11/01/11

Rom, o dell’impossibilità di essere un figurante



Rom, o dell'impossibiltà di essere un figurante
di Francesco Careri
(publicato in francese in: “de(s)générations” n°13, Saint-Eienne, 2011, pp. 35-42)

Texte en français au fond


“I figuranti sono la notte del cinema, quando il cinema vuole essere un arte per far brillare le stelle”- scrive Didi-Huberman nel numero 09 di questa rivista dedicato ai figuranti, e continua – “sono i non-attori per eccellenza (…) stanno alla storia che si racconta come una tela di fondo costituita di volti, di corpi, di gesta”[1]. Ho cominciato a ragionare a partire da questa frase per capire se i Rom possono rientrare nella categoria dei figuranti[2]. Sicuramente i Rom non sono mai stati protagonisti ma sempre sfondo della Storia. Una Storia loro non l’hanno mai scritta e quella scritta da noi, si sa, non ha mai incluso i vinti, le masse e i derelitti. Ma nella storia del cinema e forse in generale nella storia delle immagini - a parte i film di genere come in Emir Kusturica e Tony Gatlif, dove i Rom sono sia protagonisti che figuranti - non ricordo mai di Rom che passano sullo sfondo. La stessa cosa succede nella realtà della vita quotidiana: quando i Rom compaiono alla nostra vista non sono mai sfondo, sono sempre protagonisti. Se ci si riflette i Rom che passano sul marciapiede non sono mai dei semplici passanti, figuranti o sfondo neutro, perché non passano inosservati, attirano gli sguardi. Gli occhi li seguono fin quando non escono dalla scena, fino al cessato pericolo. Ritornando al cinema, se una camera da presa li inquadrasse mentre passano, non potrebbe fare a meno di continuare a seguirli fin quando non scompaiono, la camera non potrebbe andare su un altro soggetto come se niente fosse. La telecamera passando sullo sfondo avrebbe trovato qualcosa che per sua natura attirerebbe uno zoom, un commento, un apprezzamento, un’interpretazione. Allo stesso modo, se il pennello di un pittore o un obiettivo fotografico li dovesse ritrarre, quella presenza sarebbe sicuramente significante, non potrebbe mai essere una figura anonima.


È anche per questo che i Rom non sono mai massa e non sono mai soli. Non sono mai una folla anonima per le strade, non li vediamo mai in tanti se non dentro ai loro campi, difficilmente si manifestano in città come moltitudine, perché difficilmente manifestano. Nel nostro immaginario stereotipato i Rom sono una famiglia a piedi su un marciapiede, una mamma con bambino, una banda di ragazzini, un singolo vecchio solo. Il Rom maschio adulto, il marito e padre di quella famiglia, nello stereotipo non appare quasi mai da solo, o meglio, quando è solo si confonde con la figura del migrante, dello straccione, del vagabondo, del sottoproletariato senza connotazioni etniche. È forse in questa chiave che va letto il personaggio di Charlot, la figura inventata da Charlie Chaplin che - proprio in quanto Rom - consapevolmente arriva a riscattare in positivo la figura socialmente negativa del Rom.

Che Charlie Chaplin avesse origini Rom o più precisamente Romanichals è noto solo ai Rom, mentre circola da sempre l’idea che egli fosse ebreo e che da questo derivasse la sua interpretazione di Hitler nel Grande Dittatore. In realtà, come ha scritto lui stesso, Chaplin aveva sangue Romanichal che gli proveniva dalla sua nonna paterna, un origine che ha sempre portato con orgoglio seppure dicesse che era una sorta di scheletro nell’armadio della famiglia (3) . È forse proprio in questa doppia chiave di orgoglio e vergogna, di voler dire ma non poter dirlo, che va letta non solo la figura del grande Dittatore - sono stati forse due milioni i Rom sterminati dai nazisti – ma soprattutto la figura di Rom che sottostà a quella di Charlot.

L’immagine di Charlot - il vagabondo con il bastone – è esattamente la figura iconografica del viandante studiata da Daniel Arasse, che come Homo Viator, Ebreo Errante e folla manifestante, attraversa camminando la storia della pittura da Brueghel a Pelizza da Volpedo (4) . Charlot è un maschio adulto che incarna molti dei lati caratteriali del Rom, ma ne stempera la pericolosità e lo presenta rovesciando lo stereotipo comune da colpevole a innocente perseguitato. Come ogni Rom di tutti i tempi, Charlot vive in una baracca di legno ai margini della città, teme la polizia che lo perseguita per piccoli furti di sussistenza, conosce la prigione, si batte con tutte le sue forze per difendere il suo bambino dai servizi sociali che glielo vogliono rubare e civilizzare, non è incline al lavoro, è inadattabile ai tempi moderni della fabbrica taylorista ed è alieno ai prodotti della società dei consumi che quella fabbrica produce, è sporco e ha sempre lo stesso vestito ma sogna angeli che lo portano in volo, parla con gli occhi e canta con il violino, sa amare e far commuovere e quando si trasforma involontariamente in capofila di una massa politica, ne ha paura e scappa.

Charlot diventa protagonista –  una stella del cinema – da una parte perché maschera la sua natura di Rom e dall’altra perché quella figura è incapace di stare sullo sfondo. Quello che sucede nella realtà e nella rappresentazione è che, in quanto “diverso”, un Rom non può e giocare il ruolo di figurante, subito si trova a contendere il posto del protagonista, e suo malgrado a diventarlo. Come scrive Xavier Vert ricordando Raul Hilberg, nei campi di concentramento nazisti “essere differenti(…) significava la morte, mentre gli anonimi, i senza-volto sopravvivevano” (5). E anche ai Rom farebbe comodo non figurare, essere anonimi, per non attirare le paure e gli odi di chi guarda. Ma in periodi di crisi come quello che stiamo vivendo, conviene accendere su di loro i riflettori mediatici e politici, indicarli come il pericolo, la causa prima delle nostre insicurezze, il capro espiatorio.

I Rom sono la notte, una notte senza stelle. C’è una sorta di congiuntura di interessi, loro e nostri, che non li vuole protagonisti, loro si nascondono e noi cerchiamo di farli sparire oltre il nero dello sfondo, levarli per sempre dalla scena, trasformarli in popolo invisibile (6). Vorrei sbagliarmi ma mi sembra che quello che sta succedendo in Europa, in Francia in questi mesi e in Italia da alcuni anni, sia un nuovo tentativo di renderli invisibili per sempre, di annientarli non fisicamente ma culturalmente e soprattutto visivamente, giacché è proprio la loro vista, la loro figura, che ci infastidisce. Per secoli li abbiamo cacciati dalle nostre città rendendoli nomadi per forza (7) . Oggi, in una società di flussi che non accetta più il loro nomadismo, li nascondiamo alla vista facendoli vivere in interstizi dove difficilmente potrebbero passare gli sguardi di un cittadino. L’urbanistica del disprezzo (8) pianifica le loro vite tra una linea ferroviaria e i canneti di un fiume di periferia, sotto il cavalcavia di una tangenziale, sono il popolo delle discariche (9). E soprattutto devono essere invisibili alle anagrafi: dobbiamo censirli continuamente e schedarli nei fascicoli della polizia, ma non devono avere carte di identità, non devono diventare cittadini, neanche quando nati e cresciuti in Italia ormai da tre generazioni (10). E non devono essere considerati profughi neanche quando scappano dai nostri bombardamenti, come nel Kosovo, dove sono state le nostre bombe umanitarie a distruggere le loro case, perché è in case che abitavano prima della guerra, ed è in roulotte e container che li facciamo vivere oggi additandoli come nomadi, non interessati ad una abitazione fissa. Da trent’anni stiamo costruendo un popolo invisibile, senza documenti, senza indirizzo, senza casa, senza lavoro, senza diritti, e il processo sembra inarrestabile.

Questo processo di de-figurazione, di cancellazione visiva della figura dalla scena cittadina, è chiaramente leggibile a Roma che per la politica securitaria nei confronti dei Rom è all’avanguardia in Italia e quindi in Europa (11). E non è frutto, come potrebbe sembrare, delle politiche leghiste e berlusconiane o dell’indole fascista dell’attuale sindaco Gianni Alemanno, ma è responsabilità soprattutto della sinistra. Sono stati i due precedenti sindaci di centrosinistra che hanno cominciato a costruire per i Rom la loro “città a parte”, il loro apartheid: i “campi nomadi” di Francesco Rutelli e i “Villaggi della Solidarietà” di Walter Veltroni. Luoghi fuorilegge, creati con legislazioni di emergenza in deroga alle leggi normali e agli standard abitativi delle altre persone, sono luoghi in cui oggi il nuovo sindaco sta sperimentando la costruzione di stati di eccezione segreganti: campi dispersi in campagna, a diversi chilometri dalla città, formati da filari stretti di container sovraffollati, recintati con reti metalliche alte otto metri e con telecamere di videosorveglianza a circuito chiuso, ingresso vigilato 24 ore su 24, impossibilità di entrare anche per i parenti stretti. Gli abitanti di questi nuovi campi di concentramento non portano un numero stampato sul braccio ma, dopo essere stati fotosegnalati e schedati, gli viene distribuito il DAST (12), un documento che serve esclusivamente a entrare ed uscire dai campi. A chi rifiuta i campi o sfugge alla schedatura cercando una sua strada alternativa non viene dato il DAST e si trasforma defintivamente in “clandestino”, dunque se incorre in controlli potrà essere rinchiuso, senza processo e senza aver commesso altro reato se non quello di vivere, in un C.I.E. per sei mesi e in seguito anche rimpatriato in una patria che non ha mai conosciuto.

Vorrei chiudere ricordando il ruolo dei Rom nella storia delle immagini, con le parole di Tano D’Amico, uno dei fotografi che più li ha saputi raccontare: “Forse una natura comune lega indissolubilmente zingari e immagini. Il popolo Rom ci sta accanto quando le parole non bastano, quando non possono racchiudere, definire, circoscrivere quello che la realtà provoca in noi. È un popolo da guardare, da ascoltare, molto più che da leggere. La parola non li ha mai amati, l’immagine e la musica sempre. (…) Fin dal loro arrivo nel nostro paese il mondo delle immagini ha accolto gli zingari. Le botteghe dei pittori erano aperte per loro, i palazzi della parola no.”

Tano D’Amico ricorda che a Venezia alla bottega di Giovanni Bellini si erano formati Giorgione e Antonio Solario che si firmava “Pittore Zingaro” forse lo stesso che era diventato amico di Carlo Crivelli che lo aveva definito pittore bravo ma inaffidabile. È forse qui, alla bottega di Bellini che Giorgione avrebbe sentito quella storia terribile – una storia che ancora oggi gli zingari raccontano – di una gara di tiro con l’arco che aveva avuto il petto di una zingara come bersaglio. Ed è forse per questo che a proposito della Tempesta aveva appuntato nel suo taccuino “trattasi della cingana” riferendosi a quella “madre fuggiasca che bussa forte alla memoria. Ha una pezza in testa, il corpo nudo, anche lei (come tutte le Romnì prima di entrare nelle camere a gas) allatta accosciata e capiamo che è l’ultima volta. È all’aperto, in mezzo agli alberi, sulla riva di un corso d’acqua. Compaiono i colori forti dei cacciatori, si sentono le grida dei battitori che frugano la macchia; si intuisce l’affanno che corre con il suo bambino al petto, arriva al fiume e capisce che non ce la farà a passarlo.(…) Il battitore ha trovato la zingara e la piantona, aspettando il principe e gli ospiti. Non ha un aspetto feroce, tiene d’occhio la scena senza animosità. Ha lo sguardo di coloro che in ogni tempo svolgono quel tipo di dovere” (13).



note:

1) Georges Didi-Huberman, Peuple exposés, peuple figurants, “de(s)generation” 09, septembre 2009, pp. 12-13.
2) Mi scuso fin d’ora con i lettori se nel seguito del testo parlerò a volte dei Rom in modo generico e generizzante, in quanto a chiunque darebbe un gran fastidio se qualcuno si chiedesse se gli Italiani o i Francesi sono da considerarsi dei figuranti. Il riferimento è ovviamente a quella figura del Rom che proviene dall’immaginario collettivo stereotipato. Mi scuso inoltre se, solo per brevità, userò in seguito la sola parola “Rom”, consapevole del fatto che per esprimere le diversità culturali del popolo europeo che parla lingue di radice Romanés, sarebbe più corretto scrivere sempre “Rom, Sinti, Kalè, Manouches e Romanichel”.
3) Charlie Chaplin, My Autobiography, Simon and Schuster, New York 1964, p. 19 e Charles Chaplin, Jr., con N. e M. Rau, My Father, Charlie Chaplin, Random House, New York 1960, p. 7.
4) Daniel Arasse, La meilleure facon de marche. Introduction à une histoire de la marche, in « les figures de la marche. Un siecle d’arpenteurs, Musèe Picasso – Antibes, RNM, Paris 2000, pp. 35-62
5) Xavier Vert, L’évenement spécifique de la figure, “de(s)generation” 09, septembre 2009, pp. 22.
6) Najo Adzovic, Rom. Il popolo invisibile, Palombi & Partner, Roma 2005
7) Krzysztof Wiernicki, Nomadi per forza. Storia degli zingari, Rusconi, Milano 1997.
8) Piero Brunello (a cura di), L'urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana, Manifestolibri, Roma 1996
9) Leonardo Piasere, I Popoli delle discariche, Cisu, Roma 1991.
10) Paolo Ciani, Rom e Sinti a Roma. Tra emergenza e futuro, in AA.VV, Osservatorio Romano sulle Migrazioni – sesto rapporto, Caritas di Roma-Idos, Roma 2010, pp.193-204
11) Chi scrive ha cominciato dal 2007 una ricerca sul campo del Dipartimento di Studi Urbani dell’Università di Roma Tre in collaborazione con Stalker/Osservatorio Nomade.
12) Il DAST (Documento di Autorizzazione allo Stanziamento Temporaneo) un tesserino simile alla patente di guida, con un numero, nome, cognome, fotografia, durata di validità, nome del campo e un codice a barre con ulteriore informazioni utili come il numero dei figli e la loro scolarizzazione. Il DAST non ha nessun valore giuridico mentre Vai Rom viene fatto credere che si tratta di veri documenti di identità. Sveva Belviso, Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Roma, nella conferenza stampa del 4 marzo 2009 affermava che il DAST "È una sorta di carta d'identità comunale". Il DAST dà solo il diritto a entrare nel proprio campo e, se trovati privi di altri documenti, a non essere rinchiusi in un CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione).
13) Tano D’Amico, Il giubileo nero degli zingari, Editori Riuniti, Roma 2000. Alcuni dei fatti riportati non si trovano nel testo citato ma sono parte dell’intervento di Tano D’Amico alla giornata su “Rappresentazione e Autorappresentazione del popolo Rom” tenuta alla Facoltà di Architettura di Roma Tre il 16/06/09.



Rom, ou de l’impossibilité d’être un figurant.
de Francesco Careri

« Les figurants sont la nuit du cinéma lorsque le cinéma se veut un art pour faire briller ses étoiles », écrit Georges Didi-Huberman dans le numéro 09 de cette revue dédiée aux figurants. Il poursuit : « ils seraient les non-acteurs par excellence […]. Ils sont à l’histoire qui se raconte quelque chose comme une toile de fond constituée de visages, de corps, de gestes » . C’est à partir de cette phrase que je me suis demandé si les Roms peuvent rentrer dans la catégorie des figurants . Il est bien entendu que les Roms n’ont jamais été protagoniste de l’Histoire mais toujours repoussés en son fond. Ils n’ont jamais écrit leur propre Histoire, et la nôtre, on le sait, a toujours exclu les vaincus, les masses et les misérables. Dans l’histoire du cinéma et peut-être dans l’histoire des images plus généralement – hormis dans les films de genre comme ceux d’Emir Kusturica et Tony Gatlif, où les Roms sont aussi bien protagonistes que figurants – je ne me souviens pas avoir vu de Roms en toile de fond. La même chose advient dans la réalité et la vie quotidienne : les Roms apparaissent toujours comme protagonistes. Si l’on y pense, les Roms qui marchent sur le trottoir ne sont jamais de simples passants, de simples figurants, un fond neutre en somme, car ils ne passent jamais inaperçus ; ils attirent au contraire les regards. On les suit des yeux jusqu’à ce qu’ils disparaissent de la scène et que le danger cesse. Pour revenir au cinéma, imaginons qu’ils entrent par inadvertance dans le champ de la caméra, celle-ci serait immanquablement portée à les suivre tandis qu’il passent, ne pouvant se détacher de cette présence comme si de rien n’était. Cette même caméra, balayant le fond, trouverait en cette présence, quelque chose qui par nature attire un zoom, un commentaire, une appréciation, une interprétation. De la même façon, si le pinceau d’un peintre ou l’objectif d’un photographe devait en fixer le portrait, cette présence serait assurément signifiante, elle ne saurait prendre la forme d’une figure anonyme.

C’est aussi pour cette raison que les Roms ne sont jamais seuls et ne forment jamais une masse, une foule anonyme dans la rue. On ne les voit en nombre que dans leurs camps. Ils se manifestent difficilement comme multitude parce qu’ils manifestent difficilement. Notre imaginaire stéréotypé les voit comme une famille, une mère avec son enfant, une bande de jeunes garçons, un vieillard seul. L’homme Rom adulte, le mari et le père de cette famille n’apparaît que rarement seul dans le stéréotype, où mieux, lorsqu’il l’est, il se confond avec la figure du migrant, du mendiant, du vagabond, du sous-prolétaire sans connotation ethnique. C’est sous cet angle que peut être abordé le personnage de Charlot, la figure inventée par Charlie Chaplin, en tant précisément qu’il était Rom. Chaplin réussit consciemment à rédimer la figure socialement négative du Rom. Que Charlie Chaplin eût des origines Rom ou plus précisément Romanichelles, seuls les Roms le savent, tandis que circule depuis toujours l’idée qu’il était juif, ce dont témoignerait son interprétation d’Hitler dans Le dictateur. En réalité, comme il l’a lui-même écrit, Chaplin avait des ascendances Romanichelles du côté de sa grand mère paternelle, une origine qu’il a toujours revendiquée avec orgueil, bien qu’il se pensât comme un squelette dans l’armoire de famille . C’est sous ce double signe d’orgueil et de honte, de volonté de dire et d’impuissance à dire, que doit être placé non seulement la figure du Dictateur – deux millions de Roms ont été exterminés par les nazis – mais aussi et surtout la figure du Rom qui supporte celle de Charlot.

L’image que nous avons de Charlot – le vagabond et sa canne – correspond exactement à la figure iconographique nomade étudiée par Daniel Arasse, celle de l’homo viator, du juif errant, de la foule manifestant, qui traverse l’histoire de la peinture de Brueghel à Pelizza da Volpedo . Charlot est un homme adulte qui incarne bien des traits caractériels des Roms mais dont il estompe la dangerosité et inverse le stéréotype commun de coupable en innocent persécuté. Comme les Roms depuis toujours, Charlot vit dans une cabane de bois aux marges de la ville. Il craint la police qui le persécute pour de petits larcins de subsistance ; il connaît la prison, se bat avec toutes ses forces pour défendre son enfant des services sociaux qui veulent le lui retirer pour l’éduquer. Nullement enclin au travail, il est inadapté aux temps modernes de la production tayloriste, aliéné cependant aux produits de la société de consommation. Il est sale, porte le même sempiternel vêtement mais rêve d’anges qui le porterait dans les airs. Il parle avec les yeux, chante avec son violon, sait aimer et émouvoir. S’il se transforme bien involontairement en chef de fil d’une manifestation politique, il s’effraie et s’enfuie. Charlot est un protagoniste – et sans nul doute une étoile du cinéma – d’une part parce qu’il masque son identité Rom et d’autre part parce qu’il est impossible que la figure qu’il incarne appartienne au fond neutre. Il advient dans la réalité et dans la représentation qu’un Rom, pour autant qu’il est « différent » est inassimilable au figurant ; il se trouve inéluctablement, et ce bien malgré lui, à disputer le rôle de protagoniste. Comme le rappelle Xavier Vert, citant Raul Hilberg, dans les camps de concentration nazis, « être différent […] signifiait la mort, tandis que les anonymes, les sans-visage survivaient ». Les Roms également préfèreraient rester anonymes, ne pas faire figure, pour ne pas attirer les peurs et la haine de qui regarde. Il est cependant facile, en période de crise comme celle que nous vivons, de braquer sur eux les projecteurs médiatiques et politiques, de voir en eux un danger, la cause première de notre insécurité, d’en faire un bouc émissaire.

Les Roms sont la nuit, une nuit sans étoile. Une sorte de conjonction d’intérêts préside à ce que ni eux ni nous ne les voulons protagonistes : eux se cachent et nous cherchons à les faire disparaître pour toujours de la scène, derrière le fond noir, jusqu’à les transformer en un peuple invisible . Je voudrais me tromper, mais il me semble que c’est exactement ce qu’il se passe en Europe, en France ces derniers mois, et en Italie depuis quelques années. Une nouvelle tentative pour anéantir les Roms, non pas physiquement mais culturellement, pour les rendre invisibles à jamais. Car c’est précisément leur figure, c’est précisément de les voir qui nous dérange. Durant des siècles, nous les avons chassés de nos cités, en avons fait des nomades par force . Aujourd’hui, dans une société de flux qui n’accepte plus leur nomadisme, nous les dissimulons à la vue en les faisant vivre dans les interstices, à l’abri des regards du citadin. L’urbanisme du mépris planifie leur vie entre une ligne de chemin de fer et les abords d’un fleuve en périphérie, sous les échangeurs d’une rocade. Il sont le peuple des décharges . Et par dessus tout, ils doivent être invisibles à l’état civil : ils sont continuellement recensés et fichés par la police, mais ils ne doivent pas avoir de carte d’identité, ils ne doivent en aucun cas devenir citoyens, même lorsqu’ils sont nés et ont grandi en Italie depuis trois générations . Ils ne doivent pas non plus être considérés comme des réfugiés quand bien mêmes ils ont fui nos bombardements, comme ce fut le cas au Kosovo, où ce sont nos bombes humanitaires qui ont détruit leurs maisons. Car avant la guerre il habitaient bien dans des maisons, tandis que nous les faisons aujourd’hui vivre dans des roulottes ou des containers, les désignant comme nomades indésireux d’un habitation fixe. Depuis trente ans, nous construisons un peuple invisible, sans papiers, sans adresse, sans logement, sans travail, sans droits, et le processus semble inéluctable.

Ce processus de dé-figuration, de forclusion de leur image hors de la scène citadine est clairement lisible à Rome, dont la politique sécuritaire à l’égard des Roms est à l’avant-garde en Italie et en Europe . Elle n’est pas le fruit, comme on pourrait le croire, des politiques léguiste et berlusconiennes ou du caractère fasciste de l’actuel maire de Rome, Gianni Alemanno, sa responsabilité incombe avant tout à la gauche. Ce sont les deux précédents maires de centre gauche qui ont entrepris de construire pour les Roms une « ville à part », un apartheid : les « camps nomades » de Francesco Rutelli et les « villages de la solidarité » de Walter Veltroni. Lieux hors la loi, créés par des législations d’urgence en dérogation du droit normal et en dépit des standards d’habitation. En ces lieux, le nouveau maire expérimente aujourd’hui la construction d’états d’exception ségrégatoires : camps dispersés dans la campagne à plusieurs kilomètres des villes, formés de rangées de containers surpeuplés, enceints par des grillages métalliques haut de huit mètres et équipés de caméras de surveillance en circuit fermé. L’entrée est gardée vingt-quatre heures sur vingt-quatre et il est impossible de pénétrer même pour les parents proches. Les habitants de ces nouveaux camps de concentration ne portent pas de numéro tatoué sur le bras, mais après avoir été enregistrés, photographiés et fichés, ils possèdent le DAST. Le DAST (Document d’Autorisation à l’Installation Temporaire) est une carte semblable au permis de conduire, avec numéro, nom, prénom, photographie, durée de validité, nom du camp d’assignation, et code barre contenant différentes informations utiles telles que le nombre d’enfants et leur lieu de scolarisation. Le DAST n’a aucune valeur juridique bien que l’on fasse croire aux Roms qu’il s’agit de vrais papiers d’identité. Sveva Belviso, Assesseur aux Politiques Sociales de la Municipalité de Rome, affirmait lors de la conférence de presse du 4 mars 2009 que le DAST « est une sorte de carte d’identité municipale ». Le DAST donne seulement le droit d’entrer et de sortir du camp et préserve du risque d’être enfermer dans un CIE (Centre d’Identification et d’Expulsion). Le DAST n’est pas délivré à qui, cherchant une voie alternative, refuse le camp ou ne se soumet pas à l’enregistrement et au fichage. Celui-ci se transforme définitivement en « clandestin », destiné à l’occasion d’un contrôle à être enfermé dans un CIE pour six mois et par la suite à être rapatrié dans un pays qu’il n’a jamais connu, sans autre forme de procès et sans avoir commis d’autre délit que celui de vivre.

Je voudrais pour conclure rappeler le rôle des Roms dans l’histoire des images avec les mots de Tano D’Amico, un des photographes qui a le mieux su le raconter : « il est peut-être une nature commune qui lie indissolublement les tziganes et les images. Le peuple Rom est à côté de nous quand les paroles manquent, quand elles ne peuvent contenir, définir, circonscrire ce que la réalité provoque en nous. C’est un peuple qu’il faut regarder, qu’il faut écouter, bien plus que lire. Les mots ne les ont jamais aimés, l’image et la musique toujours. […] Jusqu’à leur arrivée dans notre pays, le monde des images a accueilli les tsiganes. Les ateliers des peintres étaient ouverts pour eux, mais non les palais de la parole. »

Tano D’Amico rappelle qu’à Venise, dans l’atelier de Giovanni Bellini, s’étaient formés Giorgione et Antonio Solario qui signait « peintre tsigane », le même peut-être qui était devenu l’ami de Carlo Criveli. Crivelli disait de lui qu’il était un bon peintre mais auquel on ne pouvait se fier. C’est peut-être là, dans l’atelier de Bellini que Giorgione aurait entendu cette histoire terrible – une histoire que les tsiganes racontent encore aujourd’hui – d’un concours de tir à l’arc dont la cible était la poitrine d’une tsigane. Et c’est peut-être pour cela qu’à propos de La Tempête, Giorgione même a écrit dans son carnet : « il s’agit de la tsigane », renvoyant à cette « mère fugitive qui résonne dans la mémoire. Elle est nue, un tissu sur les épaules, elle aussi (comme toutes les femmes Roms avant d’entrer dans les chambres à gaz) allaite accroupie et nous comprenons que c’est la dernière fois. Elle est au milieu des arbres, sur la rive d’un cours d’eau. Nous apparaissent les couleurs fortes des chasseurs, on entend les cris des rabatteurs qui fouillent les alentours ; on imagine l’essoufflement de la femme qui court, son enfant sur la poitrine, elle arrive au fleuve et comprend qu’elle ne pourra le franchir. […] Le rabatteur a trouvé la femme tsigane et le soldat qui l’observe, attendant le prince et ses hôtes. Il n’a pas l’aspect féroce, le regard posé sur la scène, sans animosité. Le regard de ceux qui de tous temps accomplisse ce genre de devoir ».

notes:

1. Georges Didi-Huberman, « Peuple exposés, peuple figurants », De(s)génération, n° 09, septembre 2009, p. 12-13.

2. Je voudrais d’emblée m’excuser auprès du lecteur si dans la suite du texte je parle des Roms de façon générique et généralisante, conscient qu’à quiconque paraîtrait fastidieux de se demander si les Italiens ou les Français peuvent être considérés comme des figurants. Ce faisant, je renvoie évidemment à la figure du Rom construite par l’imaginaire collectif stéréotypé. En outre, je m’excuse si par raccourci, j’utilise le seul terme « Rom », là où la diversité culturelle du peuple européen parlant une langue d’origine Romanés imposerait d’écrire « Roms, Sinti, Kalé, Manouches et Romanichels ». Le présent texte a été traduit de l’italien par Xavier Vert.

3. Charlie Chaplin, My Autobiography, New York, Simon and Schuster, 1964, p. 19 ; Charles Chaplin, Jr., N. et M. Rau, My Father, Charlie Chaplin, New York, Random House, 1960, p. 7.

4. Daniel Arasse, « La meilleure façon de marcher. Introduction à une histoire de la marche », in Les figures de la marche. Un siècle d’arpenteurs, Paris, RNM, 2000, p. 35-62.

5. Xavier Vert, « L’évenement spécifique de la figure », De(s)generation, n° 09, septembre 2009, p. 22.

6. Najo Adzovic, Rom. Il popolo invisibile, Rome, Palombi & Partner, 2005.

7. Krzysztof Wiemicki, Nomadi per forza. Storia degli zingari, Milan, Rusconi, 1997.

8. Piero Brunello (sous la dir.), L'urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana, Rome, Manifestolibri, 1996.

9. Leonardo Piasere, I Popoli delle discariche, Rome, Cisu, 1991.

10. Paolo Ciani, Rom e Sinti a Roma. Tra emergenza e futuro, in AA.VV, Observatoire Romain des Migrations – sixième rapport, Rome, Caritas di Roma-Idos, 2010, p.193-204.

11. J’ai entrepris depuis 2007 une recherche de terrain financé par le Département des Études Urbaines de l’Université de Rome III en collaboration avec Stalker / Observatoire Nomade.

12. Ndt. La « Lega » est un mouvement politique de droite nationaliste et xénophobe du nord de l’Italie qui possède aujourd’hui de nombreux ministres au gouvernement.

13. Tano D’Amico, Il giubileo nero degli zingari, Rome, Editori Riuniti, 2000. Certains des faits rapportés ne se trouvent pas dans le texte cité mais font partie de l’intervention de Tano D’Amico lors de la journée consacrée à la « Représentation et autoreprésentation du peuple Rom », qui s’est tenue à la Faculté d’Architecture de Rome III, le 16 juin 2009.


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