07/02/12

CAMINADA SAO FRANCISCO, BRAZIL 29-01-2012

Caminada São Francisco
di Francesco Careri
scritto in occasione della Jornada da Habitação
per la mostra “São Paolo Calling”  blog on field
english text below

“Hospital! Hospital!” e poi “Labirinto! Labirinto!” Sono questi di due slogan che ci guidano. Li gridano gioiosamente i bambini in testa a una lunga sfilata di persone vestite di magliette bianche con cuori rossi dipinti a mano, sotto un sole impietoso tra le salite e le discese di Sao Francisco. A sfilare è a Comunidade de São Francisco, una “favela” di 35.000 persone a nord est di São Paolo che la Sehab - Secreteria Municipal de Habitação sta trasformando in “città”. È la prima Jornada da Habitação della mostra “São Paolo Calling” a cura di Stefano Boeri che nei prossimi mesi porterà altre giornate come questa in diverse zone della città.

Si cammina lungo un percorso diverso da quello stabilito e negoziato precedentemente, anche in zone dove forse non saremmo dovuti apparire senza preavviso. Questo provoca una certa tensione ma tutto scorrerà liscio fino alla fine. Le persone si affacciano stupite, ascoltano e poi si mostrano d’accordo: anche per loro sarebbe una cosa molto importante se finalmente a São Francisco arrivasse l’ospedale, visto che oggi ci si mette quasi un’ora a raggiungere quello più vicino. Oggi qui problema della casa comincia a non essere più l’urgenza principale, chi abitava in baracche lungo strade di fango e sotto continua minaccia di frane e allagamenti, ha finalmente una casa in condomini non troppo diversi dai predios (palazzi) della classe media. La lotta per il diritto alla casa si sta trasformando in lotta per il diritto alla città, e la prima necessità che riporta la gente a gridare in strada è quella della salute. Questo almeno è il messaggio che è emerso dalle discussioni italoportugnole che Azzurra, Laura e Daniele del LAC-Laboratorio di Arti Civiche dell’Università di Roma Tre, hanno avviato tre settimane fa insieme a Marina, giovane architetto di Habitação e soprattutto alla liderança, i rappresentanti della comunidade che oggi collaborano attivamente con il programma di rinnovamento del quartiere. Non solo vogliono un Ospedale, ma hanno anche individuato un luogo in cui potrebbe nascere: un terreno rimasto vuoto dopo la demolizione delle baracche, accanto alla nuova strada che taglia in due São Francisco. È insieme a loro che si è deciso di organizzare la camminata, di arrivare simbolicamente nel punto esatto in cui si vorrebbe l’ospedale, e di compiervi un’azione rituale a conclusione del percorso. Quando io e Irene arriviamo a Sao Francisco la relazione tra LAC e liderança è già consolidata, la fase di analisi urbana è già molto avanti, e l’azione ludico-costruttiva è in atto. Ci troviamo subito insieme alla formidabile criança (i bambini) a dipingere duecento magliette con cuori di tutte le forme possibili e prepariamo l’incontro tra la liderança e Irene, che è qui a portare la voce di Metropoliz e dei Blocchi Precari Metropolitani, proprio sul tema della lotte per la casa e il diritto alla città mettendo a confronto quelle di São Francisco con quelle di Roma. A me non resta che immaginare dove andare a camminare e come concludere l’evento.


Quando stiamo per partire vengo a sapere che da giorni alcuni dei leader hanno ripulito un percorso dalle erbacce e dal fango per arrivare dritti al luogo prestabilito. È il primo ostacolo e cerco di dire che non si va mai diritti alla meta, che sarebbe troppo facile, che il percorso più breve non è mai il migliore, che ci sono molte cose da vedere in giro, che perdendo tempo si guadagna spazio. Dopo alcuni tentativi filosofici di questo tipo capisco che l’unica cosa da fare è partire, fiducioso che poi tutti capiranno. Da subito, insieme al lider più giovane Guegue che ha capito le nostre intenzioni, dirottiamo verso un sentiero che scende tra le case del Promorar, il programma che anni fa ha permesso di autocostruire le proprie case all’interno di una griglia di strade ortogonali che oggi cominciano ad avere infrastrutture, pavimentazioni e sistemi di drenaggio. Una sorta di città informale ma legale fatta di lotti stretti e lunghi con case di mattoni a volte intonacate di colori accesi. Escono musiche, profumi e sguardi molto forti. È lì che per spiegare la nostra presenza le leader Rosie e Carminia che per tutto il tempo terranno con me la testa del corteo, incitano i bambini a gridare “Hospital! Hospital!” suscitando consensi e invitando le persone ad unirsi a questa strana manifestazione spontanea. Finite le case attraversiamo i bordi di quella che era stata una discarica e che ora, coperta da gradoni di terra, diventerà un grande parco interno che connetterà le diverse città di São Francisco. Già perché sotto la parola “favela” si nascondono molteplici modi di essere “città” e una delle finalità di questa camminata è proprio di attraversarle e conoscerle. Si passa sotto il viadotto, poi lungo un fiume dove ci sono case decisamente più informali e arriviamo alle case blu del programma Cingapura, che nei primi anni 90 sono state disseminate, sempre uguali a sé stesse in tutte le periferie di São Paolo. I Cingapura di per sé non sono così male, sono abbastanza articolate e con tetti a falda, ma tutti concordano che sono brutte perché non si può clonare una tipologia e stamparla ovunque all’infinito. Su questo mi trovo daccordissimo e infatti non penso che ci dobbiamo fermare qui a discuterne e cerco di procedere, ma prima si devono superare nuove obiezioni che vorrebbero andare dritti a vedere i nuovi Predios (palazzi) costruiti da Habitação, dove abita il lider Jeronimo.


Forziamo di nuovo la situazione e finalmente entriamo nella zona dei Mutirao , parola che vorrebbe dire più o meno autocostruzione assistita. È un bellissimo pezzo di città fatto di casette di mattoni rosse con stanze a sbalzo sul vuoto e tetti molto spioventi che producono una immagine molto articolata e differenziata. Una cinquantina di case progettate da Demetre Anastassakis e costruite nel 1989 in cui architetti e ingegneri hanno guidato gli abitanti in cantiere per costruirsi ognuno la propria casa seguendo uno schema progettuale predeterminato. Mi sembra una soluzione molto convincente, perché attiva una maggiore appropriazione dell’intervento pubblico e soprattutto la sua manutenzione, visto che ogni abitante sa dove mettere le mani per ripararne l’architettura. Chiedo perché non si continua più questo programma e mi dicono che in termini di organizzazione il procedere cosi casa per casa è uno sforzo troppo impegnativo e che questa tipologia consuma ancora troppo suolo, ha densità troppo bassa. Capisco che quando si vogliono costruire case per 3 milioni di abitanti in venti anni non si possono disperdere troppe energie. Ma sul tema della densità non sono convinto: le case arrivano fino a tre piani e i patii, i cortili e le stradine pedonali sono molto stretti. Non mi ha mai convinto il fatto che il basso consuma suolo e che l’alto di per sé lo preservi: molti dei nuovi blocchi di case hanno intorno enormi recinzioni per le auto e spazi di socializzazione spesso inutilizzati. Sono sicuro che tutte le favelas che ho visto sono più dense dei blocchi moderni con cui le si vuole sostituire e che gli abitanti trovano i modi per far circolare l’aria, la luce e le persone senza bisogno di grandi spazi. Ma non c’è troppo tempo per discutere: “Hospital! Hospital!”. Continuiamo ad usare lo stesso stratagemma per entrare tra i vicoli del Mutirao e arriviamo alle casas sovrapuestas, un programma ancora in atto pensato per chi non vuole andare nei nuovi blocchi, rinuncia al posto macchina ed evita la tassa per il condominio. Sembra di stare in una stradina inglese, tutta in salita con casette a due piani e un patio sul retro, molto dense e costruite allo stesso costo dei predios. Molto belle anche queste sovrapuestas. A questo punto arriva Vavà, il lider del quartiere in cui siamo, dice che per andare al predio di Jeronimo conosce lui la strada. Capisco che vuole prendere la strada grande che ci va diretta e con aperta sincerità gli dico “ma no! Ci vogliamo arrivare passando per il labirinto!”. Con enorme sorpresa i bambini intorno a me cominciano a gridare “Labirinto! Labirinto!” “Labirinto! Labirinto!” “Labirinto! Labirinto!”, non so descrivere i miei sentimenti, quasi svengo dalla commozione. Uno sguardo di intesa con la lider Rosi e partiamo per una salita veramente erta, il caldo comincia a farsi sentire, ci arrivano continue voci che la gente dietro non ce la fa più, che tutti vogliono tornare indietro. Accanto a noi ci sono i due professori con cui avevo poco prima animato un dibattito, Josephina Ocanto e Luiz Antonio Jorge. Se la ridono di cuore sentendo lo slogan “Labirinto!”, non ci possono credere neanche loro che i bambini hanno tutta quella voglia di esplorare e giocare in una zona della loro favela che non avevano mai visto prima. Vavà ci conduce ancora più su, dove io non immaginavo di arrivare, sbuchiamo su una strada dove passano gli omnibus, deve essere la strada più importante della favela, dove la nuova crescita economica ha permesso ad alcuni di aprire attività di parrucchiere, alimentari, fruttivendolo, telefonia, ristoranti, bar. Qui non manca niente. È questo che ci voleva far capire Vavà: qui siamo in città. Improvvisamente ecco il labirinto, in discesa lungo scale e scalette che passano strette tra le case e da cui si vede i lontananza il parco sui cui eravamo un’ora prima. La massa che prima ingrossava la strada ora comincia a camminare in una lunga fila indiana, danzando in discesa dritti verso la casa di Jeronimo. Mi fa pensare al video che mi ha fatto vedere Paola Berenstein Jacques, professoressa di Bahia, che inquadra la danza delle gambe di un bambino che scende le scale di una favela. Il suo libro si chiama Estetica da Ginga e parla delle favelas come rizoma e come labirinto in cui si cammina danzando la ginga.


Jeronimo ci aspetta alla fine dell’ultima scaletta e continua a fotografarci veramente incredulo. Due giorni prima siamo stati a casa sua per un ottimo pranzo con la sua famiglia e ci ha fatto conoscere tutto il condominio del suo nuovo Predio, un blocco prismatico con corpi scala rossi. Nei ballatoi sono state ricostruite le relazioni di vicinato che c’erano nella baraccopoli di legno e lamiera dove vivevano prima, proprio lì dove ora ci sono i palazzi. Per lui queste case sono un modello da esportare in tutto il mondo. Gli alloggi sono grandi, hanno un doppio affaccio, c’è luce e l’aria circola ventilando sempre l’appartamento. Agli ultimi piani si capisce che il cambiamento principale è stato da una vita orizzontale a una vita verticale. Adesso si guarda il labirinto dall’alto. L’architettura è riuscita a produrre un passo importante nella scala sociale. Questo me lo fa pensare anche la recinzione di ferro tutto intorno. Una separazione dalla favela, un muro tra uguali che pone differenze che prima non esistevano. Da chi deve difendere quel muro? Forse mi sbaglio, la recinzione difende in realtà solo i posti macchina. Ma vale la pena differenziarsi dai propri fratelli per difendere la propria macchina? A me sembra che questo modello provenga direttamente dai condomini della classe media, del tipo Minha Casa Minha Vida, che hanno gli stessi dispositivi securitari ma che hanno oltre venti piani e quindi anche l’ascensore, visioni ancora più dall’alto. Ma a tutti loro questi nuovi Predios Popolari piacciono, è indubbio, sono una sorta di monumenti alla casa, piccoli palazzi rinascimentali che si ergono in un tessuto medievale, punti di riferimento visivo e sociale. A me sembrano una minaccia per il labirinto, semi della sua distruzione. La grande opportunità che offrono gli slums di tutto il mondo credo sia proprio la possibilità per un progetto indeterminato e labirintico, come nella New Babylon di Constant, e penso che omologarli con l’architettura della città formale sia una occasione sprecata se non un delitto. Ma siccome comprendo bene l’entusiasmo di Jeronimo non me la sento proprio di dire che i predios non mi piacciono. Non si può dire a nessuno che non ci piace la sua casa. Ma mi colpisce profondamente questo processo che non so se si chiama di ipsogentrificazione, ma rende l’idea: gentrificare con la stessa classe sociale.


All’ombra del Palazzo di Jeronimo tiriamo il fiato. Le critiche contro la camminata si fanno palesi, i bambini stanno morendo di sete e compriamo l’acqua. Un lider particolarmente arrabbiato mi dice che devo andare da tutti e dire che è tutta mia la responsabilità di questa pazzia e che gli organizzatori non c’entrano e non ne sapevano nulla: “è da più di un’ora che camminiamo!!”. Penso “appunto è solo un ora…” Ma non lo dico, sorrido e ammetto tutto. Ma non siamo ancora arrivati, manca poco e o ci muoviamo subito o all’Hospital non ci arriviamo più. Con la liderança femminile ripartiamo insieme ai bambini ancora con grandi energie. “Hospital! Hospital!” “Labirinto! Labirinto!”. Ripassiamo sotto il viadotto e arriviamo subito al terreno dove ci attende un calderone sul fuoco, una scena tipo Asterix con la bevanda magica. Dentro c’è un infuso di erbe che abbiamo raccolto nei campi la mattina insieme alla signora Delva che ora mescola il tutto e serve con un mestolo: erva cidera redonda, puejo, guaca e rosmarino. Essenze che fanno bene alla tosse, alla laringe e rilassano il corpo e la mente. Tutti si mettono in circolo e il rituale viene compiuto. La prima medicina dell’Hospital è medicina caseira, fatta in casa come un rimedio tradizionale, ed è servita in gusci di cocco a Elisabete França e Felinto Carlos Cunha, la direttrice della Secreteria de Habitação e il responsabile del Settore Est, che fino a quel momento erano rimasti nelle retrovie insieme alla infaticabile Lorenza che immagino abbia avuto un gran da fare a spiegare cosa stava succedendo. Anche loro sembrano molto affaticati, ma prendono la parola per ringraziare e rinnovare il loro sostegno alla comunidade de Sao Francisco. Il giorno dopo mi diranno che anche se li ho quasi portati veramente all’ospedale, da quel percorso hanno appreso molto. Al loro discorso di apertura seguono quelli dei diversi lider che ripercorrono le lotte passate e quelle da venire, prima tra tutte quella per l’ospedale. Prende la parola anche Rosi, per dire che le lotte sono come questo percorso, che bisogna soffrire per avere dei risultati e che nulla viene dato, bisogna conquistarlo e la via breve non è mai la migliore. Mi sorride. Le sorrido.

29 gennaio 2012


São Francisco Walk

By Francesco Careri

"Hospital! Hospital! "And" Labyrinth! Labyrinth! "These are two slogans that guide us. They are words shouted joyfully by children leading a lenghty parade of people in the ascents and declines of Sao Francisco, dressed in white t-shirts decorated with hand-painted red hearts, under a relentless sun. The parade is formed by the comunidade of São Francisco, a "favela" of 35,000 people northeast of Sao Paulo that Sehab - Secreteria Municipal de Habitação -is transforming into a "town". This is the first Jornada de Habitação from the exhibition "São Paulo Calling", curated by Stefano Boeri, that in the coming months will bring more days like this in different areas of the city. The walk takes a different path than the one established and previously negotiated, even in areas where perhaps we should not have appeared without due notice. This causes a certain tension but then it flows smoothly through to the end. people looked first surprised, then they listened and finally found themselves agreeing: for the inhabitants it would be very important for a hospital to be built in São Francisco, given that today it takes almost an hour to reach the nearest hospital. Here, today, the claim for the house is starting not to be the most urgent need. Those people who lived in shacks along mud roads and under constant threat of landslides and floods, finally have a home in condos not too different from predios (palaces) of the middle class. The fight for the right to housing is transforming into the struggle for the right to A city, and the urgency that brings people back shouting in the streets is the right to health. This at least is the message that emerged from the italoportugnol discussions that Azzurra, Laura and Daniele from LAC-Laboratorio Arti Civiche of the Universita' Roma Tre, launched three weeks ago along with Marina, a young architect of the Habitação and above all with the liderança, the representatives of the comunidade now actively working with the program of neighboorhood renewal. Not only do they want a hospital, but they also found a place where it might be built: an area of land that remained empty after the demolition of shacks, alongside the new road that cuts across São Francisco. Together with the inhabitants it was decided to organize the walk, symbolically to arrive at the exact point where they see the hospital rise, and there a ritual action was preformed to conclude the walk. When Irene and I arrived in Sao Francisco the relationship between LAC and liderança is already established, the phase of the urban area analysis is already well advanced, and a playful-constructive action is underway. We are now together with the formidable criança (children) to paint two hundred shirts with hearts of all possible forms and prepare the meeting between the liderança and Irene. Irene is here to represent the voice of Rome’s Metropoliz and the ‘Metropolitan Precarious Blocks’ on the theme of the struggle for housing and the right to the city by comparing the struggles of São Francisco with those of Rome. I guess I just have to figure out where to walk and how to conclude the event.

When we are about to start the walk I come to know that for some days the leaders have cleared a path of weeds and mud to get straight to their destination. It is the first hurdle and I try to say that no one ever arrives straight to the goal, that it would be too easy, that the shortest path is never the best, there are many things to see around, that it is through wasting time that you gain space. After several philosophical attempts, I understand that the only thing to do is leave, confident that everyone will understand later on. From now on, along with the youngest leader Guegue who understands our intentions, we move towards a path that goes down between the houses of Promorar, the program that years ago allowed the inhabitants to self-build homes within a grid of roads that is now beginning to have infrastructure, paving and drainage systems. A sort of informal but legal city made of long, narrow lots, with brick houses sometimes plastered with bright colors. Out of which comes music, smells and very strong stares. That's where the leaders Rosie and Carminia, who remained all the time with me at the head of the procession, to explain our presence encouraged the children to shout "Hospital! Hospital! " attracting acclaim and inviting people to join this strange spontaneous demonstration. Once the houses are passed, we pass through the edges of what had been a landfill, now is covered with huge steps, and will become a big inner park that will connect the different cities of São Francisco. Yes, because the word "favela" contains many ways of being a "city" and one of the purposes of this walk is to cross them to know them. We pass under the viaduct, then along a river where there are decisively more informal houses and then we arrive at the blue houses of the program Cingapura, which in the early '90s were scattered, always the same in all the suburbs of São Paulo. The Cingapura in itself is not so bad, they are quite articulated and pitched roofs, but everybody agrees that they are bad because you can not clone a type and print it everywhere forever. I totally agree with this, in fact I do not think we have to stop here to discuss and try to proceed, but first objections wanting to go straight to see the new Predios (buildings) built by Habitação, where the leader Jeronimo dwells must be overcome.

We force the situation again and finally we enter the area of the Mutirao, a word that would mean more or less assisted self-construction. It is a beautiful piece of the city made of red brick houses with rooms jutting out over the void and steep roofs that produce a very articulated and differentiated image. About fifty houses were designed by Demetre Anastassakis in 1989 ,where architects and engineers have led the people on-site to build their separate home following a predetermined blueprint. It seems like a very compelling solution, because it activates a greater ownership of public intervention, especially its maintenance, as every resident knows where to put their hands to repair the architecture. I ask why this program is not implemented anymore and I am told that, in terms of organizing the work, the effort of this scheme from house to house is too demanding and that this type consumes too much soil, has a too low density. I understand that when you want to build homes for 3 million people in twenty years one cannot dissipate too much energy. But on the issue of density I am not convinced: the houses go up three floors and have patios, courtyards and very narrow pedestrian streets. I was never convinced that the low building consumes land and the high-rise by itself preserves it: many of the new blocks of new high rise houses have fences around large spaces for cars and socialization often unused. I'm sure all the favelas I've seen are more dense than the modern blocks with which they are meant to be replaced and that the inhabitants will find ways to circulate air, light and people without the need for such large spaces. But there is not much time to discuss: "Hospital! Hospital. " We continue to use the same strategy to enter the narrow streets of the Mutirao and arrive at the Casas Sovrepostas, a program still in place designed for people who do not want to go in the new blocks, refuse the parking space and avoid the condo fees. It is as though we are on a British road, all uphill two floor houses with a back patio, very dense and built at the same cost of predios. Even these Sovrepostas are very nice. At this point comes Vavà, the leader of the neighborhood who says he knows the road to Jeronimo's predio. I understand he wants to take the high road that goes straight and with open sincerity I say "but no! We want to get through the labyrinth." With huge surprise kids around me start to yell "Labyrinth! Labyrinth!" "Labyrinth! Labyrinth!" "Labyrinth! Labyrinth", I cannot describe my feelings. I almost fainted with emotion. A look of understanding with the leader Rosi and we depart for a very steep rise, the heat begins to swell, we receive constant rumors that the people behind cannot take it anymore, everyone wants to go back. Next to us there are two teachers with whom, shortly before, I had a lively debate, Jorge Luiz Antonio and Josephina Ocanto. They laughed out loud openly, hearing the slogan "Labyrinth", they can't believe that the children all have the desire to explore and play in an area of their favela, which they had never seen before. Vavà takes us further up, where I did not imagine reaching, we emerged on a street where omnibuses pass, it must be the most important street of the slum, where the new economic growth has allowed some new activities to open, hairdressers, groceries, fruit stands, telephone activities, restaurants, bars. Here nothing is missing. This is what Vavà wanted us to understand: here we are in town. Suddenly, here is the labyrinth, down the long and narrow stairs and steps between the houses, from where we could see in the distance the park where we were an hour earlier. The mass that earlier swelled the road, now begins to walk in a long single line, dancing directly towards the house of Jeronimo. It makes me think of the video that Paola Berenstein Jacques, Professor of Bahia, showed me which frames the dancing legs of a child walking down the stairs of a favela. Her book is called Aesthetics of Ginga and speaks of the favelas as a rhizome and as a labyrinth in which one walks dancing the ginga.

Jeronimo is waiting for us at the end of the last steps and continues to photograph us really incredulous. Two days before we went to his house for a delicious lunch with his family and he showed us the whole building of his new Predio, a prismatic block with red stairwells. In the new balconies, neighborly relations take place that once belonged to the earlier slums of wood and metal where they once lived, in the same spot where the buildings now were reconstructed. For him, these houses are a model to be exported around the world. The apartments are large, have a front and back view, there is light and the air circulates more ventilating the apartment. From the upper floors you can see that the main change is from a horizontal to a vertical life. Now you look at the labyrinth from above. The architecture is able to take an important step on the social scale. This is what also the iron fence that surrounds it makes me think. A separation from the favela, which puts a wall between equals, differences that did not exist earlier. Who should defend that wall? Maybe I'm wrong, the fence actually defends only the cars. But is it worth differentiating from your brothers to protect your car? It seems to me that this model comes directly from middle-class condominiums, Minha Casa Minha Vida-type, which have the same sectarian devices but have over twenty floors and therefore the lift, with an even higher view from above. But to them, the inhabitants all these new Popular Predios are satisfactory, there is no doubt, they are a sort of monument to the house, small Renaissance palaces that rise in a medieval fabric, with visual and social reference points. To me they seem a threat to the labyrinth, the very seeds of its destruction. The vast opportunities that the slums around the world offer, I believe it is precisely the opportunity for an indefinite and labyrinthine project, as in Constant's New Babylon, and I think that to homologate them with the formal architecture of the city is a wasted opportunity, if not a crime. But since I understand the enthusiasm of Jeronimo, I do not feel its right to say that I do not like predios. You can not tell anyone that we do not like his house. But I profoundly struck by this process that I do not know if you call ipsogentrificazione, but you get the idea: gentrificare with the same social class.

In the shadow of Jeronimo's Predio we breathe a sigh of relief. Critics to the walk are now loud, children are dying of thirst and we buy water. A particularly angry leader tells me that I must go to everybody and say that it is all my responsibility to this madness and the organizers are not involved and knew nothing about it: "is more than an hour of walk!". I think "is in fact, only an hour..." But I don't say anything, I just smile and admit my responsibility. But we're not there yet, just the last bit is missing and either we act immediately or we will no longer reach the Hospital. With liderança women we start to walk, with the children still with great energy. "Hospital! Hospital! " "Labyrinth! Labyrinth". We pass under the viaduct and come straight to the ground where a cauldron is awaiting on the fire, a scene like Asterix with the magic potion. Inside there is an infusion of herbs that we have gathered in camps in the morning with Mrs. Delva who now mixes everything and serves it with a ladle: cidera redonda herb, puejo, guaca and rosemary. Essences that are good for cough, the larynx and relaxe the body and mind. Everybody stand in a circle and the ritual is performed. The first medicine of the Hospital is caseira medicine, home-made traditional remedy, and served in coconut shells to Elisabete França and Felinto Carlos Cunha, director of Secreteria de Habitação and the Head of the East Region, which until then were in the rear along with the indefatigable Lorenza who I imagine was very busy explaining what was happening. They seem very tired as well, but take the word to thank and renew their support for the comunidade of Sao Francisco. The next day they will tell me that, although I have almost really brought them to the hospital, they learned a lot from that walk. To their opening remarks those of several leaders followed, recalling past struggles and those to come, first of all the one for the hospital. Rosi also took the floor to say that the fights are like this walk, you have to suffer to get results and that nothing is given, and must be conquered, and that the short way is never the best. She smiles. I smile.




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