare di mettere in crisi le proprie sicurezze, di frequentare l’errore e il malinteso per costruire un qualcosa di nuovo, di imprevedibile, di indeterminato. In una serata molto alcolica al Pigneto con gli altri del LAC, la camminata Pidgin City si è trasformata in Pidgin Night. Si è deciso di camminare sempre di notte, da mezzanotte all’alba, e di arrivare a tappe da Piazza Vittorio fino a Metropoliz guidati dalla luna. Fabrizio e Giorgio ne sono stati entusiasti e si sono subito offerti di filmare il tutto per inserirlo nel film. È stata un po’ un banco di prova per capire la reazione della gente al progetto Space Metropoliz. Camminando raccontavamo che stavamo per costruire un razzo per esplorare nuove possibilità di vivere questa nostra vita. La gente impazziva di desiderio, molti invece di andare a dormire hanno camminato con noi per il resto della notte, altri sono andati a prendere strumenti musicali e ci hanno raggiunto per rallegrare la notte, altri hanno chiamato altri amici e si sono uniti alla carovana lunare. Insomma la cosa ha funzionato e la sera del 15 giugno in occasione dell’eclissi lunare abbiamo organizzato al Metropoliz una bellissima festa di arrivo, un Luna Park con installazioni degli studenti, balli con la Murga, cibi di tutte le culture. E per l’esame ogni studente ha portato una valigia per andare sulla luna, con ricordi della camminata notturna, oggetti, pensieri, desideri, proposte…

D: Insomma mi par di capire che quella sera di eclissi, dopo aver attraversato la città meticcia, la Luna è finalmente arrivata a Metropoliz.
R: Si credo che quella serata di musica e festa sia stato un momento importante in cui gli abitanti hanno toccato con mano il progetto Space Metropoliz. C’erano quasi tutti e ballavano come matti al ritmo coinvolgente della Murga insieme agli studenti e ai loro amici, alle persone coinvolte durante la camminata, agli attivisti delle altre occupazioni, agli abitanti dei quartieri vicini che venivano per la prima volta a Metropoliz. Insomma un bell’intreccio di persone e culture. Penso che quella sera abbia finalmente cementato una fiducia reciproca e aperto le porte al progetto. È stata un esempio di quello che si intendeva fare dopo, invitando artisti a intervenire durante il resto dell’estate come poi è successo. Da quel momento in poi Giorgio e Fabrizio hanno cominciato una frequentazione quotidiana, hanno organizzato REstate al Metropoliz durante i mesi estivi, hanno invitato gli artisti a lavorare tra le case, insomma sono “entrati in famiglia” e con alcuni hanno stretto rapporti di amicizia che sono sicuro continueranno anche dopo il film.



_il cantiere del Razzo

D: E veniamo al razzo. In qualche modo mi sembra che dall’inizio la costruzione del razzo sia sempre stata implicitamente un compito del LAC. Un po’ l’oggetto simbolico-relazionale che era stata la casa Savorengo Ker.
R: Si dall’inizio queste erano le aspettative di tutti. Poi le cose per fortuna vanno diversamente da come le si prevede e il razzo ha preso la sua strada liberandosi da tutto ciò che ci avevamo proiettato sopra, sia come progetto che come immaginario. E questo suo liberarsi è costato molto come dissipazione di energie e ha anche messo a nudo alcune contraddizioni importanti.
Sul fatto di ripetere Savorengo avevo sempre avuto grandi dubbi: Savorengo era la costruzione di una “vera casa” che incarnava il progetto politico dei Rom del Casilino, mentre il razzo che va sulla luna mi sembrava nascesse più come scenografia di un film che come manifesto, insomma un concetto troppo sofisticato e surreale per incarnare il progetto politico di Metropoliz. Ma devo dire che ascoltando oggi come ne parlano gli abitanti, mi sembra che forse già lo stia diventando.

D: Aspetta stai dando troppe cose per scontate. Che vuol dire che il razzo ha preso una sua strada?
R: La cosa bella e dura è che a un certo punto la squadra dei costruttori-abitanti ci ha allontanato: ha chiesto ad architetti, artisti, antropologi, professori e quant’altro, di farsi da parte, e di rimanere da sola con Giorgio e Fabrizio per chiudere il razzo finalmente come volevano loro. Io Maria e Leroy da due mesi ci stavamo lavorando a tempo pieno. Dopo che si era installato il basamento con le grandi sfere galleggianti tolte dalle vasche, abbiamo organizzato momenti di scambio con tutti, raccolto disegni, progetti e desideri da bambini e da adulti, abbiamo fatto un modellino tridimensionale, verificato diverse ipotesi strutturali, siamo andati a comprare i materiali, a procurare i tubi innocenti, a raccogliere dai rom le lavatrici per fare gli oblò. È successo che in questi preparativi, nel pensarci e ripensarci, abbiamo anche cominciato ad avere un immaginario comune tra noi, e ci sembrava che questa nostra visione fosse condivisa ma notavamo anche pigrizia diffusa e disaffezione al progetto. Quando la mattina andavamo in cantiere era sempre molto difficile coinvolgere Daniel, Lucho, Tarik. Boris e gli altri a venire a fare il razzo. Sembrava che la cosa non li appassionasse, ma non era così. Una volta tirata su tutta la struttura si è capito che il problema riguardava il “vestito” del razzo, la sua immagine: noi lo avevamo sempre immaginato leggero e trasparente, con una rete metallica in cui fosse possibile attaccare gli oggetti che tutti avrebbero mandato sulla Luna. Mentre un giorno che non c’eravamo, “la squadra” ha smontato delle coperture in lamiera dalla fabbrica e le ha attaccate ai tubi. Ripensandoci poi ho capito che era una cosa che da tempo dicevano di voler fare e che noi non eravamo stati capaci di ascoltare. Quando siamo tornati in cantiere e lo abbiamo visto abbiamo pensato: ok è un segnale più che chiaro. Lo vogliono fare a modo loro, ed è assolutamente giusto che sia così, in fondo il progetto è sempre stato questo, che gli abitanti di Metropoliz costruivano il “loro” razzo.
D: Mi immagino che comunque questo sia stato anche un po’ doloroso?
R: Si certo. Non si accetta facilmente quando qualcuno ti dice che non vuole giocare con te. Ma ci ho imparato molte cose. Vedi anche nel cantiere di Savorengo il progetto era stato cestinato il primo giorno. Molto spontaneamente ci avevano detto è troppo piccolo e lo avevano ingrandito, poi per il vestito Senad aveva detto “domani vi faccio una sorpresa e mi dite che ne pensate” e avevano montato quelle doghe orizzontali che gli davano un’aria così da chalet, poi le discussioni sulla scala fuori… ognuno di questi momenti però veniva fuori da un confronto affettuoso e a noi interessava proprio che venisse come piaceva a loro. Insomma anche i Rom del Casilino erano fieri di aver fatto un loro progetto tradendo quello degli architetti e dell’università, e su questo ci abbiamo sempre giocato. Per il razzo invece non ci eravamo resi conto che c’era un “come piaceva a loro” e che questo stava diventando un problema. E ho capito che il mio ruolo di universitario non aiuta in questi casi, anzi il fatto che tutti mi chiamano “prof”, anche scherzosamente, crea comunque molta distanza. Comunque la mia parola viene ascoltata in modo di verso e con più autorità, anche quando non ce n’è assolutamente bisogno, anche quando non lo desidero affatto. Ho capito che se io mi pronuncio, gli altri poi hanno remore a dire la loro. Insomma che anche quando pensi di star facendo un’opera relazionale e condivisa, devi prima capire bene come sei visto, qual è il tuo ruolo, qual è il vestito che tuo malgrado ti porti addosso.

D: e insomma come si è risolta questa situazione? La cosa poi è rientrata?
R: ma si, è una cosa che si è chiarita nel giro di pochi giorni. Quando sono tornato in cantiere si è scherzato da subito sul fatto che potevo osservare ma non dovevo più parlare, e mi hanno spiegato come pensavano di andare a chiudere. L’ultima cosa che ho chiesto è stato di mettere dei tubi inclinati per controventare la struttura, avevo veramente paura che cadesse. In parte lo hanno fatto.
Quando poi è stata fatta la festa di inaugurazione e mi hanno chiesto che ne pensavo gli ho risposto: “È buffo. È bello perché è vostro.” Ed effettivamente “buffo” è l’aggettivo che mi è venuto spontaneo. È una baracca verticale, un po’ minareto, un po’ campanile, pieno di bozzi e di cuciture, assolutamente anti-fantascientifico, antimonumentale, per niente futurista, per niente aggressivo.
In tutta questa storia mi sembra insomma di aver svolto un grande gioco di sfondo. Altri artisti sono intervenuti e hanno lasciato una loro opera, come il telescopio di Tosatti, gli orti di Fabio Pennacchia, per citarne alcuni. Io invece ho una lavorato a una preparazione continua di un qualcosa che non è mai stato “mio” e a cui ho sempre fatto fatica appartenere: il razzo, come il film, come il progetto più generale di Metropoliz. È un qualcosa a cui partecipo perché mi piace osservare da dentro come le cose si trasformano, ma ho l’impressione che al contrario di tutte le altre volte, qui sia molto difficile partecipare veramente alla loro trasformazione.

D: E oggi come la vedi? Hai ancora energie da dissipare per osservare da dentro?
R: Si certamente. Sono tornato da pochi giorni da Sao Paolo del Brasile dove con Irene dei BPM, Azzurra e altri del LAC abbiamo portato il caso Metropoliz alla mostra “Sao Paolo Calling”. Una mostra sugli slums del mondo in cui sono state invitate città come Mumbai, Nairobi, Medellin, Baghdad e Mosca, e Metropoliz è il caso studio che rappresenta l’Europa. Insomma una cosa importante e che avrà molta eco. È stato molto bello il momento in cui Irene si è confrontata con gli abitanti della Favela Sao Francisco sul tema del passaggio dalla lotta al diritto alla casa a quella per il diritto alla città. Credo che portare in giro per il mondo questa esperienza aiuti tutti a guardarsi da lontano, a chi siamo in una scala più allargata, ad apprendere dalle esperienze degli altri luoghi.
E poi ho molta voglia di vedere il film e le reazioni, sia dei suoi attori che della città. Mi sembra che stiano per succedere molte altre cose a Metropoliz: il passaggio dei Rom dalle baracche costruite oltre il muro alle nuove case dentro la fabbrica darà luogo a nuove forme di convivenza, a nuove contraddizioni, a nuove cose da capire… e poi la Cucina Meticcia nata durante il film, l’unico posto a Roma che ha un menù di 7 culture differenti, un progetto di sole donne che fa da contraltare all’oggetto maschile del razzo... Insomma Metropoliz resta ancora una bellissima scommessa e c’è ancora moltissimo da imparare.

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