30/03/22

Bagnasciuga Urbani

 

Articolo pubblicato con il titolo Bagnasciuga urbani, oltre le città sedentarie in: Alessandra Criconia, Isotta Cortesi, Anna Giovannelli (eds), 40 parole per la cura della città, quodlibet, Macerata 2020, pp. 62-67

La nostra natura consiste nel movimento.

La quiete assoluta è morte.

(Pascal, Pensèes)

Confinamento

Camminare fa bene al corpo e alla mente. Rimette in circolo il sangue e i pensieri, permette il fluire delle energie vitali, svuota la testa e riempie lo spirito. È per questo che il camminare è un diritto irrinunciabile, è una necessità primaria per la quale siamo disposti a tutto, anche a sfuggire al controllo sotto quarantena. Lo abbiamo visto nei giorni del covid, quando camminare era diventato illegale e si portava continuamente a spasso il cane, si usciva con il carrello della spesa, in compagnia di una bicicletta, travestiti da sportivi o da congiunti. I centri commerciali erano chiusi, i parchi erano chiusi, chi voleva farsi un giro per prendere aria non sapeva più dove andare. Se uscivi dovevi stare fermo nelle file dei supermercati e delle farmacie. Quando ci si incontrava sullo stesso marciapiede si dovevano fare grandi manovre di aggiramento e gli occhi sopra le mascherine mostravano il timore di essere denunciati. Le macchine della polizia pattugliavano le strade a caccia di pedoni come fossero sospetti sovversivi. Un signore che aveva deciso di fare una camminata sulla spiaggia è stato accerchiato da poliziotti con moto da sabbia, e giornalisti sull’elicottero. Una scena indimenticabile.

Durante il confinamento per camminare bisognava trovare posti fuori dal controllo, e in alcune città questi spazi esistono ancora, per fortuna. Sono quei posti dove non c’è nessuno, o quasi. Quelle zone dove prima si vedevano solo i rom di ritorno alle baraccopoli con i carrelli pieni di ferraglie, i migranti che uscivano dai cespugli in bicicletta con lo zaino giallo di Glovo, oppure quelle comitive di adolescenti che ci si trovano per fumarsi le canne, che fanno tardi la notte, che bevono e parlano ad alta voce e gridano e a volte si menano. Sono i posti dove, da sempre, vanno solo quelli che cercano di sottrarsi al controllo delle telecamere e delle finestre. Zone che di solito cominciano con un parcheggio asfaltato, poi con una strada rotta e polverosa e da lì un buco nella rete che ti porta a un sentiero, a diramazioni e altri sentieri, e se sei motivato puoi fare chilometri a piedi senza essere visto da nessuno.

I margini delle città sono pieni di questi posti. E le città che non ne hanno abbastanza soffrono, gli manca l’aria. La salute di una città dipende anche dall’esistenza di spazi in cui nascondersi.

Nei giorni del covid, questi luoghi sono diventati l’unico spazio pubblico possibile. Il covid ha chiuso tanti spazi, ma ne ha svelato molti altri. Quelli dove il selvatico tiene a bada l’azione dell’uomo e riconquista il suo spazio alla città: spazi di bordo, indefiniti, nascosti, abbandonati, sconosciuti o ritenuti pericolosi. Posti dove già prima della pandemia, le piante crescevano rigogliose tra le crepe dell’asfalto e invadevano la strada, zone dove nessuno viene a innaffiare gli alberi o portare via i frigoriferi. Posti dove tra le lavatrici e i copertoni delle auto, fioriscono alcove per umani e tane per gli animali. Durante la quarantena tutto questo si è popolati di uccelli, di volpi, di cinghiali che dalle zone più lontane si avventuravano verso il centro. Il covid ha trasformato gli spazi del degrado in luoghi del possibile, e lo ha fatto per tutti, non solo per gli animali e le piante, anche per noi. E quando finalmente si è potuti uscire seppure solo intorno a casa, questi spazi sono diventati parte delle nostre case, del nostro quotidiano. Chi voleva espandere l’ora d’aria dal proprio terrazzo in spazi più vasti, andava lì. E lì trovava la complicità di persone di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali, alcuni addirittura senza mascherina, e nessuno con l’intenzione di denunciarti. Signori a passeggio, alcuni con il cane, altri in coppia, a volte in gruppi ma distanziati, e poi famiglie nascoste nei canneti a fare un pic-nic, bambini che giocavano a pallone, altri imparavano a camminare. Tutti complici e tutti illegali. Tutti liberi di camminare e di socializzare.

 

Sicurezza

Mi sono chiesto se questo è successo solo nella mia città e com’è andata nelle città europee e nel resto del mondo. Amici spagnoli mi hanno raccontato di fenomeni molto simili, mentre nei continenti americani, la paura di camminare si è invece acuita, sia per il virus che per il senso di insicurezza. E in generale i ricchi sono rimasti in casa e i poveri per sopravvivere hanno continuato a camminare illegalmente. I ricchi hanno continuato a uscire in macchina, quella estensione della casa che oramai è diventata una sorta di periferica del nostro corpo, come lo smartphone. Il fattore sicurezza, che è il principale criterio con cui oggi si fa l’urbanistica, è anche il principale nemico della libertà di camminare. Nelle città italiane la sindrome securitaria, seppure alimentata dai media e dai politici, ancora non ha avuto la meglio. Da noi lo spazio dell’andare resiste, continua ad essere uno spazio a diverse velocità e dove i flussi permettono l’incontro dell’Altro e la mixité sociale. È spazio della scoperta e del perder tempo, dell’assembramento e della solitudine, del consumo ma anche dell’incontro, della relazione e dell’indifferenza di chi ha fretta e non ha tempo per ciò che gli capita accanto. Fa incrociare i flussi di quelli che corrono e di quelli che sono lenti, di quelli in macchina, di quelli in bici e di quelli in panchina. Ma soprattutto fa incrociare i flussi di quelli che sono belli, bravi e buoni con quelli che sono “brutti, sporchi e cattivi”.

Fuori dall’Europa chi cammina per le strade è un homeless, un ladro o un potenziale assassino. Nelle strade dei ricchi siamo spiati ovunque da inutili telecamere di sorveglianza, capaci di ricostruire la dinamica di un assalto in un video, ma non certo di inibire o fermare chi ti sta assalendo. Non volendo portare l’esercito nelle strade in difesa dei pedoni, è chiaro che l’unica soluzione alla supposta violenza è aumentare gli occhi umani, i loro corpi, le loro capacità relazionali.

Deve aumentare la gente che cammina. Se i ricchi vogliono avere più sicurezza, devono cominciare ad andare a piedi. Forsa potrebbe essere l’occasione di incontrare gli altri e abbassare il livello dei propri pregiudizi. Solo allora le città saranno anche più sicure: più gente cammina per strada e più c’è sicurezza, questa è un ovvietà. Ma non così tanto, e la direzione che sta prendendo il mondo è quella opposta. A Sao Paulo in Brasile i super ricchi non scendono neanche più per strada. Dal loro appartamento salgono sul terrazzo e si spostano in elicottero, i loro figli vanno all’università con l’autista ed entrano in aula con le guardie del corpo, li ho visti.

Ma anche in Europa, nella nuova dispersione urbana, dove vive la classe media, le cose non vanno molto meglio. Interi quartieri nuovi sono raggiungibili solo in macchina e chi ci abita prolunga lo spazio privato dalla sua casa all’ufficio, passando per il proprio garage, per la corazza mobile della sua macchina e poi per un altro garage del centro commerciale o dell’ufficio. Stanno scomparendo i naturali “luoghi di attrito” con l’Altro, come il giornalaio, il panettiere, il tabaccaio, la fermata dell’autobus. Ormai anche quando ci si sposta si vive in bolle non comunicanti, in isole autoreferenziali. Con Stalker negli anni novanta avevamo cominciato a descrivere la città come arcipelago di isole e di mari: un mare di vuoti, insenature e interstizi a volte ben mantenuti come parchi e terreni agricoli, altre volte abbandonati come pascoli e terrain vagues. Questi spazi aperti separano delle isole più o meno grandi come quartieri, enclaves, gated comunieties, aree industriali, campi rom, slums: isole omogenee, non connesse tra loro e spesso neanche con le reti veloci della mobilità su ferro. Nelle isole più lontane e dimenticate, se sono anche povere, allora oltre ai percorsi sicuri mancano luoghi aperti, spazi di incontro, giardini, e al loro interno non c’è più spazio disponibile per realizzarli. In questi casi la metafora dell’arcipelago ci viene incontro.

 

Bagnasciuga

Se vogliamo che la gente ricominci a camminare non basta pedonalizzare le zone centrali delle isole, si deve lavorare sul “bagnasciuga”, sui bordi e sugli spazi di attrito divenuti visibili grazie al covid. Il bagnasciuga è uno spazio ibrido tra terra e mare, tra vuoto e pieno, tra nomade e sedentario. Nella metafora marina i bordi sono sempre diversi, a volte sono costa, a volte scogliere impervie, altre volte spiagge accessibili, altre volte ancora lungomare attrezzati. Spesso lungo i bagnasciuga urbani c’è spazio, bastano pochi metri e allora un marciapiede può diventare pista ciclabile, contenere sport, ombra, sedute, piccoli servizi, alberi, giardini, zone incolte, fino a diventare parchi lineari, lunghi e ibridi spazi interstiziali. Spazi vuoti che possono dialogare e interagire con la natura in abbandono, ospitare non baraccopoli ma campeggi in cui i turisti possono convivere in tenda accanto ai senza fissa dimora, inventare posti in cui l’Altro può manifestarsi fiero della propria diversità, come succedeva con i circhi negli spazi di bordo di tutti i paesi. Nel bagnasciuga ci sono ancora avventure da sperimentare. Dal bagnasciuga partono sentieri che attraversano i mari, rotte che raggiungono in pochi minuti quelle stazioni delle metro dove spesso non ci sono sufficienti parcheggi e per arrivarci in macchina o in autobus si impiegano ore. Sui bordi si possono immaginare moli, pontili, lungomari, darsene, spiagge, porti… chilometri di costa dove il mare dell’Altro, il deserto del Nomade e le barche dei Migranti possono approdare e dialogare con le nostre vecchie e sfinite Città Sedentarie.

Per costruire la città del camminare non servono soldi e neanche architetti, serve solo che la gente cammini.


Finito il confinamento si è potuto uscire, ma era meglio stare in spazi aperti, meglio non prendere gli autobus, meglio camminare. Sempre più gente ha scoperto questi bordi a cui non aveva mai pensato prima, e di cui soprattutto non aveva mai sentito la mancanza. La voce ha cominciato a circolare, avevamo tutti un tesoro sotto casa. E alcuni hanno cominciato a indignarsi, a protestare, a dire quanto spreco, quanto basterebbe poco per pulire tutto, illuminare, mettere le panchine e trasformare in un parco. E raccontavano di parchi visti nell’ultimo viaggio all’estero con fontane che si attivano quando passi e bellissime architetture contemporanee. Ma molti altri dicevano che era meglio di no, che era bello così, che bastava occuparsene e prendersene cura, una pulizia sì, poteva andare bene, ma non c’era bisogno di architetti e paesaggisti, solo di persone, di animali e di piante. Che se si decide di fare dei progetti poi chiudono tutto per anni e non si potrà più usare, che per spendere più soldi e guadagnarci di più avrebbero fatto cose inutili e anche brutte, meglio abitarlo e trasformarlo nel tempo, con il minimo dello sforzo. Che il selvatico altrimenti sarebbe tornato lontano, solo nei boschi. Che l’unica architettura per abitare insieme questi posti è nei nostri piedi, è il camminare.


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