22/08/14

Glossaire Stopscapes @ ADDITIONALDOCUMENT

Il secondo numero della bellissima rivista on line Additional Document è interamente dedicato al camminare.
c'è anche il mio articolo che segue:


FRANCH AND ENGLISH TEXT ON
http://additionaldocument.org/2/#2/24.4/10.5

Glossaire Stopscapes
di Francesco Careri

Dopo tanto camminare da qualche tempo ho cominciato a riflettere sul fermarsi e su un possibile prossimo libro che potrebbe avere questo titolo: Stopscapes. Il fermarsi come pratica estetica. Cosa produce il fermarsi? Cosa induce a fermarsi? Come si sceglie il luogo in cui fermarsi? Quando arriva il Tempo del fermarsi? Esiste un archetipo del fermarsi? Esistono artisti che del fermarsi fanno la loro pratica poetica? Sono una serie di questioni che avevo affrontato scrivendo Walkscapes e che rimangono ancora aperte soprattutto se le si trasla sulla durata, dalla pausa di un momento del camminare nomade a quello di uno stop prolungato, quasi sedentario. Il camminare sembrava esprimere una natura antiachitettonica e quindi raccontare il camminare in quanto architettura era un concetto che doveva essere costruito e argomentato, nel fermarsi invece la relazione con l’architettura sembrerebbe più facile e diretta: quando ci si ferma nascerebbe l’architettura. Nel prossimo libro vorrei invece provare a prolungare anche nel fermarsi un modo nomade di approcciare al tema.
Camminare e fermarsi non come termini in contraddizione tra loro, ma come parte di uno stesso processo. Vista in questa ottica il fermarsi è una grande opportunità per continuare ad agire con lo stesso spirito dell’andare ma in uno spazio dello stare. Siamo insomma abituati a ragionare su uno spazio naturalmente “da fermi” ma senza la consapevolezza che quello stare fermi è in una instabile relazione con l’andare. Se si è fermi, è perché prima si stava camminando.
Fermarsi è il momento conclusivo di molte opere d’arte, o almeno di tutte quelle “compiute”. E anche in questi casi il "quando fermarsi" è una pratica estetica tutta da imparare. Lo impariamo già da bambini quando, facendo un bel disegno, lo continuiamo finché non abbiamo pasticciato tutto il foglio e lì ci accorgiamo che non si può più tornare indietro. Allo stesso modo un ultimo colpo dato al marmo può mandare in frantumi la scultura, e una parola di troppo in un dialogo cinematografico fa scivolare nella banalità l’intero film. Ma non è questo il luogo in cui mi volevo addentrare: ogni operazione creativa cammina su un crinale sottile dove si può continuamente scivolare da una parte o dall'altra della montagna.
Per chi invece compie opere non che non hanno la fisicità degli oggetti e che non sono mai “finite” come il camminare, e che quindi rimangono perennemente “incompiute”, una riflessione sul fermarsi richiede pensieri ulteriori. Si può rovinare una camminata rendendola troppo lunga o troppo corta, troppo monotona e noiosa o troppo distratta e leggera e cosi via. Ma quello che non ci si perdona è se nella camminata ci siamo persi qualcosa, se per seguire la nostra rotta non abbiamo dato il giusto ascolto ai richiami del dirottamento, non ci siamo messi nella condizione di non camminare e di fermarci.
Non ho una teoria da proporre, o almeno non ancora, ma da quando ragiono sul fermarmi e cerco di comunicarlo, mi trovo ad utilizzare una serie di parole. Molte di queste hanno nel tempo mutato il loro significato, si sono consumate o sono state logorate da usi impropri, ma è anche successo che altre prima insignificanti, sono diventate sempre importanti nella mia pratica di artista, di professore e di architetto. Le parole che seguono certamente non sono da intendersi come una ricetta per l’arte del fermarsi, ma semmai ingredienti con cui cucinare piatti diversi e che ci possono aiutare in questo passaggio di stato, dal camminare al fermarsi.

Metodologia. Parola che ho sempre evitato, aggirandola con “modalità”, “attitudine” o “pratica”. Mi è sempre risuonata come qualcosa di dogmatico, statico, poco interpretabile, poco malleabile. L’esatto contrario del “come avviene” il mio lavoro e del “come lo faccio succedere”. Poi Paola Berenstein Jacques me ne ha ricordato l’etimologia: “metodo” deriva dal greco methòdos (metà = dopo, per, e hòdos = via, cammino): “dopo il cammino”, ma anche “attraverso il cammino”. La metodologia appartiene indiscutibilmente al camminare, la si costruisce “lungo la via”, “nell'andare” e il metodo lo si comprende “nel mentre si sta procedendo”. Una metodologia del fermarsi non possiamo costruirla che nel camminare e fermarci.

Progetto. La stessa riluttanza, per le stesse ragioni, l'ho sempre provata anche per la parola “progetto”. Mi hanno insegnato che significa un prodotto finito e pronto per essere eseguito, un disegno esecutivo, uno spartito in cui non c’è spazio per l’improvvisazione, un processo determinato una volta per tutte. Ma l’esperienza insegna che sia il metodo che il progetto possono essere e rimanere indeterminati, si sviluppano nel cammino. Questo è la base del perdersi cosciente nell’esplorazione urbana, ma anche come pratica del produrre trasformazioni materiali e immateriali, come un’opera d’arte, un’architettura o una ricerca.

Indeterminato. Come si fa un progetto indeterminato? Intanto sia l’autore che il progetto devono essere pronti ad accogliere gli incidenti di percorso se non addirittura causarli o andarli a cercare. Se il progetto predeterminato non prevede ulteriori relazioni con il contesto perché pensa di averle già incorporate tutte, il progetto indeterminato è invece completamente contestuale, relazionale e imprevedibile. Avanza cambia direzione e si ferma repentinamente e senza preavviso. Abbandona le certezze della posizione raggiunta e punta ad andare là dove il vento è più forte, dove il mare è increspato dalle raffiche, mette l’ancora e si ferma dove trova qualcosa di inaspettato. Il progetto indeterminato si può permettere di correggere la rotta inaspettatamente, di virare e anche di fermarsi. Non sa nulla dei suoi risultati ed è per sua natura incompiuto.

Non si torna indietro. Dovunque siamo finiti si deve andare avanti sapendo di trovare una via di uscita. Per esperienza c’è sempre un modo per non tornare indietro sui propri passi e per andare oltre, un buco nella rete, un muro da scavalcare, una porta che si apre. Si sa che chi cammina non ama riavvolgere il filo del percorso a ritroso come in una bobina. Ma ance se dovesse succedere non ci si deve perdere d’animo: il cammino inverso guarda un altro paesaggio, l’atmosfera è cambiata, forse a quest’ora si incontra qualcuno che prima non c’era. Forse è possibile che accada finalmente l’inciampo.

Inciampare. Nel camminare indeterminato si deve procedere in modo strabico, con un occhio alla rotta ed un altro a tutto ciò che ti dirotta. Una cosa tutta da imparare è il mettersi in grado di inciampare in zone dove il progetto non ti avrebbe mai potuto portare. Renderci disponibili al trovarci spaesati in situazioni inaspettate e anche di pericolo. Le zone di inciampo sono quelle in cui arriva l’imprevisto e si deve abbandonare la rotta prestabilita, ma sono anche quelle in cui è bene mettere le tende. Sono i luoghi dove decidere di fermarsi a perder tempo.

Perder Tempo = Guadagnare Spazi. Si sa che chi cammina dandosi una meta ed un tempo definito perde ogni possibilità offerta dalla deriva. Sapersi perdere porta con sé una grande dispersione di energie e di tempo. È solo perdendo tempo che si guadagnano Spazi Altri. Se il Tempo non è più un problema, come per i nomadi, si arriva ad esplorare zone mai disegnate sulle mappe terrestri, si incontrano specie mai annoverate nel genere umano. Solo perdendo tempo si può avere un incontro con l’Altro e con l’Altrove.

L’Altro. Una buona ragione per fermarsi è che si è giunti ad incontrate l’Altro. È un momento importante che la Bibbia mette subito dopo la divisione in nomadi e sedentari. Caino, una volta punito da Dio per il suo peccato fratricida, si deve incammina errante nei deserti dove prima gironzolava Abele. E Caino ha una sola paura: incontrare l’Altro. La prima volta che ha avuto un conflitto con l’Altro, suo fratello, lui lo ha ucciso. Dio gli insegna quindi una metodologia: il saluto non-belligerante, procedere con le mani alzate, mostrare di non portare armi, il simbolo del Ka e dell’eterna erranza. Per incontrare l’altro bisogna inventarsi una metodologia.

Partecipazione. Parola consumata e da evitare con cura. Nasconde trappole ed ambiguità. È spesso usata in modo demagogico, soprattutto da architetti urbanisti e politici che l’hanno trasformata in pura creazione di consenso per i loro progetti. Pretende che gli Altri debbano partecipare a un progetto partecipativo, per difendere quel che resta della loro liberà messa in pericolo proprio da quel progetto. La grande moda della partecipazione nasce infatti in epoca neoliberista, prima si chiamava democrazia. Oggi anche i territori dell’Altrove chiedono leggi e regolamenti sulla partecipazione, alimentando la produzione di nuove figure professionali, i facilitatori, gli esperti della partecipazione. Il difficile della partecipazione non è scegliere la giusta metodologia da utilizzare per far partecipare gli Altri al proprio progetto, ma capire qual è il progetto che gli Altri hanno già attivato e, se si è d’accordo, parteciparvi.

Attivare processi. Chi ha compreso che le parole progetto e partecipazione hanno cominciato a perdere appeal comincia a presentarsi all’Altro come attivatore di processi. Anche queste sono parole che vanno smascherate. È molto difficile che degli esterni siano in grado di attivare veramente processi duraturi nel tempo. Spesso questo genere di processi si concludono con le foto di rito di un banchetto o di una grande assemblea che poi non avrà più seguito. Mi sembra più onesto allora proporsi come esploratore desiderante di processi in atto. È più onesto e progettuale partecipare a un processo in corso e alimentarlo apportandovi energia. Ci sono più speranze che continui anche dopo la nostra uscita dal campo di gioco.

Prendersi cura. Un buon criterio di scelta per trovare in territorio in cui fermarsi per partecipare al suo processo ed allo stesso tempo garantirsi una continuità dopo la dipartita, è sceglierlo dove si intuisce che il terreno è fertile. Se portiamo con noi dei semi è bene piantarli dove qualcuno possa innaffiare, trasformare lo spazio laddove qualcuno si prenderà cura delle opere lasciate. Se si vuole partecipare alla sua trasformazione con delle azioni architettoniche, è bene scegliere il luogo in base alla presa in cura delle architetture che si producono.

Terreni di gioco. Con l’Altro non bisogna creare aspettative ed è bene anche non averne. È bene anche non proporsi come esperto dei suoi problemi , ma anzi come una persona che forse ha dei problemi. Un buon modo che non mette paura e che ci fa alzare le mani in un gesto preventivo di arresa è il proporsi come artista: presentarsi in modo non-funzionale, ludico, definitivamente inutile ed innocuo. Una volta inciampati in un buon terreno costruire le condizioni perché si sprigioni l’attività creativa: disegnare insieme il campo di gioco. Cominciare a giocare ed invitare l’Altro al gioco. Scegliere i personaggi, i giocatori, individuare le persone che hanno il desiderio di mettersi in gioco sfidando il pregiudizio atavico degli altri abitanti. Lasciare che siano loro a trovare altri giocatori seguendo le proprie relazioni e poi inserire anche nel loro piano dei diversivi. Anche le regole del gioco devono essere metodologicamente incomprensibili ed indeterminate. Questo passaggio crea sempre problemi.

Provocare. Non è necessario entrare in punta di piedi nell’Altrove né essere sempre accondiscendenti e acritici con l’Altro se vogliamo produrre un’interazione creativa. Anzi spesso se non si vogliono ottenere risultati scontati e banali è bene saper provocare e spostare costantemente la posizione dell’Altro insieme alla nostra. Si può anche rischiare di provocare qualche piccola ferita ma deve essere tale da non compromettere la fiducia, e da non ricevere in cambio ferite più grandi. Ma è bene essere anche un po’ maleducati se volgiamo che l’altro reagisca togliendosi la maschera e cominci a giocare con noi in uno spazio non protetto. L’Altro e l’Altrove si nascondono spesso sotto uno strato di banalizzazione. L’arte sta nel saper andare là dietro.

Spostare. Spostare il punto di vista e le convenzioni da cui si pensano le cose è in fondo la più feconda delle trasformazioni che possiamo operare. Spostare costantemente i desideri le aspettative, le paure i pregiudizi. Mettere fuori posto, muovere muri, aprire buchi, costruire ponti mettere in relazione luoghi e persone che prima non comunicavano. Una volta compreso che tutto si sposta costantemente, anche le parole, allora appare chiaro che camminare possono essere approcciati con una stessa mente nomade. Possiamo fermarci in un posto dove tutto continuerà a spostarci e dove possiamo contribuire ai suoi microspostamenti.

Corpo. Finalmente abbiamo la consapevolezza di avere con noi un tempo, ed uno spazio altri ed in perpetuo movimento. Ora è bene sapere che in questo nuovo sistema spazio-temporale noi siamo corpo. È come fare il morto a galla quando ci distendiamo supini nel silenzio dell’acqua. Ora, dove prima non sentivamo nulla, percepiamo intorno a noi l’acqua, ed è una sensazione tattile diffusa su tutto il corpo, una sensazione acustica che ci fa sentire il respiro dei polmoni risuonare nel liquido in cui siamo immersi. Chiudiamo gli occhi e siamo solo corpo. Anche in questa dimensione cominciamo ad avere la consapevolezza che tutto quello che potrà succedere in seguito dipenderà dal nostro corpo. Camminare, faticare, sudare, ferirsi nei rovi ma anche spostare pietre allinearle e poi inventare utensili. Costruire lo spazio intorno a noi come produzione esterna del nostro corpo.

One to One. È il corpo a corpo con la città. Non si può conoscere lo spazio se non attraversarlo con il nostro corpo, non si può cominciare a trasformarlo “in situ” se non a partire di nuovo dal corpo, dalle relazioni che crea la sua presenza, dagli oggetti che può utilizzare e costruire. Il fermarsi implica un mondo di prossimità in espansione dal corpo verso l’infinito. Il mondo diventa un cantiere permanente di “ri-crea-zione” del corpo, un luogo di creazione, di azione e di trasformazione comune. Il paesaggio si trasforma in azioni gomito a gomito, passandosi i chiodi il trapano e il martello. Chi costruisce il proprio spazio perderà il tempo per prendersene cura.

Salutare. Oltre ad imparare come fermarsi nell’Altrove è anche fondamentale saper ripartire, ritualizzare l’uscita dal campo di gioco, salutare l’Altro ed andare via con un arrivederci e mai un addio.


Fine. Lasciare sempre aperto il finale …

Nessun commento:

Posta un commento