22/08/14

Rom(A) after Apartheid

Roma: l’abitare dei Rom dopo l’apartheid dei campi
di Francesco Careri *
Scritto in occasione del Convegno Italia Romanì organizzato dall'Associazione 21 luglio il 3-4-5 Aprile 2014

La seguente relazione ha tre obiettivi principali[1]:
1 - riportare il tema dell’abitare dei Rom dei Sinti e dei Camminanti[2] all’interno dell’abitare di tutti e quindi tra le competenze dell’urbanistica, e non dei servizi sociali e delle prefetture;
2 - far comprendere che il numero dei Rom è estremamente esiguo e che una soluzione alternativa ai campi etnici è più facilmente percorribile di quanto non si creda;
3 - proporre un ventaglio di strade differenziate percorribili da subito.


Bombe. Le immagini dicono spesso molto di più delle parole. Con il Laboratorio di Arti Civiche dell’Università di Roma Tre abbiamo elaborato una serie di mappe che ripercorrono sinteticamente la storia e la geografia degli sgomberi dei Rom a Roma negli ultimi trent’anni. Nel farlo abbiamo deciso di far ricorso ad un simbolo, quello della esplosione della bomba, perché analizzando i risultati grafici si comprende come questa sia stata una storia di grandi sgomberi-bombe dalle cui schegge si sono formate le bombe degli anni successivi. Il processo è quasi sempre lo stesso e in ogni decennio si può riconoscere una sorta di “madre di tutti gli sgomberi” : un evento di cronaca porta all’individuazione di un campo più problematico degli altri, i media ne alimentano l’immaginario negativo, la politica lo elimina in una catarsi generale, ne sfrutta il consenso a fini elettorali e annuncia la soluzione del problema. Ai grandi sgomberi esemplari seguono infatti sempre le nuove “soluzioni” dei sindaci. Dopo Petroselli che possiamo ricordare come l’unico esempio positivo in trent’anni per avere inserito i Rom nelle case popolari di nuova costruzione, con Rutelli nel 1994 si inaugura la stagione dei campi etnici, Veltroni inventa i villaggi della Solidarietà fuori dal GRA e Alemanno li trasforma nei megacampi ultrasorvegliati di ultima generazione. Ancora oggi l’amministrazione capitolina continua a ragionare solo su campi, non si intravede nessuna politica di superamento dei campi, ma le ultime proposte sono di ristrutturazione di alcuni campi esistenti ed un passaggio dai megacampi a mediocampi.

Mappe[3]. Una crono-geografia molto sintetica di questa storia può essere cosi riassunta: 
> 1980. La maggior parte degli insediamenti censiti è nel settore sinistro del Tevere e al’interno del GRA. Il censimento è di tipo antropologico, e distingue sinti, rom abruzzesi, lovara, kaderasha, kanjaria, rudari, camminanti… Si tratta per lo più di baraccopoli di piccole e medie dimensioni, dove spesso i Rom convivono con gli altri. La prima “bomba” è al Mandrione dove dal 1936 abitavano i rom abruzzesi. Sono cittadini italiani e vengono considerati al pari degli altri baraccati, alcuni prendono casa nel nuovo quartiere di Edilizia Pubblica Residenziale di Spinaceto, alcuni Rom napoletani e Lovara al Laurentino 38, altri si spargono nel territorio creando campi che in seguito diventeranno nuove “bombe”, altri partecipano al più vasto fenomeno dell’abusivismo edilizio insediandosi nelle borgate di Romanina, Torre Angela e Torvaianica dove tutt’oggi risiedono.
> 1990. Cresce il numero degli insediamenti che oltrepassano la riva destra del Tevere verso sud, ma la maggior parte degli insediamenti è concentrata nella zona est e dentro al GRA. Comincia la realizzazione dei campi sosta attrezzati, pensati per il passaggio stagionale dei Rom italiani: Salviati, Tor de’ Cenci, Martora, Gordiani, Barbuta e Lombroso. Ma arriva la prima ondata migratoria dovuta alla guerra dei Balcani. In occasione del Giubileo scoppia la “bomba” del Casilino 700, che una volta sgomberato viene diviso tra i campi di Salviati, Arco di Travertino, la Barbuta, Casilino 900, Candoni e Ponte Mammolo.
> 2000. I grandi sgomberi di Veltroni sono quelli di Vicolo Savini e Villa Troili, che danno vita a campi sempre più grandi e sempre più lontani: Castel Romano, Cesarina, Salone, Camping River. Sopraggiunge una nuova ondata migratoria proveniente dalla Romania e dall’Est della nuova Europa, che si insedia soprattutto in baraccopoli sparse e sgomberate di continuo.
> 2010. Le ultime grandi bombe sono la grande baraccopoli del Casilino 900 e il campo attrezzato di Tor de Cenci, i cui abitanti sono deportati nei grandi villaggi veltroniani saturandone ogni spazio libero pensato per la socializzazione. Il Piano Nomadi di Alemanno prevede un numero chiuso a 6.000 persone da dividere in 13 campi sempre più grandi, sempre più lontani, sempre più costosi. Il modello proposto è quello del campo della Barbuta al confine con Ciampino.

Concentramento[4]. Abbiamo disegnato un grafico per mostrare come varia, dal 1995 al 2010, il numero delle persone (linea rossa) in relazione al numero dei campi (linea blu). Si vede come la popolazione censita rimane stabile intorno ad un numero di circa 6000 persone mentre il numero dei campi scende dai 49 del 1995 fino ai 13 proposti dal piano nomadi di Alemanno. Si assiste quindi ad un vero e proprio “concentramento” della stessa popolazione in un numero sempre più piccolo di campi sempre più affollati. “Concentramento” non è quindi un aggettivo esagerato da attivista dei diritti umani, ma un dato semplicemente statistico-demografico: si sta concentrando una sola etnia in campi sempre più sorvegliati e sempre più lontani dal centro e quindi dalla vista e dal controllo democratico. Ed il concentramento è ancora più “etnico” di quello dei campi di sterminio della seconda guerra mondiale che era per lo meno multietnico, dove i Rom convivevano con gli Ebrei, i comunisti e gli omosessuali. Per i Rom si sta costruendo un a vera e propria città a-parte, un apartheid non dichiarato che fa della separatezza culturale ed etnica la sua base ideologica. Dalla sola lettura di questi dati è evidente che si sta andando verso una prospettiva di non ritorno e che è assolutamente urgente una inversione di rotta.

Esplorazioni[5]. Oltre alla raccolta dati ed alla restituzione cartografica è utile riportare sinteticamente una serie di esperienze condotte a Roma insieme a Stalker tra il 2007 e il 2010, una vera immersione nella questione abitativa dei rom e nelle sue diverse declinazioni. Dopo una lunga relazione con i Rom Calderasha del mattatoio di Testaccio, nel 2007 con Stalker e con il Corso di Arti Civiche partiamo per una indagine sull’abitare informale, camminando lungo i due argini del Tevere per comprendere il fenomeno delle baraccopoli fluviali[6]. Dalla foce, risalendo il fiume fino a Prima Porta, abbiamo incontrato circa 50 insediamenti per una popolazione di circa 1800 persone. E il dato più interessante è che non erano abitati esclusivamente da Rom, come eravamo portati a credere dai media. La mappa del percorso ci mostra insediamenti multiculturali con più di 15 nazionalità differenti in cui i rom a volte convivevano con albanesi, rumeni, polacchi, nigeriani, filippini e anche una diversi italiani impoveriti dalla crisi economica e abitativa.
Nel 2008 abbiamo invece affittato nove camper e siamo andati a studiare da vicino il modello istituzionale dei campi tollerati, semiattrezzati ed attrezzati. Tra questi il prototipo di villaggio della solidarietà di Castel Romano, nato direttamente dal gabinetto del Sindaco Veltroni, che in foto aerea ha una forma tristemente nota alla nostra cultura europea, è l’immagine di un vero e proprio campo di concentramento. Siamo quindi partiti per i Balcani per visitare le case da dove provengono i Rom di Roma, e per studiare le metodologie di slum upgrading con cui opera l’agenzia delle Nazioni Unite UN-Habitat a Belgrado. Abbiamo visto case normali, difficilmente distinguibili dalle altre case dei gagè, inserite in una società cosmopolita in cui i Rom sono solo uno dei gruppi culturali tra i tanti. E abbiamo visto gli slums in cui UN-Habitat opera portando fogne, acqua, elettricità cercando di legalizzare e collegarle al tessuto urbano ciò che è sorto spontaneamente, trasformando gli slums in quartieri.[7]
Sulla base di queste esperienze, con gli studenti attraverso i corsi universitari di progettazione abbiamo esplorato diverse ipotesi, immaginando diverse soluzioni abitative di slum upgrading, di autorecupero e di nuova costruzione. Alla Triennale di Milano abbiamo infine portato una serie di proposte dalla scala europea a quella comunale: passaporto europeo transazionale per la più grande minoranza culturale europea; inserimento dei rom nella legge sulle minoranze italiane, chiudere i campi nomadi, sperimentare l’autocostruzione assistita.

Casilino 900[8]. In questi anni il nostro caso studio principale è stato il Casilino 900 dove si erano stanziati, riproducendo la balcanizzazione di provenienza, circa mille persone provenienti da Bosnia, Montenegro, Kossovo e Macedonia. Dopo un attento e approfondito studio degli usi e delle tipologie residenziali decidiamo di avviare un cantiere di autocostruzione con i migliori “architetti” del campo: Savorengo Ker, la casa di tutti è il frutto di questa esperienza che ha dato vita anche ad un film ed alla partecipazione alla Biennale di Venezia di Architettura. La casa è un manifesto condiviso che dice: siamo Rom, non siamo nomadi, vogliamo la casa, e se assistiti da un supporto tecnico, normativo e legale, la possiamo costruire anche da soli con un enorme risparmio economico. L’idea è quella di trasformare il campo in quartiere multiculturale facendo posto anche ad altre famiglie in emergenza abitativa, a studenti e giovani coppie. Un manifesto troppo avanzato per il contesto sociale e politico che vede per i Rom ancora solo e soltanto baraccopoli o campi di concentramento etnici. La casa viene incendiata da ignoti dopo essere stata ostacolata dai media e dalle istituzioni che a tutti i livelli e con ogni mezzo hanno cercato di impedirne l’utilizzo. L’opinione pubblica, la politica e le istituzioni non intendono dare una risposta in quella direzione. Il Casilino 900 viene sgomberato e traslocato nei campi di ultima generazione che il sindaco Alemanno sta riorganizzando, saturando ogni spazio ancora libero dei campi veltroniani. Vengono messe alte recinzioni con guardiania armata e telecamere a circuito chiuso, orari di ingresso e di uscita, e viene inventato il DAST[9], un tesserino di riconoscimento con numero, codice a barre e microchip contenenti grandi quantità di informazioni anche giudiziarie su ogni abitante del campo.

Città Meticcia[10]. Nel 2009 accade un fatto nuovo. In una fabbrica abbandonata sulla Prenestina nasce Metropoliz dove circa 100 rom partecipano all’occupazione e si inseriscono nel più complesso fenomeno delle occupazioni abitative che a Roma conta più di 50 stabili occupati ed una popolazione di circa 8.000 persone. I Blocchi precari Metropolitani insieme a Popica Onlus propongono un modello nuovo di Città Meticcia in cui i Rom si affiancano gli altri cittadini senza diritti e senza casa per reclamare il diritto alla città. Si tratta della prima soluzione non monoetnica che nasce a Roma dopo le case popolari di Petroselli. Oggi nelle nuove occupazioni i rom sono sempre più mescolati agli altri e non si distingue più, come nel caso di Metropoliz, se si tratti di occupazione inclusiva dei rom oppure no. I Rom in questi contesti non sono più un caso separato. Crediamo che da questo modello informale l’urbanistica cittadina abbia molto da imparare.

Situazione. A questo punto proviamo a tirare un poco di somme dai dati e dalle esperienze che abbiamo fin qui raccontato. Da una parte abbiamo le proposte istituzionali che hanno tutte la caratteristica di essere tutte monoetniche: campi autorizzati, tollerati, attrezzati, semiattrezzati (fino al 1994); Campi, Villaggi, Megacampi, (anni 1994 - 2014), fino ai C.E.R - Centri Emergenza Rom, ai Centri di Raccolta per Rom alle Best House Rom (2010-2014). Dall’altra parte ci sono delle proposte alternative non istituzionali che hanno la caratteristica di essere multietniche: Autocostruzione Assistita Interculturale (Savorengo Ker); Occupazione Abitativa Meticcia (Metropoliz). Quello che si deve imparare dagli ultimi trent’anni è che spostare il problema da una parte all’altra della città non risolve il problema ma anzi lo acuisce: che la soluzione campo genera sempre maggiore esclusione, povertà, dipendenza, assistenzialismo, costi sociali ed economici; che la soluzione monoetnica non funziona e non appartiene ai Rom, che infatti nelle baraccopoli e nelle occupazioni sanno convivere con gli altri; che il tema della diversa cultura abitativa dei Rom è un terreno scivoloso, ha inventato e prodotto da venti anni la nuova cultura abitativa del campo e ripropone il campo sotto i diversi nomi di microarea, piccolo campo, medio campo etc.; che invece di concentrare bisogna polverizzare il problema in una miriade di soluzioni sparse in tutto il territorio.
Con la consapevolezza che la Soluzione con la maiuscola non c’è, ma che ci sono molte strade a disposizione, tutte ancora da percorrere, proviamo di seguito ad avanzare alcune proposte per il superamento dei campi a Roma. Proposte che devono variare, sapendo che ad ogni contesto va trovata una propria risposta e che all’interno di ogni contesto e di ogni famiglia ci sono diverse risposte in base a differenziati stati di consapevolezza e di evoluzione del proprio modello abitativo. E sapendo anche che i desideri abitativi devono fare i conti con le opportunità e le disponibilità che offre il contesto sociale, economico e politico in questo momento storico ed in questo contesto geografico. Oggi i Rom ci dicono di voler uscire dai campi, di abitare nelle case e di inserirsi in una società multiculturale. Sicuramente dieci anni fa non ci dicevano le stesse cose e nel cercare le soluzioni sono stati commessi molti errori amche sulla base dei desiderata di quel momento, e probabilmente tra dieci anni le proposte che faranno i Rom saranno ancora altre. Sicuramente si commetteranno ancora alcuni errori, ma è veramente giunto il tempo di sbagliare nell’unica direzione giusta, quella che metterà fine all’apartheid dei campi.

Proposte. Oggi a Roma vivono 7.800 persone nei villaggi attrezzati equivalenti a circa 1.200 famiglie, 800 persone nei campi tollerati, 350 persone in Best House Rom, un numero indefinito in 16 grandi baraccopoli e decine di mini-insediamenti familiari. Il totale si aggira intorno a 10.000 persone.[11] La maggior parte dei campi è su terreni che il piano regolatore attribuisce ad attrezzature per “servizi” come scuole, biblioteche, campeggi etc., nessuno in quelle aree “residenziali”, dove risiedono gli altri abitanti della città. Questo deriva dalle “buone” intenzioni dei primi campi pensati come aree sosta per popolazioni girovaghe italiane ma poi abitati dai profughi delle guerre balcaniche che nomadi non erano, cui si è sovrapposta poi la retorica delle culture abitative, sempre pensate come tradizioni immutabili e statiche e mai anche individuali ed in trasformazione, come sono piuttosto quelle dei Rom e anche dei Gadjè. Non è più ipotizzabile immaginare una unica soluzione del problema ma invece una pluralità di interventi a differenti livelli, dall’intera comunità alla famiglia allargata, al singolo nucleo alle scelte individuali.
Un ventaglio di proposte a consumo di suolo zero, cioè senza costruire ulteriori insediamenti in terreni attualmente liberi dall’edificazione, è il seguente:
a - accompagnamento individuale fuori dal campo con un contributo temporaneo per l’affitto di case a libero mercato sotto garanzie comunali.
b - autorecupero di edifici dismessi o sequestrati alla criminalità, percependo gli elementi positivi ed innovativi provenienti dal modello delle occupazioni abitative e della Città Meticcia.[12]
c - interventi di Slum Upgrading ed autocostruzione assistita in alcune baraccopoli ancora superstiti, trasformandole in toponimi come è stato fatto per le borgate abusive degli anni ottanta, fornendo quindi infrastrutture e implementando la popolazione in termini interculturali.
d - trasformazione radicale degli attuali campi - i più centrali e inseriti in un contesto urbano - in condomini interculturali aumentandone la densità e la mixitè anche attraverso tipologie abitative verticali.
e - inserimento in Edilizia Residenziale Pubblica[13] risolvendo l’annoso problema dell’equiparazione dello sgombero allo sfratto per ottenere vantaggi nel punteggio delle graduatorie di accesso alla casa.
f - sperimentare soluzioni miste tra formale e informale per chi abita la città solo stagionalmente, per chi vuole rimanere in una condizione di famiglia allargata, per chi sa di non avere una economia che gli permetterebbe di sostenersi né nel libero mercato né nell’edilizia pubblica.

Queste proposte non vogliono essere un nuovo Piano Nomadi per Roma. La più grande rivoluzione sarebbe quella di trattare i Rom come gli altri cittadini, far ritornare il loro abitare nell’abitare di tutti, far ritornare le loro case nel campo dell’urbanistica civile e non nelle attrezzature fornite dai servizi sociali.




* Francesco Careri è cofondatore di Stalker, ed è attualmente ricercatore presso il Dipartimento di Architettura Roma Tre dove dirige il LAC_Laboratorio Arti Civiche. Sito web www.articiviche.net, mail: careri.francesco@gmail.com.
[1] Questo testo, presentato in occasione del convegno, è la riscrittura della relazione presentata il 22 marzo 2014 in Campidoglio in occasione di un incontro a porte chiuse organizzato dall’Associazione 21 Luglio alla presenza de Sindaco di Roma Ignazio Marino del vicesindaco Luigi Nieri e di diversi assessori e consiglieri comunali.
[2] Di seguito utilizzerò solo il sostantivo Rom, in quanto nel contesto romano cui faccio riferimento non sono quasi più presenti popolazioni sinte e camminanti.
[3] Questa geografia, ancora inedita, è stata ricostruita da Giacomo Zanelli all’interno della ricerca Nomadismo e Città da me diretta in seno al Dipartimento di Studi Urbani (oggi Dipartimento di Architettura) dell’Università Roma Tre, a partire dai resoconti di Lacio Drom, la rivista del Centro Studi Zingari di Roma fondato nel 1965 da Mirella Karpati e Don Bruno Nicolini, dai censimenti ufficiali del Comune di Roma, da incontri con esperti quali il prof. Marco Brazzoduro, fotografi, giornalisti ed attivisti del contesto romano. Per una storia dei Rom a Roma cfr. Mirella Karpati, Francesca Porcari, Giorgio Viaggio, Rom A Roma, “Lacio Drom” n° 5, Roma 1986; Sergio Giovagnoli, Zingari a Roma, in Piero Brunello (a cura di), L' urbanistica del disprezzo. Società italiana e campi rom, Manifestolibri, Roma 1996.
[4] Il grafico è stato elaborato da Cecilia Sgolacchia all’interno della sua tesi di laurea “La città Rom” sostenuta nel 2010.
[5] Sulle esperienze condotte da Stalker insieme ai Rom dal 1999 al 2009 cfr. Francesco Careri e Lorenzo Romito, Roma, una città senza case, un popolo senza terra, in Aldo Bonomi (a cura di), La Vita Nuda, Triennale Electa, Milano 2008, pp. 105-115; Lorenzo Romito, Oltre i campi. Note per una politica integrata di emancipazione abitativa, civile, culturale, economica e sociale dei Rom in Italia, a partire dal superamento dei campi nomadi, «Roma Time»,  5, 2009 (dropbox.com/u/4394790/compl.pdf). «Roma Time» è un giornale di viaggio stampato solo in fotocopia, uscito in 7 numeri tra il 2007 e il 2009, curato da Stalker e DIPSU. Raccoglie diversi materiali che attraversano l’esperienza di Stalker.
[7] Cfr. Vladimir Macura, Housing, urban planning and poverty: problems faced by Roma/Gypsies communities with particular references to central and eastern Europe, CDMG, Consiglio d'Europa, Strasbourg 1999 e Inclusion of Roma population through housing and settlements improvement, in Four strategic themes for housing policy in Serbia, UN Habitat, SIRP, Belgrade 2006, pp. 26-45.
[8] Savorengo Ker / la casa di tutti è un progetto di Stalker Osservatorio Nomade, delle Comunità Rom del Casilino 900 e del DIPSU Dipartimento di Studi Urbani. Realizzato con il sostegno di: Nomadismo e città. Abitare informale, campi rom e ricoveri occasionali, letti attraverso le pratiche e le esperienze dell’arte pubblica, Fondi di Ricerca del DIPSU – Dipartimento di Studi Urbani dell’Università di Roma TRE e con il Patrocinio del VII Municipio di Roma. Sul Casilino 900 e sulla costruzione della casa Savorengo Ker è stata condotta una tesi di laurea da Azzurra Muzzonigro nel 2009.
[9] Il DAST (Documento di Autorizzazione allo Stanziamento Temporaneo) è un tesserino simile alla patente di guida, con un numero, nome, cognome, fotografia, durata di validità, nome del campo e un codice a barre con ulteriori informazioni come i precedenti penali, il numero dei figli e la loro scolarizzazione. Il DAST non ha nessun valore giuridico mentre ai Rom viene fatto credere che si tratti di un vero documento di identità. Sveva Belviso, assessore alle Politiche Sociali del Comune di Roma, nella conferenza stampa del 4 marzo 2009 affermava che il DAST «è una sorta di carta d’identità comunale». Il DAST dà solo il diritto a entrare nel proprio campo e, se trovati privi di altri documenti, a non essere rinchiusi in un CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione).
[10] Cfr. Francesco Careri, Metropoliz. Stazione Rom-A, “Abitare” n° 503, 2009, pp. 94-101; Roberto De Angelis, La Metropoli(z) di Tiziana e Florin, in Federico Scarpelli e Angelo Romano (a cura di), Voci della città. L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma 2011, pp.185-208; Camillo Boano, The Metropoliz Wall. The architectural dispositif as recalibrating agent, http://blogs.ucl.ac.uk/dpublog/2011/11/28.
Sull’esperienza di Metropoliz è stato realizzato il film Space Metropoliz di Fabrizio Boni e Giorgio De Finis nel 2011, cfr www.spacemetropoliz.com.. Gli stessi autori avevano precedentemente realizzato il documentario C’era una volta Savorengo Ker (produzioni Irida e In Iride Sfoggio), visibile su vimeo.com/20351544 e su Plans & Slums / Campus Rom il film Rom to Roma_ diario nomade di Giorgio de Finis (produzioni Irida). Con lo stesso scopo di legittimazione e comunicazione con l’esterno, è stato prodotto il film “Good Buy Roma” di Gaetano Crivaro e Margherita Pisano, che racconta la vita meticcia dell’occupazione di via del Porto Fluviale. http://goodbuyroma.wordpress.com
[11] Dati forniti dall’Associazione 21 luglio nel citato incontro con il Sindaco Marino del 22 marzo 2014.
[12] L’autorecupero a Roma è normato dalla Legge Regionale n. 55 dell’ 11 dicembre 1998, recante norme sull’ ” Autorecupero del patrimonio immobiliare”. Una legge che ha sicuramente molti aspetti da migliorare ma che consiste comunque comunque in una importante innovazione in termini di diritto all’abitare.
[13] Per quanto riguarda l’Edilizia Residenziale Pubblica si ricorda per altro la legge n.179 del 17 febbraio 1992 recante “Norme per l'edilizia residenziale pubblica” il cui Art. 4. sotto il titolo "Quota di riserva per particolari categorie sociali" asserisce che le  regioni, nell'ambito delle disponibilità loro attribuite, possono riservare una quota non superiore al 15 per cento dei fondi per la realizzazione di interventi da destinare alla soluzione di problemi abitativi di particolari categorie sociali individuale, di volta in volta, dalle regioni stesse. Inoltre la Regione Lazio con la Legge 788 del 20 febbraio 1996, nell' Art. 4.3 sotto il titolo: “Programmi per categorie speciali”, menziona esplicitamente i Rom e assegna una quota di ERP a loro destinata, pari all' 11% (Delibera 1105 del 1995).

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