c'è anche il mio articolo che segue:
FRANCH AND ENGLISH TEXT ON
http://additionaldocument.org/2/#2/24.4/10.5
Glossaire Stopscapes
di Francesco Careri
Dopo tanto camminare da qualche tempo ho cominciato a riflettere sul
fermarsi e su un possibile prossimo libro che potrebbe avere questo titolo: Stopscapes. Il fermarsi come pratica
estetica. Cosa produce il fermarsi? Cosa induce a fermarsi? Come si sceglie
il luogo in cui fermarsi? Quando arriva il Tempo del fermarsi? Esiste un archetipo
del fermarsi? Esistono artisti che del fermarsi fanno la loro pratica poetica? Sono
una serie di questioni che avevo affrontato scrivendo Walkscapes e che rimangono ancora aperte soprattutto se le si
trasla sulla durata, dalla pausa di un momento del camminare nomade a quello di
uno stop prolungato, quasi sedentario. Il camminare sembrava esprimere una
natura antiachitettonica e quindi raccontare il camminare in quanto
architettura era un concetto che doveva essere costruito e argomentato, nel
fermarsi invece la relazione con l’architettura sembrerebbe più facile e
diretta: quando ci si ferma nascerebbe l’architettura. Nel prossimo libro vorrei
invece provare a prolungare anche nel fermarsi un modo nomade di approcciare al
tema.
Camminare e fermarsi non come termini in contraddizione tra loro, ma come
parte di uno stesso processo. Vista in questa ottica il fermarsi è una
grande opportunità per continuare ad agire con lo stesso spirito dell’andare ma in uno spazio dello stare. Siamo insomma abituati a ragionare
su uno spazio naturalmente “da fermi” ma senza la consapevolezza che quello
stare fermi è in una instabile relazione con l’andare. Se si è fermi, è perché
prima si stava camminando.
Fermarsi è il momento conclusivo di molte opere d’arte, o almeno di tutte
quelle “compiute”. E anche in questi casi il "quando fermarsi" è una pratica estetica tutta da imparare. Lo impariamo già da bambini quando, facendo un bel disegno, lo continuiamo finché non abbiamo pasticciato tutto il
foglio e lì ci accorgiamo che non si può più tornare indietro. Allo stesso modo un
ultimo colpo dato al marmo può mandare in frantumi la scultura, e una parola di
troppo in un dialogo cinematografico fa scivolare nella banalità l’intero film.
Ma non è questo il luogo in cui mi volevo addentrare: ogni operazione creativa
cammina su un crinale sottile dove si può continuamente scivolare da una parte
o dall'altra della montagna.
Per chi invece compie opere non che non hanno la fisicità degli oggetti e
che non sono mai “finite” come il camminare, e che quindi rimangono perennemente
“incompiute”, una riflessione sul fermarsi richiede pensieri ulteriori. Si può
rovinare una camminata rendendola troppo lunga o troppo corta, troppo monotona
e noiosa o troppo distratta e leggera e cosi via. Ma quello che non ci si
perdona è se nella camminata ci siamo persi qualcosa, se per seguire la nostra
rotta non abbiamo dato il giusto ascolto ai richiami del dirottamento, non ci
siamo messi nella condizione di non camminare e di fermarci.
Non ho una teoria da proporre, o almeno non ancora, ma da quando ragiono
sul fermarmi e cerco di comunicarlo, mi trovo ad
utilizzare una serie di parole. Molte di queste hanno nel tempo mutato il loro
significato, si sono consumate o sono state logorate da usi impropri, ma è
anche successo che altre prima insignificanti, sono diventate sempre importanti
nella mia pratica di artista, di professore e di architetto. Le parole che
seguono certamente non sono da intendersi come una ricetta per l’arte del fermarsi,
ma semmai ingredienti con cui cucinare piatti diversi e che ci possono aiutare
in questo passaggio di stato, dal camminare al fermarsi.
Metodologia. Parola
che ho sempre evitato, aggirandola con “modalità”, “attitudine” o “pratica”. Mi
è sempre risuonata come qualcosa di dogmatico, statico, poco interpretabile,
poco malleabile. L’esatto contrario del “come avviene” il mio lavoro e del
“come lo faccio succedere”. Poi Paola Berenstein Jacques me ne ha ricordato l’etimologia:
“metodo” deriva dal greco methòdos (metà = dopo, per, e hòdos = via, cammino): “dopo il cammino”, ma anche “attraverso il
cammino”. La metodologia appartiene indiscutibilmente al camminare, la si
costruisce “lungo la via”, “nell'andare” e il metodo lo si comprende “nel
mentre si sta procedendo”. Una metodologia del fermarsi non possiamo costruirla che nel camminare e fermarci.
Progetto. La stessa
riluttanza, per le stesse ragioni, l'ho sempre provata anche per la parola
“progetto”. Mi hanno insegnato che significa un prodotto finito e pronto per
essere eseguito, un disegno esecutivo, uno spartito in cui non c’è spazio per
l’improvvisazione, un processo determinato una volta per tutte. Ma l’esperienza
insegna che sia il metodo che il progetto possono essere e rimanere
indeterminati, si sviluppano nel cammino. Questo è la base del perdersi
cosciente nell’esplorazione urbana, ma anche come pratica del produrre trasformazioni
materiali e immateriali, come un’opera d’arte, un’architettura o una ricerca.
Indeterminato. Come si
fa un progetto indeterminato? Intanto sia l’autore che il progetto devono
essere pronti ad accogliere gli incidenti di percorso se non addirittura
causarli o andarli a cercare. Se il progetto predeterminato non prevede
ulteriori relazioni con il contesto perché pensa di averle già incorporate
tutte, il progetto indeterminato è invece completamente contestuale,
relazionale e imprevedibile. Avanza cambia direzione e si ferma repentinamente
e senza preavviso. Abbandona le certezze della posizione raggiunta e punta ad
andare là dove il vento è più forte, dove il mare è increspato dalle raffiche, mette
l’ancora e si ferma dove trova qualcosa di inaspettato. Il progetto
indeterminato si può permettere di correggere la rotta inaspettatamente, di
virare e anche di fermarsi. Non sa nulla dei suoi risultati ed è per sua natura
incompiuto.
Non si
torna indietro. Dovunque siamo finiti si deve andare avanti sapendo
di trovare una via di uscita. Per esperienza c’è sempre un modo per non tornare
indietro sui propri passi e per andare oltre, un buco nella rete, un muro da
scavalcare, una porta che si apre. Si sa che chi cammina non ama riavvolgere il
filo del percorso a ritroso come in una bobina. Ma ance se dovesse succedere
non ci si deve perdere d’animo: il cammino inverso guarda un altro paesaggio,
l’atmosfera è cambiata, forse a quest’ora si incontra qualcuno che prima non
c’era. Forse è possibile che accada finalmente l’inciampo.
Inciampare. Nel
camminare indeterminato si deve procedere in modo strabico, con un occhio alla
rotta ed un altro a tutto ciò che ti dirotta. Una cosa tutta da imparare è il mettersi
in grado di inciampare in zone dove il progetto non ti avrebbe mai potuto
portare. Renderci disponibili al trovarci spaesati in situazioni inaspettate e
anche di pericolo. Le zone di inciampo sono quelle in cui arriva l’imprevisto e
si deve abbandonare la rotta prestabilita, ma sono anche quelle in cui è bene
mettere le tende. Sono i luoghi dove decidere di fermarsi a perder tempo.
Perder Tempo
= Guadagnare Spazi. Si sa che chi cammina dandosi una meta ed un tempo
definito perde ogni possibilità offerta dalla deriva. Sapersi perdere porta con
sé una grande dispersione di energie e di tempo. È solo perdendo tempo che si
guadagnano Spazi Altri. Se il Tempo non è più un problema, come per i nomadi, si
arriva ad esplorare zone mai disegnate sulle mappe terrestri, si incontrano
specie mai annoverate nel genere umano. Solo perdendo tempo si può avere un
incontro con l’Altro e con l’Altrove.
L’Altro. Una buona
ragione per fermarsi è che si è giunti ad incontrate l’Altro. È un momento
importante che la Bibbia mette subito dopo la divisione in nomadi e sedentari.
Caino, una volta punito da Dio per il suo peccato fratricida, si deve incammina
errante nei deserti dove prima gironzolava Abele. E Caino ha una sola paura:
incontrare l’Altro. La prima volta che ha avuto un conflitto con l’Altro, suo
fratello, lui lo ha ucciso. Dio gli insegna quindi una metodologia: il saluto
non-belligerante, procedere con le mani alzate, mostrare di non portare armi, il
simbolo del Ka e dell’eterna erranza.
Per incontrare l’altro bisogna inventarsi una metodologia.
Partecipazione. Parola consumata e da evitare con
cura. Nasconde trappole ed ambiguità. È spesso usata in modo demagogico,
soprattutto da architetti urbanisti e politici che l’hanno trasformata in pura
creazione di consenso per i loro progetti. Pretende che gli Altri debbano
partecipare a un progetto partecipativo, per difendere quel che resta della
loro liberà messa in pericolo proprio da quel progetto. La grande moda della partecipazione
nasce infatti in epoca neoliberista, prima si chiamava democrazia. Oggi anche i
territori dell’Altrove chiedono leggi e regolamenti sulla partecipazione,
alimentando la produzione di nuove figure professionali, i facilitatori, gli
esperti della partecipazione. Il difficile della partecipazione non è scegliere
la giusta metodologia da utilizzare per far partecipare gli Altri al proprio
progetto, ma capire qual è il progetto che gli Altri hanno già attivato e, se
si è d’accordo, parteciparvi.
Attivare processi. Chi ha compreso che le parole
progetto e partecipazione hanno cominciato a perdere appeal comincia a
presentarsi all’Altro come attivatore di
processi. Anche queste sono parole che vanno smascherate. È molto difficile
che degli esterni siano in grado di attivare veramente processi duraturi nel
tempo. Spesso questo genere di processi si concludono con le foto di rito di un
banchetto o di una grande assemblea che poi non avrà più seguito. Mi sembra più
onesto allora proporsi come esploratore
desiderante di processi in atto. È più onesto e progettuale partecipare a
un processo in corso e alimentarlo apportandovi energia. Ci sono più speranze
che continui anche dopo la nostra uscita dal campo di gioco.
Prendersi cura. Un buon criterio di scelta per trovare
in territorio in cui fermarsi per partecipare al suo processo ed allo stesso
tempo garantirsi una continuità dopo la dipartita, è sceglierlo dove si
intuisce che il terreno è fertile. Se portiamo con noi dei semi è bene piantarli
dove qualcuno possa innaffiare, trasformare lo spazio laddove qualcuno si
prenderà cura delle opere lasciate. Se
si vuole partecipare alla sua trasformazione con delle azioni architettoniche,
è bene scegliere il luogo in base alla presa in cura delle architetture che si
producono.
Terreni
di gioco. Con l’Altro non bisogna creare aspettative ed è bene anche non averne. È
bene anche non proporsi come esperto dei suoi problemi , ma anzi come una
persona che forse ha dei problemi. Un buon modo che non mette paura e che ci fa
alzare le mani in un gesto preventivo di arresa è il proporsi come artista:
presentarsi in modo non-funzionale, ludico, definitivamente inutile ed innocuo.
Una volta inciampati in un buon terreno costruire le condizioni perché si
sprigioni l’attività creativa: disegnare insieme il campo di gioco. Cominciare
a giocare ed invitare l’Altro al gioco. Scegliere i personaggi, i giocatori,
individuare le persone che hanno il desiderio di mettersi in gioco sfidando il
pregiudizio atavico degli altri abitanti. Lasciare che siano loro a trovare
altri giocatori seguendo le proprie relazioni e poi inserire anche nel loro
piano dei diversivi. Anche le regole del gioco devono essere metodologicamente
incomprensibili ed indeterminate. Questo passaggio crea sempre problemi.
Provocare. Non è necessario entrare in punta
di piedi nell’Altrove né essere sempre accondiscendenti e acritici con l’Altro
se vogliamo produrre un’interazione creativa. Anzi spesso se non si vogliono
ottenere risultati scontati e banali è bene saper provocare e spostare
costantemente la posizione dell’Altro insieme alla nostra. Si può anche rischiare
di provocare qualche piccola ferita ma deve essere tale da non compromettere la
fiducia, e da non ricevere in cambio ferite più grandi. Ma è bene essere anche
un po’ maleducati se volgiamo che l’altro reagisca togliendosi la maschera e
cominci a giocare con noi in uno spazio non protetto. L’Altro e l’Altrove si
nascondono spesso sotto uno strato di banalizzazione. L’arte sta nel saper
andare là dietro.
Spostare. Spostare
il punto di vista e le convenzioni da cui si pensano le cose è in fondo la più feconda
delle trasformazioni che possiamo operare. Spostare costantemente i desideri le
aspettative, le paure i pregiudizi. Mettere fuori posto, muovere muri, aprire
buchi, costruire ponti mettere in relazione luoghi e persone che prima non
comunicavano. Una volta compreso che tutto si sposta costantemente, anche le
parole, allora appare chiaro che camminare possono essere approcciati con una
stessa mente nomade. Possiamo fermarci in un posto dove tutto continuerà a
spostarci e dove possiamo contribuire ai suoi microspostamenti.
Corpo. Finalmente abbiamo la consapevolezza
di avere con noi un tempo, ed uno spazio altri ed in perpetuo movimento. Ora è
bene sapere che in questo nuovo sistema spazio-temporale noi siamo corpo. È come
fare il morto a galla quando ci distendiamo supini nel silenzio dell’acqua. Ora,
dove prima non sentivamo nulla, percepiamo intorno a noi l’acqua, ed è una
sensazione tattile diffusa su tutto il corpo, una sensazione acustica che ci fa
sentire il respiro dei polmoni risuonare nel liquido in cui siamo immersi.
Chiudiamo gli occhi e siamo solo corpo. Anche in questa dimensione cominciamo
ad avere la consapevolezza che tutto quello che potrà succedere in seguito
dipenderà dal nostro corpo. Camminare, faticare, sudare, ferirsi nei rovi ma
anche spostare pietre allinearle e poi inventare utensili. Costruire lo spazio
intorno a noi come produzione esterna del nostro corpo.
One to One. È il corpo a corpo con la città. Non
si può conoscere lo spazio se non attraversarlo con il nostro corpo, non si può
cominciare a trasformarlo “in situ” se non a partire di nuovo dal corpo, dalle
relazioni che crea la sua presenza, dagli oggetti che può utilizzare e
costruire. Il fermarsi implica un mondo di prossimità in espansione dal corpo
verso l’infinito. Il mondo diventa un cantiere permanente di “ri-crea-zione”
del corpo, un luogo di creazione, di azione e di trasformazione comune. Il
paesaggio si trasforma in azioni gomito a gomito, passandosi i chiodi il
trapano e il martello. Chi costruisce il proprio spazio perderà il tempo per
prendersene cura.
Salutare. Oltre ad
imparare come fermarsi nell’Altrove è anche fondamentale saper ripartire,
ritualizzare l’uscita dal campo di gioco, salutare l’Altro ed andare via con un
arrivederci e mai un addio.
Fine. … Lasciare
sempre aperto il finale …
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