Patrick Geddes with residents of the Scots College, Montpellier 1930. |
Camminare come Arte Civica
(o dove si narra del perché di questo corso con questo nome...) articolo scritto per un catalogo di arte sul camminare, ma rifiutato perchè troppo personale...
abajo hay una traducion castillana
Nel 1913 Patrick Geddes, già affermato biologo di Edimburgo,
inventa Civics un nuovo corso
universitario dedicato allo studio
pratico della città, vista attraverso gli occhi di Darwin, applicando
l’evoluzionismo alla civitas. È la
nascita di una nuova disciplina ancora inesistente: l’urbanistica itinerante, una
Scienza Civica che propone agli
studenti e futuri planners, di
immergersi direttamente tra le sue pieghe, di “sottrarsi alle correnti
astrazioni dell’economia e della politica, nelle quali siamo stati tutti più o
meno allevati, per tornare allo studio concreto da cui la politica e la
filosofia sociale ebbero origine in passato, ma dal quale si sono in seguito
allontanate: quello delle città come sono, o piuttosto così come le vediamo
crescere”.[1] L’urbanistica nasce dunque
a piedi, in modo labirintico e
partecipativo, un metodo deambulatorio che permette di leggere e trasformare le
città. Il cui prodotto non è una visione astratta e zenitale di statiche mappe
colorate in zone funzionali, ma piuttosto un racconto fenomenologico evolutivo,
descritto da un punto di vista orizzontale messo in movimento camminando tra le
pieghe della città: la survey walk.
Tra il 1914 ed il 1924, Geddes sperimenta in India le sue
prime survey, una sorta di piani
regolatori evolutivi che, a parte poche eccezioni, non sono mai disegnati, ma
raccontati in forma peripatetica. Sono passeggiate dentro la città. Lunghe
camminate scritte sotto forma di guide che descrivono la civitas, la fotografano nel suo stato attuale, e danno indicazioni
per le successive evoluzioni. Non quindi standard o norme da applicare in forma
zenitale, ma osservazioni itineranti rappresentate dall’altezza di un uomo che
si perde tra i meandri urbani, scoprendo nuovi territori, immaginandovi
correzioni e reinterpretazioni. È andando in giro infatti che Geddes prende
nota delle evoluzioni storiche dei centri urbani, giunge a conoscere quelle in
cui intervenire, quelle da lasciare al loro proprio naturale divenire, quelle
in cui aiutare l’organismo urbano ad mutarsi verso nuove conformazioni. Geddes
camminava prima e dopo la redazione del piano, sperimentando un nuovo metodo
pedagogico in grado di riuscire a comunicare con gli abitanti, i veri attuatori
del piano. Da buon anarchico era convinto che la produzione della città dovesse
essere bottom-up, credeva in una partecipazione ante litteram. Nella fase
di analisi incontrava gli abitanti sul posto per ascoltarne i problemi e le
soluzioni che suggerivano, poi nella scrittura delle survey vi si rivolgeva come interlocutori privilegiati: erano loro
i depositari e gli esecutori delle sue indicazioni, a loro era rivolto un
continuo invito a camminare lungo le soluzioni che aveva immaginato. Giovanni
Ferrero ha descritto con grandissima passione questo metodo itinerante e
partecipativo di Geddes: “Camminare non è solo guardare: è anche ascoltare, in
ogni singolo luogo, chi vive e conosce la città. Per questo Geddes evoca spesso
di persona, con gratitudine, i suoi interlocutori locali. Con loro il Planner – Surveyor cammina, guarda,
ascolta. E parla. Proprio camminando attraverso la città indiana a Geddes pare
riscoprire il significato autentico della “Peripathetic Philosophy”, quando “i
Greci parlavano di filosofia sotto i loro platani, proprio come gli indiani –
Tagore e Bose - insegnano ancora, sedendo all’ombra”.[2]
Ferrero racconta di un episodio toccante in cui Geddes
sperimenta il camminare non solo come arte di guardare la città, ma come arte
performativa capace di trasformarla. Siamo nel 1923 e Geddes è in America,
invitato dal suo allievo Lewis Mumford per una lezione al Regional Planning
Association of America. Geddes è “seduto a gambe incrociate, come un guru
indiano, sotto una grande quercia che nella magia del suo racconto quasi si
trasformò in un banano, a raccontarci il suo town planning in India: e come, da Mahrajà per un giorno, aveva bandito la peste da Indore”[3]. Era costernato perché non
riusciva a trovare un vero contatto con gli abitanti e a risvegliarli dal loro
torpore. Gli abitanti vedendolo gironzolare e prendere appunti non solo lo
temevano come l’ennesimo planner occidentale
pronto a radergli al suolo le case, ma avevano cominciato a dire che stava
diffondendo la peste. Come riuscire a comunicare con loro? Come rappresentare
il Civic Developpment alle menti dei
suoi cittadini? Quando ecco gli balza in mente un idea, una sorta di town planning procession capace di
risvegliare in loro l’interesse per l’igiene e la manutenzione della città. Né
mappe, né disegni, né plastici avrebbero mai potuto competere con una camminata
dentro la città stessa: “Fatemi Mahrajà per un giorno!”. Si mette ad
organizzare il capodanno hindu di Diwali, in cui la processione “invece di
seguire la strada tradizionale, ne avrebbe seguita una nuova: quella lungo la
quale le case fossero giudicate le meglio sistemate per l’occasione”. L’operazione
è un successo. Nasce una vera competizione per ridipingere e risistemare le
case e le strade. Nella sfilata, accanto a carri di nuove maschere mitologiche,
scorrono i carri con i piani della città ed i plastici degli edifici da
costruire. La città di Indore appare come non la si era mai vista. La
partecipazione della gente è altissima. Non si sa se per la gara di pulizia o
se per il giungere della nuova stagione, ma la peste è definitivamente
sconfitta.
Quando nel 2005 ho avuto l’occasione di inventare un nuovo corso
per la Facoltà di Architettura di Roma Tre, il Professor Giorgio Piccinato in
omaggio a Geddes, mi ha suggerito di chiamarlo Civics. Non conoscevo Geddes e gli avevo proposto un corso
interamente a piedi, che si svolgesse in città e mai dentro l’università,
peripatetico come quelli dei filosofi ateniesi, itinerante come forse lo stesso
Geddes avrebbe voluto il suo Civics.
Pensavo di chiamarlo Arti Urbane ma poi mi sono convinto a chiamarlo Arti
Civiche[4]. Anche se in principio mi
sembrava retorico, scolpito in lettere latine su un frontone delle architetture
mussoliniane di Roma. Ma forse quel sapore desueto e fuori moda, poteva essere
una buona provocazione: non Arti Pubbliche, termine mainstream di casa negli ambienti accademici e del mercato
dell’arte, consumato da banali interventi
di arredamento e abbellimento degli spazi pubblici; non Street Art, più di moda
negli ambienti antagonisti ma che indica solo la pittura murale e i graffiti
sui palazzi della città; non Arti Urbane, termine che indica oggetti e
installazioni calati in una urbe solo
fisica fatta di edifici di case e di strade; ma Arti Civiche, termine più impegnato, che ha a che fare con la civitas, lo status di cittadino, con il
produrre non solo spazi, ma anche cittadinanza, senso di appartenenza alla
città. Non solo produzioni di oggetti, installazioni e pitture quindi, ma anche
di camminate, di significati, di relazioni. Come le Civics di Geddes, anche Civiche è al plurale, perché è transdisciplinare:
la trasformazione della città non può essere lasciata ai soli urbanisti o
architetti o imprenditori, ma deve essere estesa a tutte le scienze che si
interessano alla città, quindi anche ad antropologi, geografi, sociologi,
biologi. E accanto alle Scienze devono camminare anche le Arti, sempre al
plurale: esplorare a piedi la città e penetrarne i suoi significati è un arte al
pari della scultura, della pittura e dell’architettura, ma anche della
fotografia, del cinema, della poesia che ci raccontano spesso con più efficacia
degli urbanisti i fenomeni più difficilmente leggibili della città attuale. Ed è
evidente l’intenzione di “educazione civica”: far conoscere a studenti e
cittadini le realtà estranee alle loro routine quotidiane; indagare fenomeni
emergenti attraverso l’interazione con lo spazio sociale; entrare in contatto
con le diverse culture che abitano la città, quelle degli esclusi nei campi e
nelle baraccopoli, e quelle dei reclusi nelle ricche gated communities. Il camminare di oggi ci porta infatti a
constatare come l’urbanistica ha rinunciato a produrre città e come, piegata
alle regole del mercato neoliberista, ha cominciato a produrre spazi urbani
senza interazioni tra diversi, senza città: una urbe senza civics. Quella
in cui operava Geddes era ancora una città unitaria, con regole e linguaggi
condivisi, con una evoluzione lenta e con trasformazioni ridotte e il camminare
in città era ancora un azione tutto sommato “normale”, non un’azione
sperimentale di avanguardia artistica. Nelle città di oggi che si trasformano
così velocemente, all’insaputa dei cittadini e che esplodono in miriadi di enclave nel territorio extraurbano, il
camminare e attraversare i confini è diventato invece l’unico modo con cui
ricostruire un filo unitario ai frammenti di città separate in cui viviamo. Il
camminare è diventato lo strumento estetico e scientifico con cui ricostruire
la mappa in divenire delle trasformazioni in atto, un’azione conoscitiva capace
di accogliere anche quelle amnesie urbane
che inconsapevolmente cancelliamo dalle nostre mappe mentali perché non le
riconosciamo come città.
Una volta trovato il nome ho chiesto al Preside, il Prof. Francesco
Cellini, di non assegnarmi un aula perché non ce n’era bisogno visto che nessuna
lezione e neanche gli esami si sarebbero svolti dentro l’università, tutto si
sarebbe svolto camminando. Finalmente avevo l’occasione di trasmettere agli
studenti il sapere e le modalità che negli anni avevamo acquisito con le derive
urbane di Stalker[5]
tra i margini abbandonati delle grandi città e a cui avevo dato una prima
sistemazione nel libro Walkscapes, il
camminare come pratica estetica[6].
Arti Civiche è il corso che mi sarebbe piaciuto frequentare quando ero studente:
esplorazione e riappropriazione della città; il camminare come metodologia di
ricerca e di didattica; la sperimentazione diretta dell’arte della scoperta e
della trasformazione poetica e politica dei luoghi. Il corso chiede infatti agli
studenti ed ai cittadini che si incontrano lungo il percorso, di agire nella
città alla scala 1:1, come azione fisica dei loro corpi nello spazio. Ha l’obiettivo
di riattivare le loro innate capacità di trasformazione creativa, di ricordargli
che hanno un corpo con cui prendere posizione in città, dei piedi con cui
camminare e delle mani con cui possono modificare lo spazio in cui abitano. In
ogni lezione si percorrono circa dieci chilometri camminando dal pranzo al
tramonto. Ogni tanto ci si ferma a leggere dei testi, a commentare gli spazi in
cui siamo riusciti a penetrare, a ragionare sulla città, sull’arte e sulla
società. Camminando diventiamo una sorta di tribù itinerante, con regole
proprie, un corpo unico multiforme che compie un’esperienza unica da cui
costruiamo le nostre conoscenze condivise. Uno spazio unitario di
sperimentazione, una sorta di laboratorio scientifico in movimento, che
sviluppa creativamente una processione rituale ed iniziatica. Una università
nomade.
Sono passati dieci anni da quando è iniziato il corso e nel
tempo abbiamo messo a punto il suo funzionamento cambiando sempre la zona di
esplorazione intorno a Roma. Ogni anno abbiamo realizzato un percorso unico a
tappe: il primo uscendo simbolicamente dall’università e andando verso il mare,
fino al luogo in cui era stato ucciso Pier Paolo Pasolini, poi risalendo tutto
il fiume Tevere abbiamo incontrato i nuovi abitanti delle baraccopoli fluviali
e siamo inciampati nella grande questione dei Roma People; in seguito abbiamo compiuto l’intero il giro del
Grande Raccordo Anulare, in un cammino aperto ai cittadini di Primaveraromana
per vedere le trasformazioni lungo i bordi della più importante infrastruttura
cittadina; dal GRA siamo usciti in direzione della pianura pontina e risalendo fino ai vulcani e ai castelli
romani; da qui abbiamo seguito l’intero litorale camminando lungo le spiagge e
la città litoranea; infine un corso interamente notturno, camminando da
mezzanotte all’alba, inseguendo la Luna.[7]
Nelle lezioni itineranti si cammina in modo strabico, verso
una meta e verso ciò che distoglie dalla meta, è un perdersi consapevole sulla
base dei concetti situazionisti di dérive
e di psychogéographie. Disponendosi
agli incidenti di percorso, ai dirottamenti, alla possibilità di inciampare e
di sbagliare strada deliberatamente. Giocare con il caso e l’imprevisto è
infatti l’unico modo per prendere la città di sorpresa, in modo indiretto,
laterale, ludico, non funzionale, di ritrovarsi in territori inesplorati
dove nascono nuovi interrogativi. Ci sono due regole per camminare in questi
spazi e con il tempo sono diventati una sorta di slogan. Il primo è “chi perde
tempo guadagna spazi”: la meta deve essere sempre solo una ipotesi, un progetto
che è già messo in discussine nel momento in cui lo si pronuncia.
L’esplorazione non ha bisogno di mete ma di tempo da perdere, tempo non
funzionale, ludico-costruttivo. La seconda regola è “non si torna mai indietro
per lo stesso cammino”: se siamo entrati in un buco della recinzione ed ormai
abbiamo percorso già alcuni chilometri, dover retrocedere sarebbe veramente
deprimente. Il dover cercare una via di uscita è un ottimo stimolo per
esplorare a fondo il territorio, porta a seguire sentieri che portano ad altri
buchi. Mette addosso quello stato di apprensione in cui la paura e il pericolo
sono medium per apprendere.
A differenza di Geddes non andiamo in giro con un mandato di
planners, ma piuttosto per vedere di
persona come la città si trasforma in assenza di una pianificazione,
sperimentare come la nostra presenza possa essere una de-pianificazione,
inventando porte e percorsi dove ci sono solo barriere. La capacità di
penetrazione è uno degli aspetti su cui viene valutata l’azione che si sta
conducendo. Se si è costretti a camminare sul marciapiede il valore è zero. Se
si riesce a entrare ed uscire con fluidità tra spazi differenti il valore è
alto: il territorio è permeabile e permette un numero maggiore di incontri e di
conoscenza. Il cammino non si fa infatti lungo le strade di asfalto, ma il più
possibile lungo i margini tra città e campagna, nel fango e tra i rovi, dove la
città si espande e si trasforma più velocemente, dove viene in contatto con
quello che rimane della natura. Qui la natura si ibrida in nuove forme,
sopravvive invadendo le fabbriche abbandonate, i vecchi casolari in rovina,
cresce nei campi agricoli non più seminati da anni, perché in attesa di
diventare palazzi. Per buona parte si cammina in luoghi dove non abbiamo
diritto di andare: se si vuole conoscere si deve entrare in spazi dove non
siamo stati invitati ad entrare, attraversare campi, scavalcare cancelli,
trovare buchi nelle reti, seguire sentieri e tracce lasciate da chi abita
nascosto dagli occhi della città. In questi luoghi gli studenti vengono in
contatto per la prima volta con persone che vivono accanto a noi e di cui non conosciamo
altro che l’immaginario dei media e dei nostri pregiudizi. Allora diventano
importanti le capacità relazionali: non lasciar spazio al banale, far succedere
delle cose, saper cogliere al volo situazioni che si creano casualmente,
convertirle in azioni poetiche. Comporre i comportamenti, costruire con
attenzione e poesia quello che sta succedendo sotto i loro occhi, far
attraversare barriere comportamentali a chi partecipa dell’azione. Vengono
valutati con il massimo dei punti gli studenti che riescono a fermarsi a
chiacchierare su temi inaspettati, chi riesce ad entrare in casa di qualcuno a
farsi offrire un caffè, chi riesce a fare ospitare tutto il gruppo a piantare
le tende nel suo giardino. Perché il corso conclude sempre le sue tappe con una
camminata di due giorni e per fare l’esame si deve dormire almeno una notte in
tenda. L’urbanistica è nata itinerante e non potrà che essere nomade.
[2]
Giovanni Ferraro, Rieducazione alla
Speranza. Patrick Geddes planner in India 1914-1924, Jaka Book, Milano
1998, p. 83. Le parole di Geddes sono tratte da una lettera a Mumford del
maggio-giugno 1931.
[3]
Ibidem, p. 271, nota 12. Nel
virgolettato sono le parole di Lewis Mumford 40 anni dopo in: “the disciplin’s
rebellion”, riportata in F.G. Novark Jr. Lewis
Mumford & Patrick Geddes. The corrispondence, London 1995, p.345-348.
Il racconto chiude anche il primo tomo dei Talks
from my Outlook, Tower, Survey Graphics, Kellog, London 1925, pp. 527-9 e
553.
[4]
La dizione Arti Civiche è già presente per altro nel titolo dell’articolo di
Alessandra Ponte, Patrick Geddes. Arti
Civiche o sociologia urbana, “Lotus” n° 30, 1981.
[5]
Stalker Osservatorio Nomade è un
artista collettivo che opera a Roma dai primi anni novanta e che ha fatto del
camminare il suo principale strumento di azione e di pratica estetica. Negli
ultimi anni si è ramificato in una articolata rete di relazioni e progetti
sotto diverse sigle, tra i quali ricordiamo: Primaveraromana, LAC_Laboratorio
Arti Civiche, Museo Relazionale, Stalker Walking School. http://www.osservatorionomade.net/
[6] Francesco Careri, Walkscapes. Walking as an aesthetic practice, Editorial Gustavo Gili, Barcellona
2002.
[7]
Sui diversi corsi vedi: http://articiviche.blogspot.it/
Caminar como Arte
Cívico
Traducion castellana publicada en:
Francesco Careri, Caminar como Arte Civico, in Derive Lab (editor) “la revoluciòn peatonal”, Ciudad de Mexico, pp.6-15
En 1913, Patrick Geddes
inventó Civics, un curso
universitario en el que este consagrado biólogo de Escocia se dedicaba al
estudio práctico de la ciudad, viéndola a través de los ojos de Darwin y
aplicando el evolucionismo a la civitas.
Se trató del nacimiento de una nueva
disciplina: el urbanismo itinerante, una Ciencia
Cívica que propone a los estudiantes y futuros planners, sumergirse directamente entre los pliegues de la ciudad.
“Escapar de las abstracciones actuales
de la economía y la política en las que todos, más o menos por igual hemos sido
educados; para retornar al estudio concreto, desde el cual la política y la
filosofía social surgieron en el pasado, pero del que se han alejado
posteriormente: preguntándose si las ciudades son cómo son, o más bien, son
como las vemos crecer”. Es lo que dice Geddes en Cities in evolution: an introduction to the town planning movement and
to the study of civics.
El urbanismo nace así, a pie, en modo
laberíntico y participativo: un método deambulatorio que permite leer y
transformar la ciudad, cuyo producto no es una visión abstracta ni cenital de
mapas estáticos coloreados en zonas funcionales, sino un recuento
fenomenológico evolutivo, descrito desde un punto de vista horizontal, puesto
en marcha al caminar entre los pliegues de la ciudad: la survey walk.
Entre 1914 y 1924, Geddes experimentó en
India sus primeras survey walks, una
especie de planes reguladores evolutivos que, con algunas excepciones, no son
diseñados sino contados en forma peripatética: son paseos dentro de la ciudad,
largas caminatas que terminan en forma de guías que describen la civitas, que la fotografían en su estado
actual y dan indicaciones para cambios sucesivos. No se trata de guías
estandarizadas o normas para aplicar de forma cenital, sino observaciones
itinerantes representadas desde la altura de un hombre que se pierde entre los
meandros urbanos, descubriendo nuevos territorios, imaginándose correcciones e
interpretaciones.
Es dando vueltas que Geddes tomó nota de
las evoluciones históricas de los centros urbanos, llegando a definir cuáles se
debían intervenir, cuáles se debían dejar a su propio devenir natural y cuáles
ayudaban al organismo urbano a convertirse en nuevas conformaciones. Geddes
caminaba antes y después de la preparación de un plan regulador, experimentando
un nuevo método pedagógico con el cual fuera capaz de salir a comunicarse con
los habitantes, los verdaderos actores de dicho plan.
Como buen anarquista, estaba convencido
que la producción de la ciudad debía ser bottom-up,
creía en una participación ante litteram. En la fase de análisis se
encontraba con los habitantes en el sitio, para escuchar sus problemas y las
soluciones que ellos mismos sugerían; después, en la escritura de los survey, se refería a ellos como
interlocutores privilegiados: eran ellos los custodios y ejecutores de sus
indicaciones, a ellos se dirigía una continua invitación a caminar a lo largo
de las soluciones que él había imaginado.
En Rieducazione
alla Speranza. Patrick Geddes planner in India 1914-1924, Giovanni Ferrero
ha descrito con grandísima pasión este método itinerante y participativo.
“Caminar no es solo mirar: es también escuchar, en cada lugar, a quien vive y
conoce la ciudad. Por eso Geddes evoca a menudo con gratitud a sus
interlocutores locales. Con sus Planner–Surveyor camina, observa, escucha. Y
platica. Solamente caminando a través de la ciudad india, es que Geddes parece
haber descubierto el auténtico significado de la Peripathetic Philosophy, en la que los griegos hablaban sobre
filosofía bajo sus plátanos, al igual que los indios —Tagore y Bose— enseñan
todavía, sentados bajo la sombra”.
Ferrero cuenta un episodio conmovedor en
el que Geddes experimentó el caminar, no únicamente como arte de observar la
ciudad, sino como arte performativa capaz de transformarla. Era 1923 y Geddes
estaba en América, invitado por su estudiante Lewis Mumford para una clase en
el Regional Planning Association of America. Relata cómo se veía Geddes.
“Sentado con las piernas cruzadas, como un gurú indio, bajo un gran roble —que dentro
de la magia de su historia casi se transforma en un banano— mientras
nos cuenta sobre su town planning en India: y cómo, como Mahrajà por un día,
había erradicado la peste en Indore”.
Ferrero cuenta que Geddes estaba
consternado porque no podía encontrar un verdadero contacto con los habitantes
ni despertarlos de su letargo. Los habitantes, al verlo pasar y tomar apuntes,
no solo le temían, como el enésimo planner
occidental que estaba listo para tirar sus casas al suelo, sino que también
habían comenzado a decir que estaba propagando la peste. ¿Cómo lograr
comunicarse con ellos? ¿Cómo representar el Civic
Development en las mentes de sus ciudadanos? Se le vino a la mente una
idea, una especie de town planning
procession capaz de despertar su interés por la higiene y el mantenimiento
de la ciudad. Ni mapas, ni dibujos, ni modelos pudieron haber competido con una
caminata dentro de la misma ciudad: “¡Háganme Mahrajà por un día!”. Así
organizó el Año Nuevo hindú de Duwani, en donde la procesión “en vez de seguir
la calle tradicional, siguió una nueva: una calle a lo largo de la cual las
casas fueron ubicadas de mejor forma para la ocasión”.
La operación fue un éxito. Nació una
verdadera competencia para repintar y re-sistematizar las casas y las calles.
En el desfile, al lado de los carros de nuevas máscaras mitológicas, se
desplazaron los carros con los planes de la ciudad y los modelos de los
edificios a construirse. La ciudad de Indore apareció como nunca antes fue
vista. La participación de la gente fue altísima. No se sabe si fue por la
limpieza o por la llegada de la nueva estación, pero la peste había sido
definitivamente erradicada.
Cuando en 2005 tuve la oportunidad de
inventar un nuevo curso para la Facultad de Arquitectura de Roma Tre, en
homenaje a Geddes, el profesor Giorgio Piccinato me sugirió llamarlo Civics. Yo aún no conocía al profesor
escocés, pero había propuesto un curso enteramente a pie, que tuviera lugar en
la ciudad y nunca dentro de la Universidad. Peripatético como aquellos
filósofos atenienses, itinerantes, tal vez como el mismo Geddes hubiera
querido. Pensaba llamarlo Arte Urbano, pero después me convencí de llamarlo
Arte Cívico.
Aunque en un principio me parecía
retórico, esculpido en letras latinas sobre un frontón de la arquitectura mussoliniana
de Roma, tal vez aquél sabor obsoleto y fuera de moda podría ser una buena
provocación. No fue Arte Público, término mainstream
en el ambiente académico y en el mercado del arte, consumido por acciones
triviales de mobiliario y de embellecimiento de los espacios públicos. Tampoco
fue Street Art, más de moda en los ambientes antagonistas, que indica solamente
las pinturas murales y los grafittis sobre los palacios de la ciudad. No fue
Arte Urbano, término que denota objetos e instalaciones colocados en una urbe
física, hecha sencillamente de edificios, casas y calles. Fue Arte Cívico,
término más comprometido, que tiene que ver con la civitas, con el status de ciudadano, con la producción no solo de
espacios sino también de ciudadanía, sentido de pertenencia a la ciudad; no
únicamente la producción de objetos, instalaciones o pinturas, sino también de
caminatas, de significados, de relaciones.
Como la Civics de Geddes, también es plural porque es transdisciplinaria.
La transformación de la ciudad no puede ser dejada solamente a los urbanistas o
arquitectos o empresarios, debe ser ampliada a todas las ciencias que se
interesan en la ciudad, a los antropólogos, geógrafos, sociólogos, biólogos. Y
aparte de las ciencias, deben caminar también los artistas. Explorar la ciudad
a pie y penetrar sus significados es un arte a la par de la escultura, de la
pintura y de la arquitectura, pero también de la fotografía, del cine y de la
poesía, que nos cuentan frecuentemente con más eficiencia que los urbanistas, los
fenómenos más difíciles de leer en la ciudad actual.
Es evidente la intención de la educación cívica: dar a conocer a los
estudiantes y ciudadanos realidades ajenas a sus rutinas cotidianas; indagar
fenómenos emergentes a través de la interacción con el espacio social; entrar
en contacto con las diversas culturas que habitan la ciudad, las de los excluidos
en el campo, o en los barrios pobres, y las de los recluidos en las ricas gated communities.
En el caminar de hoy se constata que el
urbanismo ha renunciado a producir la ciudad y, doblegado ante las reglas del
mercado neoliberal, ha comenzado a producir espacios sin interacción entre
diversos. Caminar sin ciudad: una urbe sin civics.
Aquella en la que trabajaba Geddes, era todavía una urbe unida, con reglas y
lenguajes compartidos, con una evolución lenta y transformaciones reducidas. El
paseo seguía siendo una acción después de todo “normal”, no una acción
experimental de vanguardia artística.
En las ciudades de hoy, que se
transforman velozmente, el caminar y atravesar los límite se ha convertido en
el único modo para reconstruir tejido a partir de los fragmentos urbanos
separados en los que vivimos. Caminar se ha vuelto el instrumento estético y
científico para reconstruir el mapa del proceso de aquellas transformaciones
que tienen lugar, una acción cognoscitiva capaz de dar la bienvenida, también, a
las amnesias urbanas que
desprevenidamente eliminamos de nuestros mapas mentales porque no las
reconocemos como ciudad.
Una vez definido el nombre, le pedí al
decano, el profesor Francesco Cellini, que no me asignara un aula porque no
había necesidad. Ninguna lección y ningún examen tendrían lugar dentro de la
Universidad, todo se haría caminando. Finalmente tuve la ocasión de transmitir
a los estudiantes el conocimiento y la metodología que con los años habíamos
adquirido con las derivas urbanas de Stalker, un colectivo de artistas de
Roma que tiene el caminar como instrumento estético y de acción. Fueron derivas entre los límites abandonados
de las grandes ciudades y sobre ellas pude hablar en el libro Walkscapes, caminar como práctica estética,
Arte Cívico es el curso que me habría
gustado tomar cuando era estudiante: exploraciones y reapropiaciones de la
ciudad; caminar como metodología de investigación y de didáctica; la
experimentación directa de las artes del descubrimiento y de la transformación poética
y política de los lugares. De hecho, el curso pide a los estudiantes y a los
ciudadanos que se encuentran a lo largo del curso para actuar en la ciudad a
escala 1:1, como acción física de sus cuerpos en el espacio. Tiene el objetivo
de reactivar sus capacidades innatas de transformación creativa, de recordarles
que tienen un cuerpo con el cual tomar una posición en la ciudad, unos pies con
los cuales caminar y unas manos con las que pueden modificar el espacio en el
que habitan. En cada lección se recorren cerca de diez kilómetros caminando,
desde el almuerzo hasta la puesta del sol. De vez en cuando nos detenemos para
leer textos, a comentar los espacios que hemos logrado penetrar, a razonar
sobre la ciudad, sobre el arte y sobre la sociedad. Caminando nos volvemos una
especie de tribu itinerante, con reglas propias, un cuerpo único multiforme que
logra una experiencia única a partir de la cual construimos nuestros
conocimientos compartidos. Un espacio unificado de experimentación, una especie
de laboratorio científico en movimiento, que desarrolla creativamente una
procesión ritual. Una universidad nómada.
Han pasado diez años desde que inicié el
curso y en ese tiempo hemos desarrollado su funcionamiento, cambiando siempre
la zona de exploración en torno a Roma. Cada año hemos realizado un camino
único en etapas: Primero, salimos simbólicamente de la universidad y andamos
hacia el mar hasta llegar al lugar en el que Pier Paolo Pasolini fue
asesinado; después subimos a lo largo
del río Tíber, en donde hemos encontrado a los nuevos habitantes informales y
en donde nos topamos con la gran pregunta de Roma People; enseguida caminamos por completo el Grande Raccordo Anulare, en un paseo
abierto a los ciudadanos de Primeveraromana,
para ver las transformaciones a lo largo de los bordes de la infraestructura
urbana más importante de la ciudad; más adelante, desde el GRA salimos en dirección a la llanura, subiendo hasta los volcanes
y a los castillos romanos; de allí seguimos toda la costa, caminando por las
playas y la ciudad costera; por último, hacemos un curso enteramente nocturno,
caminando desde la medianoche hasta el alba, siguiendo la luna.
En las clases itinerantes se camina de
modo bizco, hacia una meta y hacia aquello que distrae de la meta. Es un perderse
conscientemente en la base de los conceptos situacionistas de dérive y de psychogéographie, disponiéndose a los incidentes de la ruta, a los
secuestros, a la posibilidad de tropezarse y de olvidar la calle
deliberadamente. Jugar con lo inesperado es de hecho el único modo de tomar a
la ciudad por sorpresa, indirecta, lateral, lúdica, no funcional, de
re-encontrarse en territorios inexplorados donde nacen nuevas interrogantes.
Hay dos reglas para caminar en estos
espacios y con el tiempo se convierten en una especie de slogan. El primero es
“quien pierde tiempo, gana espacios”: la meta debe ser siempre una hipótesis,
un proyecto que ya se puso en discusión en el momento en que se le pronuncia.
La exploración no necesita metas, sino tiempo para perder, tiempo no
funcional, lúdico-constructivo. La
segunda regla es “no se regresa nunca por el mismo camino”: si hemos entrado
por un hueco en la valla y por ahora hemos recorrido ya algunos kilómetros,
tener que retroceder sería verdaderamente deprimente. El deber de buscar una
vía de salida es un estímulo óptimo para explorar a fondo el territorio, lleva
a seguir los caminos que invitan a otros huecos y pone en ese estado de
aprensión en el que el miedo y el peligro son medios para aprender.
A diferencia de Geddes, no vamos por ahí
con un mandato de planners. Vamos
para ver en persona cómo la ciudad se transforma en ausencia de una
planificación, para experimentar cómo nuestra presencia puede ser una
des-planificación, para inventar puertas y recorridos donde únicamente hay
barreras. La capacidad de penetración es uno de los aspectos en los que se
evalúa la acción que se está llevando a cabo. Si se es forzado a caminar sobre
la acera, el valor es cero. Si se consigue entrar y salir con fluidez entre
diferentes espacios, el valor es alto: el territorio es permeable y permite un
número mayor de encuentros y conocimiento. El camino no se hace a lo largo de
las carreteras asfaltadas sino, en la medida de lo posible, a lo largo de los
márgenes entre ciudad y campo, en el barro y entre los matorrales, donde la
ciudad se expande y se transforma más rápidamente, donde entra en contacto con
lo que queda de la naturaleza.
Aquí la naturaleza adquiere nuevas
formas, sobrevive invadiendo las fábricas abandonadas, las viejas casas en
ruinas, crece en los campos agrícolas que ya no se siembran cada año porque
están en espera de convertirse en palacios. En buena parte se camina en lugares
por donde no debemos caminar: si se quiere conocer se debe entrar en espacios
donde no hemos sido invitados a entrar, atravesar los campos, saltar por encima
de las puertas, encontrar agujeros en las rejas, seguir caminos y pistas
dejadas por los que viven ocultos de los ojos de la ciudad.
En estos lugares se entra en contacto
por primera vez con personas que viven junto a nosotros, pero de quienes no
conocemos nada más que el imaginario de los medios y de nuestros prejuicios.
Por lo tanto, se vuelven importantes las capacidades de relacionarse: no dar
cabida a lo trivial, hacer que las cosas sucedan, detenerse a charlar sobre
temas inesperados, saber cómo aprovechar las situaciones que se crean al azar y
convertirlas en acciones poéticas. Componer los comportamientos, construir con
atención y poesía aquello que está sucediendo delante de los ojos, hacer
atravesar barreras de comportamiento a quien participa de la acción.
El urbanismo nació itinerante y no podrá
ser más que nómada.
bello leggerti ....
RispondiEliminagrazie!! un bacio grande antonio!
RispondiEliminaAppreciate yoour blog post
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