30/03/22

Autodialogo su CIRCO

Articolo pubblicato in: Laboratorio CIRCO (eds), CIRCO. Un immaginario di città ospitale, Bordeaux Edizioni, Roma 2021, pp. 21-32

Tutti gli anni, verso il mese di marzo,

una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio,

e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni.

Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero,

che si presentò col nome di Melquíades, diede una truculenta manifestazione pubblica

di quella che egli stesso chiamava l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia.(Gabriel Garcìa Màrquez, Cent’anni di solitudine, 1969)

Domanda: Ci piacerebbe ricostruire la genealogia del progetto CIRCO come l’ultima tappa di un percorso più lungo alla ricerca di uno spazio di relazione con l’alterità, tra l’andare e lo stare, tra nomadismo e sedentarietà. Se tu dovessi trovare un inizio da dove cominceresti?

Risposta: Sì, è un percorso lungo e collettivo che ho condiviso con moltissime persone e nel corso di questo scritto vorrei cercare di ricordarle tutte. Se devo trovare un principio è senza dubbio all’inizio di New Babylon, e la prima immagine che mi viene in mente è la scultura che stava nello studio di Constant ad Amsterdam quando sono andato a trovarlo nel marzo del 2000: Ruimtercircus[1], ossia Circo Spaziale, realizzata nei giorni in cui si fondava l’Internazionale Situazionista. Da quella scultura nascerà Ontwerp voor Zigeunerkamp[2], il Progetto per il Campo degli Zingari di Alba. È l’inizio di New Babylon, la prima utopia nomade della storia dell’architettura. La Babele orizzontale e planetaria che vive attraversando un mondo libero dalla schiavitù del lavoro. New Babylon nasce come omaggio al circo, al simbolo del movimento perenne che trova ospitalità tra gli scarti urbani e nei piazzali polverosi dove finisce la città. È lo spazio del Sahel, quella fascia ibrida tra i nomadi del deserto e le prime case dei sedentari. Lo spazio dove avviene lo scambio e ci si riconosce reciprocamente. Lì dove i nomadi piantano le loro tende e mostrano la loro architettura, l’altro modo di abitare il mondo. Il circo è tenda nomade che si fa monumento, è la colorata gonna gitana che si fa spazio e che si mostra fiera della propria alterità, come lo sguardo di sfida di una zingara. Ecco che mi viene in mente una seconda immagine: La Toile de la Folie, un grande tendone-cinema che, con Serena Olcuire e tanti altri abbiamo realizzato in una bidonville di Parigi, cucendo teli, lenzuola e vestiti insieme alla comunità rom di Ris-Orangis e Grigny.[3]

D: L’immagine è efficace ma ancora non capisco. Mi sembra una visione romantica e nostalgica di un mondo ormai andato o comunque marginale. Che cosa c’è di attuale nel circo? Perché pensate che le nostre città ne abbiano bisogno? Perché è addirittura Irrinunciabile?

R: Il circo è il nomade socialmente accettabile e nel clima xenofobo di oggi rievocare la sua immagine è molto utile a una diversa narrazione dei tanti altri da sempre presenti tra le nostre culture. Il circo è desiderabile, è il diverso tra noi che ci è familiare e di cui possiamo avere non troppa paura; ci tiene in tensione, con il fiato sospeso, ma è un rischio che possiamo correre. È senza regole, provoca le nostre certezze, ne sentiamo un’arcaica necessità. È irrinunciabile, indomabile, irriducibile, è proprio la contraddizione di cui sentiamo bisogno: un luogo capace di perpetuare la sua alterità mantenendo la tensione alta, senza sfociare nel conflitto. Se omologato alla città perderebbe le sue energie rigeneratrici, la sua carica  di provocazione, di stimolo, di innovazione. Deve essere garantita la sua natura di spazio in divenire, di sperimentazione continua che invece di subire regole è capace di proporre nuove regole per tutti. Il circo è un’eterotopia, un’utopia concreta dove realtà e rappresentazione si confondono, tra surrealismo e neorealismo. Una cruda realtà che si offre sotto forma di spettacolo. Un mondo inclusivo dove anche lo zingaro, il nano, la donna cannone, il folle, trovano spazio mettendo in comune le proprie incredibili capacità. Il circo stabilisce una relazione di reciprocità presso il contesto in cui si insedia, è un parassita, una “forma di vita che si posiziona presso l’alimento o la fonte di sostentamento (…) o che partecipa a un banchetto senza avere un ruolo definito, senza averlo organizzato e senza avere meriti particolari per essere invitato, ma allieta gli invitati con giochi e scherzi[4].”  

D: Banchetto, reciprocità, scambio con chi non è stato invitato… forse comincio a capire che la natura della vostra proposta sia proprio qui, nella lettera O dell’acronimo, l’Ospitalità.

R: La terza immagine a questo punto è il Pranzo Boario, il banchetto interculturale organizzato da Stalker  nel 1999, insieme alla comunità curda, ai Rom Calderasha e ai tanti migranti che si erano fatti spazio nell’ex Mattatoio di Testaccio.[5] Avevamo invitato tutti a cucinare i propri piatti e abbiamo disegnato un cerchio con i tavoli. Quella prima azione conviviale ha significato un patto di reciproco rispetto tra diversi, tutti stranieri tra loro, tutti illegali in quel posto. Occupare Ararat insieme a curdi, rom, attivisti ed artisti, è stata la prima creazione di uno spazio di relazione con l’alterità, un primo circo. E infatti è la prima visita che facciamo ogni anno con gli studenti. Perchè Ararat è ancora là, in venti anni ha offerto ospitalità a più di 25.000 persone. È oggi l’unico centro per rifugiati interamente autogestito e fuori dal circuito dell’accoglienza istituzionale, e non è nelle periferie ultime della città, ma dentro le mura aureliane.

D: Da come l’hai detto mi sembra che marcate una certa differenza tra accoglienza e ospitalità e sento una malcelata critica al sistema di accoglienza istituzionale.

R: Questo lo abbiamo messo a fuoco più recentemente con Stalker e NoWorking - ci  torneranno più avanti Lorenzo Romito e Giulia Fiocca - a cominciare dal progetto Xeneide.[6] Il titolo riprende la parola greca ξενία, il dono che l’ospitante fa all’ospitato in base a quelle regole reciproche che sono alla base dell’ospitalità. Mentre “accoglienza” è una parola unidirezionale, che rimanda ai bisogni - a coperte, pasti caldi, assistenza legale e sanitaria - ad accudire i corpi e non le persone, “ospitalità” si basa invece su uno scambio reciproco, guarda all’ospite come portatore di cultura e di risorse, un dono immateriale che verrà ricambiato. In tutte le culture arcaiche l’ospitalità è un atto sacro. Si deve aprire a chi bussa alla tua porta perché sotto le mentite spoglie del viandante potrebbe esserci un dio. E chi non ospita lo straniero subirà la punizione divina. Dopo essersi riposato, una volta sazio, l’ospite se ha piacere racconta di sé, da dove viene, delle terre attraversate, delle genti conosciute, ci offre il dono di conoscere il mondo. E quando l’ospite riparte, il suo ospite gli offre un dono che porterà con sé nel prosieguo del viaggio, la xenìa di un'amicizia che sarà per sempre, anche nelle future generazioni.

D: Il modello di ospitalità informale di Ararat, in cui interagiscono attivisti, migranti ed artisti, mi fa venire in mente le attuali occupazioni abitative romane, le esperienze di Metropoliz, Porto Fluviale e Spin Time Lab. Siete in contatto?

R: Sì certamente, sono lo spazio più simile a quello che noi chiamiamo CIRCO. Ci siamo approdati dopo aver lavorato con i Rom al Casilino 900 dove avevamo realizzato Savorengo Ker-La casa di tutti, un cantiere di autocostruzione a reciproco riconoscimento veramente incredibile, ma questa è una lunga storia.[7] Durante l’attuazione del Piano Nomadi di Alemanno - ossia gli sgomberi e i nuovi campi di concentramento, inseguito finiti nell’inchiesta Mafia Capitale - abbiamo seguito una comunità Rom che, volendo intraprendere un cammino fuori dall’apartheid, era approda all’occupazione di Metropoliz. Su invito di Leroy, studente occupante che aveva deciso di svolgerci la sua tesi di laurea,  abbiamo cominciato un lavoro sul campo da cui sono nati il LAC - Laboratorio di Arti Civiche, e il progetto Pidgin City[8] : raccontare quella città meticcia di arabi, italiani, latinoamericani ed est-europei, che per comprendersi comincia a mescolare, come nella Torre di Babele, le parole di tutte le lingue, e alla fine scopre un proprio linguaggio fatto di errori, il pidgin appunto. Metropoliz, ex-fabbrica occupata dai Blocchi Precari Metropolitani nel 2009, è stata la prima occupazione ad includere anche i Rom nella babele dei migranti. Grazie a questo primo passo, oggi ci sono Rom in diverse occupazioni e sono considerati occupanti come tutti gli altri. Il mondo delle occupazioni è stato l’unico a rompere l’apartheid. Questo abitare meticcio è stato raccontato nel film Space Metropoliz, dove con Maria Rocco e Leroy abbiamo costruito insieme agli abitanti un razzo per andare sulla luna, ma anche questa è una lunga storia.[9] Con il LAC abbiamo cominciato a lavorare anche al Porto Fluviale, una caserma occupata dal Coordinamento Cittadino Lotta per la Casa, trasformando il cortile attraverso un immaginario omerico di barche volanti e altalenanti.[10] Di questo spazio scriveranno più avanti Chiara Luchetti ed Enrico Perini, che con me e il Prof. Fabrizio Finucci vi hanno svolto la loro tesi di laurea e che attualmente lo abitano. Negli ultimi anni con Stalker abbiamo collaborato anche con Spin Time Lab - ex sede di un ente pubblico occupata da Action - che ha spazi comuni frequentatissimi come la taverna e l’auditorium, e ospita la redazione della rivista Scomodo scritta da ragazzi ventenni[11]. Questi esempi indicano alla città un chiaro progetto di rigenerazione urbana: trasformare edifici abbandonati in condomini interculturali. Se non fossero continuamente costretti a difendersi dai proprietari degli immobili, e fossero lasciati liberi di evolversi nella legalità, non ci sarebbe bisogno del progetto CIRCO.

D: Voi proponete quindi una forma istituzionale del modello informale delle occupazioni abitative. E chi amministra questa città non potrebbe mettere a disposizione uno spazio abbandonato in cui cominciare a sperimentare CIRCO? L’amministrazione è al corrente di tutto questo?

R: Due anni fa c’è stata una giornata in cui amministratori, occupanti, attivisti, artisti e intellettuali hanno fatto un lungo tour in pullman per comprendere più da vicino il fenomeno.[12] Ci sono diversi canali di comunicazione e in molti sono a conoscenza anche del nostro progetto. Il vicesindaco Luca Bergamo ci ha fornito un’occasione ufficiale di presentarlo alla Sindaca Virginia Raggi, c’è stato molto interesse finché si parlava di cultura, ma quando è emerso il tema dei migranti abbiamo capito che ci eravamo spinti troppo in là[13]. Tutte le amministrazioni, che siano di destra o di sinistra, si ostinano a relegare il tema dell'ospitalità come una questione di ordine pubblico o di servizi sociali, evitando accuratamente di affrontarla da altri punti di vista, come quello dell'urbanistica o della cultura. A cinque anni dal grande esodo del 2015, Roma è l’unica capitale europea a non aver ancora un piano ufficiale per l’accoglienza migranti e continua ad essere una città dove ospitare è impedito con tutti i mezzi. Nel giugno del 2018 abbiamo partecipato all’azione di Noantri Cittadini Planetari che insieme a centinaia di ragazzi di Scomodo e di tante realtà cittadine hanno occupato per un giorno Palazzo Nardini. Si tratta di un palazzo trecentesco accanto a piazza Navona, sede del primo governo papale e poi della famosa Casa del Governo Vecchio delle femministe negli anni settanta. È chiuso da quarant’anni, volevamo denunciarne la svendita da parte della Regione Lazio e portare l’attenzione cittadina sull’incredibile stato di abbandono del patrimonio pubblico. È stata un’azione immaginifica, siamo entrati con capre, oche e galline e invece di chiuderci dentro abbiamo aperto il portone alla città, sono entrate centinaia di persone. Nel portico del cortile un grande striscione: Roma Sogna. In seguito il TAR su denuncia della Soprintendenza ha bloccato la vendita da parte dello Stato. Lo Stato si è incartato da solo e ci vorranno decenni perché si riesca ad aprire quel gioiello. No, la politica non intende realizzare i sogni planetari.

D: Abbandono del patrimonio pubblico. All’inizio parlavamo dei vecchi circhi ai margini della città, poi di Ararat e dei movimenti che aprono edifici dismessi. Allora mi chiedevo: voi dove immaginate i vostri circhi? Ci sono ancora spazi vuoti in città? Non sarebbe meglio evitare di consumare suolo e rigenerare la città esistente?

D: Assolutamente d’accordo. Roma è piena di rovine ovunque, al centro ed in periferia, ed è sempre stato così. Roma è l’immagine stereotipata e pittoresca di antiche rovine e di genti diverse che vi trovano riparo. E quella immagine è ancora lì: vite di scarto che abitano tra gli scarti, indesiderati che ancora ricostruiscono la propria esistenza tra le rovine. Sembra che siano sempre rimasti là come parte della fauna locale, antichi e nuovi romani tutti da sempre stranieri. Nel 2016 con Stalker abbiamo organizzato una lunga camminata Tra le Rovine del Contemporaneo, tre giorni di cammino per visitare le Mirabilia Urbis, le opulente architetture delle archistar lasciate incompiute[14]. Quando abbiamo avviato il Laboratorio CIRCO, la prima urgenza è stato mappare gli scarti. Più avanti Alberto Marzo affronterà questo tema[15]. Alcuni si trovano in centro storico, altri nelle zone di margine, altri in aperta campagna, alcuni intrappolati in cantieri perenni, altri ultimati ma poi abbandonati, alcuni semplicemente sottoutilizzati, altri decisamente in rovina. La proposta non è di demolirli e di ricostruirli, ma di attivare cantieri sperimentali per recuperarli come luoghi ibridi, porosi, inclusivi, inediti. Mettere insieme spazi abbandonati con chi ha bisogno di spazi, trasformare entrambi i problemi in risorse reciproche.

D: Ok, mi si chiariscono le idee e quello che all’inizio sembrava un’utopia situazionista trova diverse conferme nella realtà, nell’esperienza cittadina e nelle risorse esistenti. Ma mi mancano ancora dei punti, chi sono per voi gli abitanti di CIRCO, i nomadi urbani, gli abitanti transitori della città? Vi rivolgete a chi oggi abita le rovine? Non c’è il rischio di creare dei nuovi ghetti concentrando la povertà?

R: Nelle esperienze delle occupazioni abitative sono presenti molte declinazioni della povertà urbana e di abitanti transitori e tra loro hanno sviluppato interessanti forme di coabitazione e reciprocità. Esattamente il contrario di quello che fa il sistema dell’accoglienza che categorizza le persone secondo provenienza, diritti e genere e li spazializza in differenti contenitori omogenei ed ermetici, disumani e infantilizzanti, dove è vietato a cucinarsi da solo e avere un momento di intimità. A Roma l’emergenza abitativa non riguarda solo migliaia di persone da anni in liste di attesa per una “casa popolare”, ma anche di chi ha progetti di vita e desideri diversi e che non è considerato da nessuna politica abitativa: rifugiati e richiedenti asilo allontanati dal sistema di accoglienza istituzionale oggi in via di smantellamento, quelli che hanno esaurito i termini temporali e non sono riusciti a mettersi in regola, o i cosiddetti dublinati che l’Europa rimanda indietro a causa del trattato di Dublino che obbliga di richiedere l’asilo nel paese dove sono sbarcati; poi c’è l’universo dei migranti economici, quelli in transito che preferiscono non essere registrati in Italia e cercano di raggiungere il nord Europa, e quelli che hanno relazioni e lavoro in Italia ma sono costretti alla clandestinità perché ai loro paesi non è riconosciuto l’asilo... Ma insieme a loro potrebbe abitare una quantità di persone che hanno le stesse necessità di spazio e di ospitalità e che sono un ottimo ingrediente per la mixitè sociale e culturale: gli studenti fuorisede costretti ad affittare stanze ad altissimi prezzi di mercato e vivere una vita da miseria; i cosiddetti “expat” e le loro necessità abitative; i lavoratori stagionali che hanno bisogno di un tetto solo per alcuni mesi all’anno o alcuni giorni a settimana; le mille forme di precariato, che un po’ di lavoro ce l’hanno ma sono costretti a vivere nei dormitori dell’hinterland; e poi tantissimi artisti, attivisti, figure del volontariato sociale, fino a turisti interessati a fare una vacanza diversa abitando una strana casa in cui potrebbero mettere a disposizione le proprie competenze. Tutti questi hanno bisogno degli altri per avere un spazio anche per sé. Il CIRCO è il contrario del ghetto e dell’accoglienza istituzionale dove se si appartiene a una certa categoria, la vita diventa un numero in attesa, un corpo da corpo da nutrire, impossibilitato a dare. Nel circo l’ospitalità avviene tra persone capaci di scambiarsi doni, come nel mondo antico, senza chiedere documenti. Perché nessuno è illegale.

 

Lista delle immagini

1) Constant, Ruimtercircus (Circo Spaziale, 1956-1961 ) e Ontwerp voor Zigeunerkamp (Progetto per un Campo di Zingari, 1957. 

2) Stalker e Ararat, Pranzo Boario, 1999, tre foto di Romolo Ottaviani. 

3) Stalker e Casilino 900, Savorengo Ker- la casa di tutti, 2008, foto di Giorgio de Finis

4) Lac e Metropoliz, il razzo di Space Metropoliz, 2010, foto di Luca Ventura

5) Lac e Porto Fluviale, barcalene, 2012. 

6) Il circo a Spin Time Lab, 2018. 

7) Noantri Cittadini Planetari, Palazzo Nardini, foto di Tano d’Amico 

 

 



[1] Cfr. Careri F. 2001, Constant / New Babylon. Una città Nomade, Testo & Immagine, Torino, p. 55: “Al suo ritorno da Alba Constant realizza il Ruimtercircus (Circo Spaziale, 1956 -1961), l'unica maquette presente ancora oggi nel suo atelier, quella che Constant considera la prima della serie di New Babylon. Il titolo denuncia l'impatto avuto con la cultura nomade. Il circo è una microsocietà ludica che si sposta sul territorio occupando di volta in volta gli spazi di scarto delle città sedentaria. È una città mobile che si installa sui terrain vague dell'urbanistica funzionalista mostrando un modo diverso di abitare il mondo.”

[2] ibidem: “ È pensato come la struttura di una gigantesca tenda nomade. È uno spazio architettonico flessibile e continuamente trasformabile: appoggiandosi sulle sue strutture metalliche si potranno montare e smontare i vecchi teli di feltro come le moderne pareti mobili, all’interno di questa grande nebulosa rotta si potranno costruire, disfare e poi ancora ricostruire quegli ambienti transitori di un’antica civiltà che sa già di futuro.” 

[3] La Toile de la Folie è un progetto di Stalker e LAC realizzato nel 2014, su invito dell’Associazione PEROU e del Collective des Ambassadeurs des Roms à la Folie de Grigny, da Serena Olcuire, Florian Loesch, Camilla Martino e Giulia Panadisi. Cfr. https://jupechapiteau.wordpress.com/

[4] Definizione di Alessandra Lai. Cfr. Careri F., Lai A. 2020, “Roman lessons: what if informality was not a bug to be corrected but a bacterium capable of reactivating a dormant urban metabolism?”, in Di Raimo A., Melis A., Lehmann S. (eds) Informality Now. Informal settlements through the lens of sustainability, Routledge, London

[5] Su Ararat e sull’esperienza di Stalker al Campo Boario di Testaccio esiste un libro inedito di Stalker Osservatorio Nomade, Circles. Campo Boario 1999-2009, interamente scaricabile su: (https://www.dropbox.com/s/uoe777ovcg9fmdg/librostalker%20campo%20boario.pdf?dl=0).

Su Pranzo Boario vedi il video di Aldo Innocenzi: https://www.youtube.com/watch?v=L2v9H7SbbBs

[6] Xeneide – il dono dell’Altro. Miti, Pratiche, poetiche dell’ospitalità è un progetto cura di Stalker e NoWorking del 2017. Cfr. https://xeneideblog.wordpress.com/

[7] L’esperienza di Stalker con i Rom è raccontata in forma di autodialogo in: Careri F. e Romito L. 2017, Stalker/On. Campus Rom, Altrimedia, Matera. Sulla realizzazione della casa vedi il film C’era una volta Savorengo Ker, di Fabrizio Boni e Giorgio de Finis: https://vimeo.com/album/1540238

[8] Il LAC Laboratorio di Arti Civiche è un gruppo di ricerca del Dipartimento di Studi Urbani dell’Università Roma TRE, attivo dal 2009 e da cui nel 2017 è nato il Laboratorio Circo.

[9]  Sul lavoro del LAC a Metropoliz e Pidgin City vedi: Broccia F., Careri F., Goni Mazzitelli A., Muzzonigro A. 2013, “Metropoliz. Roma communities outside camps: new geographies of threshold spaces in Rome”, in Planum. The journal of Urbanism n°27/ 2, pp. 59-65; Careri F. 2015b “Autodialogo su Metropoliz”, in Boni F. e De Finis G. (eds) Space Metropoliz. L'era delle migrazioni esoplanetarie, Bordeaux Edizioni, Roma; Space Metropoliz è un film di Fabrizio Boni e Giorgio de Finis, il quale ha poi lanciato il MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, ed il Macro Asilo, due degli spazi culturali più innovativi ed ospitali di Roma.

[10] Su Porto Fluviale vedi Careri F. 2015, “Tano, Blu e il Porto Fluviale” in De Finis G., Benincasa F., Facchi A.(eds), EXPLOIT. Come rovesciare il mondo dell’arte. D-Istruzioni per l’uso, Bordeaux Edizioni, Roma, pp. 611-623. Vedi anche Good Buy Roma, film di Gaetano Crivaro e Margherita Pisano:  http://vimeo.com/30077767.

[11] A Spin Time Lab si è svolto un laboratorio di tesi di Laurea del Dipartimento di Architettura di Roma Tre, coordinato dalla Prof. Chiara Tonelli, e i progetti degli studenti sono stati pubblicati in un fascicolo allegato al numero 11 di Scomodo.

[12] L’esperienza è raccontata dai partecipanti nel libro De Finis G. e Di Noto I. 2018, R/home. Diritto all’abitare dovere capitale, Bordeaux Edizioni, Roma.

[13] Si è trattato di un intervento, in occasione di un convegno organizzato alla Casa del Cinema il 2 maggio 2018, sul tema dei cinema abbandonati, sulla base della tesi di laurea di Giulia Marzocchi che ne scrive in questo libro.

[14] Tra le rovine del contemporaneo è un progetto di Stalker elaborato in occasione di Studio Roma, presso l’Istituto Svizzero a Roma nel 2016. Cfr. Romito L. 2015, “Walking out of Contemporary”, in Mitrasinovic M. (Ed) Concurrent Urbanities: Designing infrastructures of Inclusion, Routledge.

[15] Vedi sezione mappe nel blog: https://laboratoriocirco.wordpress.com/2018/04/07/mappe/

2 commenti:

  1. Grazie mille prof. Careri per il racconto di queste esperienze preziose; parlarne è sempre importante, che la parola parta dal mondo dell'arte e della cultura è - lo è stato grazie al suo/vostro lavoro - rivoluzionario.
    Simona

    RispondiElimina
  2. Grazie Simona, non sai che piacere mi fa questo commento. Grazie mille

    RispondiElimina