31/10/11

Dalla Torre di Babele a Pidgin City


Dalla Torre di Babele a Pidgin City
di Francesco Careri
(scritto in occasione del Seminario di Ricerca Interdisciplinare di Ferrara 27.28.29-6-2011
Sessione: PROGETT-AZIONE a cura di Carlo Cellamare)









Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell’altro"Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo di là si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. (Bibbia, libro della Genesi 11, 1-9)

Forse a stupire non è il fatto che tante popolazioni provenienti da diverse parti del mondo abbiano insieme fondato una città - tutte le città nascono come incontro di popoli diversi, e Roma fu crocevia di incontro tra Etruschi, Latini e Sabini (forse i famosi Tizio, Caio e Sempronio, cfr. nota 1)– ma quello su cui interessa soffermarci è che oggi non si riconosce invece ai migranti un ruolo di ricostruttori delle nostre città, dei nostri spazi pubblici, forse proprio del nostro senso civico. Proviamo a ripartire non dalla Genesi ma dagli anni cinquanta, quando a ricostruire la Torre di Babele non in verticale, ma come reticolo orizzontale di megastrutture sollevate dal suolo, ci provò il situazionista Constant, che ipotizzò una urbanità fluttuante, abitata e costantemente trasformata dal popolo nomade dei neobabilonesi, e trasformata da una nuova arte, urbana e interdisciplinare, chiamata urbanismo unitario. Una delle critiche a Constant stava nell’accusa di aver voluto fornire un immaginario visivo e architettonico a quella città della deriva nata dalle teorie di Guy Debord e compagni, che si sarebbe dovuta realizzare solo dopo la rivoluzione. Critica che si può riassumere nel “fare progetti e di non esser però capaci di passare all’azione”, utile quindi alle nostre riflessioni sulla Proget-Azione, e alla quale Constant rispondeva che le sue maquettes intendevano sprigionare un immaginario accattivante, ma che era convinto che “I veri costruttori di New Babylon saranno i neobabilonesi” (2). New Babylon sarebbe stata un’architettura dell’autorappresentazione perché l’avrebbero costruita a loro immagine e somiglianza i suoi abitanti, un opera non-autoriale perché gli unici veri autori del progetto sarebbero stati loro, attraverso azioni ludiche e interazioni dirette dei loro corpi con lo spazio, alla scala 1:1 e senza un disegno da seguire, un progetto quindi indeterminato, o meglio per una pratica indeterminista.

George Perec diceva delle utopie che “sono tutte deprimenti, perché non lasciano nessuno spazio al caso, alla differenza, al diverso. Tutto è messo in ordine e l’ordine regna. Dietro ogni utopia c’è sempre un grande disegno tassonomico: un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto” (3). E Constant a questo proposito sembra aggiungere: “La liberazione del comportamento esige uno spazio sociale labirintico ed allo stesso tempo continuamente modificabile. E' un processo ininterrotto di creazione e distruzione, che chiamo labirinto dinamico. Non si conosce praticamente nulla di questo labirinto dinamico. Si intende che non si potrà prevedere o progettare un processo di questa naturalezza se allo stesso tempo non lo si pratica” (4).
La pratica quindi, intesa come la progett-azione di cui qui si intende parlare, è il solo modo di attivare un processo di questa naturalezza, ossia con cui partecipare al naturale processo con cui la città concretamente si costruisce, indipendentemente dai progetti di amministratori, architetti e urbanisti. A questa possibilità concreta di produrre spazio praticando l’utopia si riferisce Henri Lefebvre quando scrive: “Bisogna distinguere gli utopisti dagli utopiani, ossia le utopie astratte dalle utopie concrete, (…) il pensiero utopista esplora l’impossibile, mentre il pensiero utopiano sprigiona il possibile” (5)
Sprigionare il possibile, produrre l’inatteso, costruire l’utopia ma lavorando nelle possibilità concrete di questa realtà storica, senza aspettare la nuova era dopo la rivoluzione. Cominciare a praticare un nuovo urbanismo negli interstizi di questa società, realizzare New Babylon come micro realtà utopiane interculturali disseminate nel pianeta e riconnesse dalla una rete non megastrutturale ma informatica, fare spazio agli avvenimenti rivoluzionari quali sono gli spostamenti di popolazioni e le mescolanze delle culture che mai nella storia erano avvenute in tali dimensioni. Questo sembra poter essere la rilettura in chiave attuale del progetto di Constant.

Ma per costruire la Torre di Babele, ce lo diceva la Bibbia, è bene avere una lingua comune, una lingua meticcia, forse creola, meglio ancora “pidgin”. Il poeta creolo recentemente scomparso Edouard Glissant ci aiuta a comprendere una importante differenza tra il meticcio e il creolo: “la 'creolizzazione' è il risultato del contatto tra culture diverse in uno spazio definito, che ha originato qualcosa di assolutamente nuovo e imprevedibile perché non legato a ciascun elemento separato che lo costituisce. (…) la creolizzazione va distinta dalle definizioni di interazzialità (meticcio, mezzosangue) o di multietnicità, perché ciò che produce è imprevedibile, è un insieme di nuovi valori relativi, di nuove 'relazioni di essere-con-il mondo', cioè nuove modalità di rapportarsi con il mondo. In alcuni casi, gli effetti dell'essere meticci/mezzosangue possono essere più facilmente prevedibili e calcolabili, mentre la creolizzazione aggiunge un valore che è l'imprevedibilità” (6).
Il meticcio apre la dimensione interculturale, il creolo aggiunge l’imprevedibile, il pidgin, come vedremo, la dimensione dell’errore. Una lingua pidgin è infatti il grado zero di questo processo, è il nascere di una nuova lingua, fatta di parole sbagliate o mal pronunciate. È l’emergere di un primo spazio di comunicazione reciproca tra diversi che nasce dall’errore, da non intendersi come sbaglio da correggere, ma come disponibilità ad una dimensione imprevedibile della realtà. La parola pidgin deriva infatti dalla scorretta pronuncia cinese dell’inglese business e aveva obbligato gli inglesi, quando volevano fare commercio con i cinesi, a dire pidgin al posto di business, a storpiare il loro proprio linguaggio per farsi comprendere dai cinesi. Per parlare pidgin bisogna entrare nell’errore, essere disposti a sbagliare deliberatamente, a non voler correggere e determinare, ad affidarsi al caso e all’imprevedibile (7). Per partecipare alla costruzione di Pidgin City ci si deve liberare della paura di sbagliare. Mettersi in grado di inciampare. Errare. Sbagliare strada deliberatamente. Rendersi disponibili al progetto dell’indeterminato. A Pidgin City bisogna liberarsi dell’idea che chi arriva debba essere integrato/assimilato/omologato alla cultura che lo ospita. Chi arriva ci cambia, forse ci porta ad errare, sicuramente ci può indurre in una dimensione inaspettata.

I migranti portano con loro una capacità di trasformazione informale della città che in passato ci ha permesso di costruire le nostre città. Sono loro che riabitano molti degli spazi pubblici che la città aveva lasciato vuoti o abbandonati, come anche gli spazi stravissuti come gli autobus, le metropolitane, le piazze e i giardini dei centri storici. Parti di città che hanno cominciato a trasformarsi attraverso nuovi usi e comportamenti: feste e riti comunitari, abitazioni temporanee, phone center, alimentari e mercati improvvisati nelle stazioni di arrivo e partenza dei pulmini transnazionali, fenomeni che si attivano solo in una determinata ora di un determinato giorno, fino ad azioni più quotidiane come il mettere sul marciapiede una sedia per incontrarsi e chiacchierare con i vicini di casa. Tra questi non bisogna sottovalutare le occupazioni a scopo abitativo, che non sono solo efficaci risposte al problema della casa, ma anche interessantissimi laboratori sperimentali di spazi pubblici interculturali. Da diversi anni nelle occupazioni la popolazione di origine straniera ha superato quella di origine italiana, creando una sorta di condomini interculturali dove oltre alle case esistono cortili, giardini, spazi di soglia, spazi comuni ormai estinti nel resto della città. Forse sono proprio queste le realtà utopiane dove, come vedremo in conclusione, la città informale e quella formale possono trovare uno spazio di reciprocità, di legittimazione dell’informale e di contaminazione del formale, in forme inedite, solidali e condivise.

“I neobabilonesi saranno i costruttori di New Babylon” diceva Constant. Una frase che ci parla di condivisione, di agire comune, di autorappresentazione ma anche di cantiere, di tavole di legno, di chiodi e martelli, di un arte di costruzione della città fatta alla scala del corpo umano che trasforma intorno a sé il proprio spazio abitandolo, senza progetto e a volte anche senza autorizzazione. Ma Constant diceva anche che per diventare neobabilonesi bisogna accantonare gli specialismi, le discipline, la professionalizzazione e trasformarsi in urbanisti unitari, capaci di agire creativamente in quell’indisciplinato campo concreto che esiste tra progetto e azione, tra arte e politica, tra città e cittadini, che da qualche tempo chiamiamo Arti Civiche. Arte non solo pubblica o urbana, ma engaged and embodied, impegnata e incarnata, allo spazio e alla cittadinanza, che prendere parte, prende posizione e si prende cura. Per partecipare alla costruzione di Pidgin City è bene non presentarsi come politici, amministratori, architetti, urbanisti, facilitatori o quant’altro, queste figure producono nei neobabilonesi aspettative di cambiamenti epocali (spesso purtroppo anche alla cancellazione del mondo che ci si era costruiti), mentre gli artisti hanno la capacità di produrre curiosità, al massimo indifferenza, ma non paura. L’arte non fa paura né agli abitanti né al potere, viene accolta come una attività innocua, forse inutile, senza potere, senza capacità progettuale. Questa è la sua unica forza. La sua capacità è quella di prendere la città di sorpresa, in modo indiretto, laterale, ludico, non funzionale (8), di inciampare in territori inesplorati dove nascono come funghi nuovi fenomeni e nuovi interrogativi, di comprenderne i valori simbolici e di produrre azioni e immaginari immateriali spesso più utili della pianificazione e della edificazione fisica di luoghi.

note:

1) Non ci sono né libri da citare né link da consultare per questa nota. È una intuizione che mi ha comunicato oralmente Lorenzo Romito di Stalker a seguito di una conferenza di Giovanni Azzena sull’Asilum, ossia “la sella” del monte Campidoglio dove si incontrarono le popolazioni preromane che fondarono Roma, posto che ha dato origine alla parola “Asilo”.
 2) Constant, Autodialogo a proposito di New Babylon, Opus International, n° 27, 1971, pp. 29-31. Trad. it. in: Francesco Careri, Constant / New Babylon. Una città Nomade, Testo & Immagine, Torino 2001, pp. 86-91.
3) George Perec, Penser/Classer, Hachette, Paris 1985, p.156

4) Constant, Il principio del disorientamento, in : New Babylon, Haags Gemeentemuseum, 1974, trad. it Francesco Careri, op.cit., pp. 85-86

5) Henry Lefevre cit in: Jean Clarence Lambert, New Babylon - Constant. Art et Utopie, cercle d'art, Paris 1997, p.7, trad it. Francesco Careri, op.cit., pp. 8-10.

6) Edouard Glissant, 1995, trascrizione dell'intervento di al convegno "Migrations in a changing world" a cura di Laura Fantone. http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/critica/glissant-critica-kuma6.html
7) Il manierismo, il barocco e ogni avanguardia che ha avuto l’obiettivo di contravvenire e deformare la regola, ma soprattutto i Dadaisti con il loro infischiarsi di ogni regola e accettazione del caso, dell’errore e del non prevedibile, sono parte integrante di questa storia, ma non è questa la sede in cui approfondire.

8) A questo proposito è utile ricordare i “pensieri non funzionali” dell’ artista Cesare Pietroiusti. http://www.pensierinonfunzionali.net/

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