Roma: l’abitare dei Rom dopo l’apartheid dei campi
di Francesco Careri *
Scritto in occasione del Convegno Italia Romanì organizzato dall'Associazione 21 luglio il 3-4-5 Aprile 2014
1 - riportare il tema
dell’abitare dei Rom dei Sinti e dei Camminanti[2] all’interno
dell’abitare di tutti e quindi tra le competenze dell’urbanistica, e non dei
servizi sociali e delle prefetture;
2 - far comprendere che il
numero dei Rom è estremamente esiguo e che una soluzione alternativa ai campi
etnici è più facilmente percorribile di quanto non si creda;
3 - proporre un ventaglio di
strade differenziate percorribili da subito.
Bombe. Le
immagini dicono spesso molto di più delle parole. Con il Laboratorio di Arti
Civiche dell’Università di Roma Tre abbiamo elaborato una serie di mappe che ripercorrono
sinteticamente la storia e la geografia degli sgomberi dei Rom a Roma negli
ultimi trent’anni. Nel farlo abbiamo deciso di far ricorso ad un simbolo,
quello della esplosione della bomba, perché analizzando i risultati grafici si
comprende come questa sia stata una storia di grandi sgomberi-bombe dalle cui
schegge si sono formate le bombe degli anni successivi. Il processo è quasi
sempre lo stesso e in ogni decennio si può riconoscere una sorta di “madre di
tutti gli sgomberi” : un evento di cronaca porta all’individuazione di un campo
più problematico degli altri, i media ne alimentano l’immaginario negativo, la
politica lo elimina in una catarsi generale, ne sfrutta il consenso a fini
elettorali e annuncia la soluzione del problema. Ai grandi sgomberi esemplari seguono
infatti sempre le nuove “soluzioni” dei sindaci. Dopo Petroselli che possiamo
ricordare come l’unico esempio positivo in trent’anni per avere inserito i Rom
nelle case popolari di nuova costruzione, con Rutelli nel 1994 si inaugura la
stagione dei campi etnici, Veltroni inventa i villaggi della Solidarietà fuori
dal GRA e Alemanno li trasforma nei megacampi ultrasorvegliati di ultima
generazione. Ancora oggi l’amministrazione capitolina continua a ragionare solo
su campi, non si intravede nessuna politica di superamento dei campi, ma le
ultime proposte sono di ristrutturazione di alcuni campi esistenti ed un
passaggio dai megacampi a mediocampi.
> 1980. La maggior parte
degli insediamenti censiti è nel settore sinistro del Tevere e al’interno del
GRA. Il censimento è di tipo antropologico, e distingue sinti, rom abruzzesi,
lovara, kaderasha, kanjaria, rudari, camminanti… Si tratta per lo più di
baraccopoli di piccole e medie dimensioni, dove spesso i Rom convivono con gli
altri. La prima “bomba” è al Mandrione dove dal 1936 abitavano i rom abruzzesi.
Sono cittadini italiani e vengono considerati al pari degli altri baraccati, alcuni
prendono casa nel nuovo quartiere di Edilizia Pubblica Residenziale di
Spinaceto, alcuni Rom napoletani e Lovara al Laurentino 38, altri si spargono
nel territorio creando campi che in seguito diventeranno nuove “bombe”, altri partecipano
al più vasto fenomeno dell’abusivismo edilizio insediandosi nelle borgate di
Romanina, Torre Angela e Torvaianica dove tutt’oggi risiedono.
> 1990. Cresce il numero
degli insediamenti che oltrepassano la riva destra del Tevere verso sud, ma la
maggior parte degli insediamenti è concentrata nella zona est e dentro al GRA. Comincia
la realizzazione dei campi sosta attrezzati, pensati per il passaggio
stagionale dei Rom italiani: Salviati, Tor de’ Cenci, Martora, Gordiani,
Barbuta e Lombroso. Ma arriva la prima ondata migratoria dovuta alla guerra dei
Balcani. In occasione del Giubileo scoppia la “bomba” del Casilino 700, che una volta sgomberato viene diviso tra i campi di
Salviati, Arco di Travertino, la Barbuta, Casilino 900, Candoni e Ponte
Mammolo.
> 2000. I grandi sgomberi di
Veltroni sono quelli di Vicolo Savini e Villa Troili, che danno vita a campi
sempre più grandi e sempre più lontani: Castel Romano, Cesarina, Salone,
Camping River. Sopraggiunge una nuova ondata migratoria proveniente dalla
Romania e dall’Est della nuova Europa, che si insedia soprattutto in
baraccopoli sparse e sgomberate di continuo.
> 2010. Le ultime grandi
bombe sono la grande baraccopoli del Casilino 900 e il campo attrezzato di Tor
de Cenci, i cui abitanti sono deportati nei grandi villaggi veltroniani
saturandone ogni spazio libero pensato per la socializzazione. Il Piano Nomadi
di Alemanno prevede un numero chiuso a 6.000 persone da dividere in 13 campi sempre
più grandi, sempre più lontani, sempre più costosi. Il modello proposto è
quello del campo della Barbuta al confine con Ciampino.
Concentramento[4]. Abbiamo disegnato un grafico per mostrare come varia,
dal 1995 al 2010, il numero delle persone (linea rossa) in relazione al numero
dei campi (linea blu). Si vede come la popolazione censita rimane stabile
intorno ad un numero di circa 6000 persone mentre il numero dei campi scende
dai 49 del 1995 fino ai 13 proposti dal piano nomadi di Alemanno. Si assiste
quindi ad un vero e proprio “concentramento” della stessa popolazione in un
numero sempre più piccolo di campi sempre più affollati. “Concentramento” non è
quindi un aggettivo esagerato da attivista dei diritti umani, ma un dato semplicemente
statistico-demografico: si sta concentrando una sola etnia in campi sempre più
sorvegliati e sempre più lontani dal centro e quindi dalla vista e dal
controllo democratico. Ed il concentramento è ancora più “etnico” di quello dei
campi di sterminio della seconda guerra mondiale che era per lo meno
multietnico, dove i Rom convivevano con gli Ebrei, i comunisti e gli
omosessuali. Per i Rom si sta costruendo un a vera e propria città a-parte, un
apartheid non dichiarato che fa della separatezza culturale ed etnica la sua
base ideologica. Dalla sola lettura di questi dati è evidente che si sta
andando verso una prospettiva di non ritorno e che è assolutamente urgente una
inversione di rotta.
Esplorazioni[5]. Oltre alla raccolta dati ed alla restituzione
cartografica è utile riportare sinteticamente una serie di esperienze condotte a
Roma insieme a Stalker tra il 2007 e il 2010, una vera immersione nella
questione abitativa dei rom e nelle sue diverse declinazioni. Dopo una lunga
relazione con i Rom Calderasha del mattatoio di Testaccio, nel 2007 con Stalker
e con il Corso di Arti Civiche partiamo per una indagine sull’abitare informale,
camminando lungo i due argini del Tevere per comprendere il fenomeno delle
baraccopoli fluviali[6]. Dalla
foce, risalendo il fiume fino a Prima Porta, abbiamo incontrato circa 50
insediamenti per una popolazione di circa 1800 persone. E il dato più
interessante è che non erano abitati esclusivamente da Rom, come eravamo
portati a credere dai media. La mappa del percorso ci mostra insediamenti
multiculturali con più di 15 nazionalità differenti in cui i rom a volte convivevano
con albanesi, rumeni, polacchi, nigeriani, filippini e anche una diversi
italiani impoveriti dalla crisi economica e abitativa.
Nel 2008 abbiamo invece
affittato nove camper e siamo andati a studiare da vicino il modello
istituzionale dei campi tollerati, semiattrezzati ed attrezzati. Tra questi il
prototipo di villaggio della solidarietà di Castel Romano, nato direttamente
dal gabinetto del Sindaco Veltroni, che in foto aerea ha una forma tristemente nota
alla nostra cultura europea, è l’immagine di un vero e proprio campo di
concentramento. Siamo quindi partiti per i Balcani per visitare le case da dove
provengono i Rom di Roma, e per studiare le metodologie di slum upgrading con cui opera l’agenzia delle Nazioni Unite
UN-Habitat a Belgrado. Abbiamo visto case normali,
difficilmente distinguibili dalle altre case dei gagè, inserite in una società
cosmopolita in cui i Rom sono solo uno dei gruppi culturali tra i tanti. E
abbiamo visto gli slums in cui
UN-Habitat opera portando fogne, acqua, elettricità cercando di legalizzare e
collegarle al tessuto urbano ciò che è sorto spontaneamente, trasformando gli slums in quartieri.[7]
Sulla base di queste
esperienze, con gli studenti attraverso i corsi universitari di progettazione abbiamo
esplorato diverse ipotesi, immaginando diverse soluzioni abitative di slum upgrading, di autorecupero e di
nuova costruzione. Alla Triennale di Milano abbiamo infine portato una serie di
proposte dalla scala europea a quella comunale: passaporto europeo
transazionale per la più grande minoranza culturale europea; inserimento dei
rom nella legge sulle minoranze italiane, chiudere i campi nomadi, sperimentare
l’autocostruzione assistita.
Casilino 900[8]. In questi anni il nostro caso studio principale è
stato il Casilino 900 dove si erano stanziati, riproducendo la balcanizzazione
di provenienza, circa mille persone provenienti da Bosnia, Montenegro, Kossovo
e Macedonia. Dopo un attento e approfondito studio degli usi e delle tipologie
residenziali decidiamo di avviare un cantiere di autocostruzione con i migliori
“architetti” del campo: Savorengo Ker, la casa di tutti è il frutto di questa
esperienza che ha dato vita anche ad un film ed alla partecipazione alla
Biennale di Venezia di Architettura. La casa è un manifesto condiviso che dice:
siamo Rom, non siamo nomadi, vogliamo la casa, e se assistiti da un supporto
tecnico, normativo e legale, la possiamo costruire anche da soli con un enorme
risparmio economico. L’idea è quella di trasformare il campo in quartiere multiculturale
facendo posto anche ad altre famiglie in emergenza abitativa, a studenti e
giovani coppie. Un manifesto troppo avanzato per il contesto sociale e politico
che vede per i Rom ancora solo e soltanto baraccopoli o campi di concentramento
etnici. La casa viene incendiata da ignoti dopo essere stata ostacolata dai
media e dalle istituzioni che a tutti i livelli e con ogni mezzo hanno cercato
di impedirne l’utilizzo. L’opinione pubblica, la politica e le istituzioni non
intendono dare una risposta in quella direzione. Il Casilino 900 viene
sgomberato e traslocato nei campi di ultima generazione che il sindaco Alemanno
sta riorganizzando, saturando ogni spazio ancora libero dei campi veltroniani.
Vengono messe alte recinzioni con guardiania armata e telecamere a circuito
chiuso, orari di ingresso e di uscita, e viene inventato il DAST[9], un
tesserino di riconoscimento con numero, codice a barre e microchip contenenti
grandi quantità di informazioni anche giudiziarie su ogni abitante del campo.
Città Meticcia[10]. Nel 2009 accade un fatto nuovo. In una fabbrica
abbandonata sulla Prenestina nasce Metropoliz dove circa 100 rom partecipano
all’occupazione e si inseriscono nel più complesso fenomeno delle occupazioni
abitative che a Roma conta più di 50 stabili occupati ed una popolazione di
circa 8.000 persone. I Blocchi precari Metropolitani insieme a Popica Onlus
propongono un modello nuovo di Città Meticcia in cui i Rom si affiancano gli
altri cittadini senza diritti e senza casa per reclamare il diritto alla città. Si tratta della
prima soluzione non monoetnica che nasce a Roma dopo le case popolari di
Petroselli. Oggi nelle nuove occupazioni i rom sono sempre più mescolati agli
altri e non si distingue più, come nel caso di Metropoliz, se si tratti di
occupazione inclusiva dei rom oppure no. I Rom in questi contesti non sono più
un caso separato. Crediamo che da questo modello informale l’urbanistica
cittadina abbia molto da imparare.
Situazione. A
questo punto proviamo a tirare un poco di somme dai dati e dalle esperienze che
abbiamo fin qui raccontato. Da una parte abbiamo le proposte istituzionali che
hanno tutte la caratteristica di essere tutte monoetniche: campi autorizzati,
tollerati, attrezzati, semiattrezzati (fino al 1994); Campi, Villaggi, Megacampi,
(anni 1994 - 2014), fino ai C.E.R - Centri Emergenza Rom, ai Centri di Raccolta
per Rom alle Best House Rom (2010-2014). Dall’altra parte ci sono delle
proposte alternative non istituzionali che hanno la caratteristica di essere
multietniche: Autocostruzione Assistita Interculturale (Savorengo Ker); Occupazione
Abitativa Meticcia (Metropoliz). Quello che si deve imparare dagli ultimi
trent’anni è che spostare il problema
da una parte all’altra della città non risolve il problema ma anzi lo acuisce:
che la soluzione campo genera sempre
maggiore esclusione, povertà, dipendenza, assistenzialismo, costi sociali ed
economici; che la soluzione monoetnica
non funziona e non appartiene ai Rom, che infatti nelle baraccopoli e nelle
occupazioni sanno convivere con gli altri; che il tema della diversa cultura abitativa dei Rom è un terreno
scivoloso, ha inventato e prodotto da venti anni la nuova cultura abitativa del
campo e ripropone il campo sotto i diversi nomi di microarea, piccolo campo,
medio campo etc.; che invece di concentrare bisogna polverizzare il problema in una miriade di soluzioni sparse in
tutto il territorio.
Con la consapevolezza che la
Soluzione con la maiuscola non c’è, ma che ci sono molte strade a disposizione,
tutte ancora da percorrere, proviamo di seguito ad avanzare alcune proposte per
il superamento dei campi a Roma. Proposte che devono variare, sapendo che ad
ogni contesto va trovata una propria risposta e che all’interno di ogni
contesto e di ogni famiglia ci sono diverse risposte in base a differenziati
stati di consapevolezza e di evoluzione del proprio modello abitativo. E
sapendo anche che i desideri abitativi devono fare i conti con le opportunità e
le disponibilità che offre il contesto sociale, economico e politico in questo
momento storico ed in questo contesto geografico. Oggi i Rom ci dicono di voler
uscire dai campi, di abitare nelle case e di inserirsi in una società multiculturale.
Sicuramente dieci anni fa non ci dicevano le stesse cose e nel cercare le
soluzioni sono stati commessi molti errori amche sulla base dei desiderata di
quel momento, e probabilmente tra dieci anni le proposte che faranno i Rom saranno
ancora altre. Sicuramente si commetteranno ancora alcuni errori, ma è veramente
giunto il tempo di sbagliare nell’unica direzione giusta, quella che metterà
fine all’apartheid dei campi.
Proposte. Oggi
a Roma vivono 7.800 persone nei villaggi attrezzati equivalenti a circa 1.200
famiglie, 800 persone nei campi tollerati, 350 persone in Best House Rom, un
numero indefinito in 16 grandi baraccopoli e decine di mini-insediamenti
familiari. Il totale si aggira intorno a 10.000 persone.[11] La
maggior parte dei campi è su terreni che il piano regolatore attribuisce ad
attrezzature per “servizi” come scuole, biblioteche, campeggi etc., nessuno in
quelle aree “residenziali”, dove risiedono gli altri abitanti della città.
Questo deriva dalle “buone” intenzioni dei primi campi pensati come aree sosta
per popolazioni girovaghe italiane ma poi abitati dai profughi delle guerre
balcaniche che nomadi non erano, cui si è sovrapposta poi la retorica delle culture abitative, sempre pensate come
tradizioni immutabili e statiche e mai anche individuali ed in trasformazione,
come sono piuttosto quelle dei Rom e anche dei Gadjè. Non è più ipotizzabile
immaginare una unica soluzione del problema ma invece una pluralità di
interventi a differenti livelli, dall’intera comunità alla famiglia allargata,
al singolo nucleo alle scelte individuali.
Un ventaglio di proposte a consumo di suolo zero, cioè senza
costruire ulteriori insediamenti in terreni attualmente liberi
dall’edificazione, è il seguente:
a - accompagnamento individuale fuori dal campo con un contributo
temporaneo per l’affitto di case a libero mercato sotto garanzie comunali.
b - autorecupero di edifici dismessi o sequestrati alla criminalità,
percependo gli elementi positivi ed innovativi provenienti dal modello delle
occupazioni abitative e della Città Meticcia.[12]
c - interventi di Slum Upgrading ed autocostruzione assistita in alcune baraccopoli ancora superstiti,
trasformandole in toponimi come è stato fatto per le borgate abusive degli anni
ottanta, fornendo quindi infrastrutture e implementando la popolazione in
termini interculturali.
d - trasformazione radicale
degli attuali campi - i più centrali e inseriti in un contesto urbano - in condomini interculturali aumentandone la
densità e la mixitè anche attraverso tipologie abitative verticali.
e - inserimento in Edilizia Residenziale Pubblica[13] risolvendo
l’annoso problema dell’equiparazione dello sgombero allo sfratto per ottenere
vantaggi nel punteggio delle graduatorie di accesso alla casa.
f - sperimentare soluzioni miste tra formale e informale
per chi abita la città solo stagionalmente, per chi vuole rimanere in una
condizione di famiglia allargata, per chi sa di non avere una economia che gli
permetterebbe di sostenersi né nel libero mercato né nell’edilizia pubblica.
Queste proposte non vogliono
essere un nuovo Piano Nomadi per Roma. La più grande rivoluzione sarebbe quella
di trattare i Rom come gli altri cittadini, far ritornare il loro abitare
nell’abitare di tutti, far ritornare le loro case nel campo dell’urbanistica
civile e non nelle attrezzature fornite dai servizi sociali.
* Francesco Careri è
cofondatore di Stalker, ed è attualmente ricercatore presso il Dipartimento di
Architettura Roma Tre dove dirige il LAC_Laboratorio Arti Civiche. Sito web
www.articiviche.net, mail: careri.francesco@gmail.com.
[1] Questo testo, presentato in occasione del convegno, è
la riscrittura della relazione presentata il 22 marzo 2014 in Campidoglio in
occasione di un incontro a porte chiuse organizzato dall’Associazione 21 Luglio
alla presenza de Sindaco di Roma Ignazio Marino del vicesindaco Luigi Nieri e
di diversi assessori e consiglieri comunali.
[2] Di seguito utilizzerò solo il sostantivo Rom, in quanto nel contesto
romano cui faccio riferimento non sono quasi più presenti popolazioni sinte e
camminanti.
[3] Questa geografia, ancora inedita, è stata ricostruita da Giacomo Zanelli
all’interno della ricerca Nomadismo e
Città da me diretta in seno al Dipartimento di Studi Urbani (oggi
Dipartimento di Architettura) dell’Università Roma Tre, a partire dai resoconti
di Lacio Drom, la rivista del Centro Studi Zingari di Roma
fondato nel 1965 da Mirella Karpati e Don Bruno Nicolini, dai censimenti
ufficiali del Comune di Roma, da incontri con esperti quali il prof. Marco
Brazzoduro, fotografi, giornalisti ed attivisti del contesto romano. Per una storia dei Rom a Roma cfr. Mirella
Karpati, Francesca
Porcari , Giorgio Viaggio, Rom A Roma, “Lacio Drom” n° 5, Roma
1986; Sergio Giovagnoli, Zingari a Roma, in Piero Brunello (a cura di), L'
urbanistica del disprezzo. Società italiana e campi rom, Manifestolibri, Roma
1996.
[4] Il grafico è stato elaborato da Cecilia Sgolacchia all’interno della sua
tesi di laurea “La città Rom” sostenuta nel 2010.
[5] Sulle esperienze condotte da Stalker insieme ai Rom dal
1999 al 2009 cfr. Francesco Careri e Lorenzo Romito , Roma, una città senza case, un
popolo senza terra, in Aldo Bonomi (a cura di), La Vita Nuda , Triennale
Electa, Milano 2008, pp. 105-115; Lorenzo Romito, Oltre i campi. Note per una
politica integrata di emancipazione abitativa, civile, culturale, economica e
sociale dei Rom in Italia, a partire dal superamento dei campi nomadi, «Roma
Time», 5, 2009 (dropbox.com/u/4394790/compl.pdf).
«Roma Time» è un giornale di viaggio stampato solo in fotocopia, uscito in 7
numeri tra il 2007 e il 2009, curato da Stalker e DIPSU. Raccoglie diversi materiali
che attraversano l’esperienza di Stalker.
[6] Cfr i siti web di Arti Civiche http://suilettidelfiume.wordpress.com/;
http://foroitalico531.wordpress.com/
[7] Cfr. Vladimir Macura, Housing,
urban planning and poverty: problems faced by Roma/Gypsies communities with
particular references to central and eastern Europe, CDMG, Consiglio d'Europa,
Strasbourg 1999 e Inclusion of Roma population through housing and settlements
improvement, in Four strategic themes for housing policy in Serbia, UN Habitat,
SIRP, Belgrade 2006, pp. 26-45.
[8] Savorengo Ker / la casa di tutti è un progetto di Stalker Osservatorio
Nomade, delle Comunità Rom del Casilino 900 e del DIPSU Dipartimento di Studi
Urbani. Realizzato con il sostegno di: Nomadismo e città. Abitare informale,
campi rom e ricoveri occasionali, letti attraverso le pratiche e le esperienze
dell’arte pubblica, Fondi di Ricerca del DIPSU – Dipartimento di Studi Urbani
dell’Università di Roma TRE e con il Patrocinio del VII Municipio di Roma. Sul
Casilino 900 e sulla costruzione della casa Savorengo Ker è stata condotta una
tesi di laurea da Azzurra Muzzonigro nel 2009.
[9] Il DAST (Documento di Autorizzazione allo Stanziamento
Temporaneo) è un tesserino simile alla patente di guida, con un numero, nome,
cognome, fotografia, durata di validità, nome del campo e un codice a barre con
ulteriori informazioni come i precedenti penali, il numero dei figli e la loro
scolarizzazione. Il DAST non ha nessun valore giuridico mentre ai Rom viene
fatto credere che si tratti di un vero documento di identità. Sveva Belviso,
assessore alle Politiche Sociali del Comune di Roma, nella conferenza stampa
del 4 marzo 2009 affermava che il DAST «è una sorta di carta d’identità
comunale». Il DAST dà solo il diritto a entrare nel proprio campo e, se trovati
privi di altri documenti, a non essere rinchiusi in un CIE (Centro di
Identificazione ed Espulsione).
[10] Cfr. Francesco Careri, Metropoliz. Stazione Rom-A,
“Abitare” n° 503, 2009, pp. 94-101; Roberto De Angelis, La Metropoli(z) di
Tiziana e Florin, in Federico Scarpelli e Angelo Romano (a cura di), Voci della
città. L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma 2011, pp.185-208;
Camillo Boano, The Metropoliz Wall. The architectural dispositif as
recalibrating agent, http://blogs.ucl.ac.uk/dpublog/2011/11/28.
Sull’esperienza di Metropoliz è stato realizzato il film Space
Metropoliz di Fabrizio Boni e Giorgio De Finis nel 2011, cfr www.spacemetropoliz.com..
Gli stessi autori avevano precedentemente realizzato il documentario C’era una
volta Savorengo Ker (produzioni Irida e In Iride Sfoggio), visibile su
vimeo.com/20351544 e su Plans & Slums / Campus Rom il film Rom to Roma_ diario
nomade di Giorgio de Finis (produzioni Irida). Con lo stesso scopo di
legittimazione e comunicazione con l’esterno, è stato prodotto il film “Good
Buy Roma” di Gaetano Crivaro e Margherita Pisano, che racconta la vita meticcia
dell’occupazione di via del Porto Fluviale. http://goodbuyroma.wordpress.com
[11] Dati forniti dall’Associazione 21 luglio nel citato incontro con il
Sindaco Marino del 22 marzo 2014.
[12] L’autorecupero a Roma è normato dalla Legge Regionale n. 55 dell’
11 dicembre 1998, recante norme sull’ ” Autorecupero del patrimonio
immobiliare”. Una legge che ha sicuramente molti aspetti da migliorare ma che
consiste comunque comunque in una importante innovazione in termini di diritto
all’abitare.
[13] Per quanto riguarda l’Edilizia Residenziale Pubblica si ricorda per
altro la legge n.179 del 17 febbraio 1992 recante “Norme per l'edilizia
residenziale pubblica” il cui Art. 4. sotto il titolo "Quota di riserva
per particolari categorie sociali" asserisce che le regioni,
nell'ambito delle disponibilità loro attribuite, possono riservare una quota
non superiore al 15 per cento dei fondi per la realizzazione di interventi da
destinare alla soluzione di problemi abitativi di particolari categorie sociali
individuale, di volta in volta, dalle regioni stesse. Inoltre la Regione Lazio
con la Legge 788 del 20 febbraio 1996, nell' Art. 4.3 sotto il titolo:
“Programmi per categorie speciali”, menziona esplicitamente i Rom e assegna una
quota di ERP a loro destinata, pari all' 11% (Delibera 1105 del 1995).
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