è rivolto agli studenti
magari qualcuno di voi, anche dei vecchi corsi
potrebbe essere interessato
se ho capito bene è under 35
http://www.uniroma3.it/news.php?news=2076&p={p}
25/03/11
24/03/11
23/03/11
10/03/11
su tempo spazio e camminare
Su tempo spazio e camminare
(Marina Rossi, Intervista a Francesco Careri, “OVO” n° 5/2010, Empoli, pp. 56-60.)
Tempo
M.R. : Agire sul tempo. Questo mi sembra un aspetto importante della tua azione, da affrontare prima ancora della questione dell’agire sullo spazio. Mi riferisco all’operazione di creare una situazione, una condizione, una temporalità che rompa con la scansione quotidiana: uscire dal tempo della produzione per entrare in quello del ludus.
La forma del workshop, come quella che hai messa in atto con i ragazzi con cui hai lavorato ad Empoli, mi sembra che possa inscriversi nella dimensione di un uso del tempo di questo tipo. Ha funzionato così? Si può intendere come un modo per “riappropriarsi della città e usare la città come un gioco” (cfr. Walkscapes)?
Questa costruzione di una temporalità altra, passa attraverso il camminare. E con ciò tocchiamo uno dei punti cruciali della tua elaborazione estetica.
Nel presentare il lavoro del workshop agli studenti, hai evidenziato più volte come prioritario questo camminare rispetto al lasciare tracce, o meglio rispetto all’arrivare a produrre opere. Cosa ci puoi dire del camminare come strumento critico/metodo euristico?
In particolare, ti chiederei di soffermarti su due aspetti. In primis sull’andare “a zonzo”, cioè su quanto/come l’impressione di perdere tempo o di non star facendo nulla diventi esperienza di uso alternativo del tempo e dello spazio e metodo collettivo di “abitare la città”.
F.C. : in realtà il tempo e lo spazio sono sempre collegati. Chi perde tempo guadagna spazio. Questa semplice frase che è da tempo il motto di Stalker, è forse l’unica risposta che posso dare. Si può anche declinare cosi: chi non perde tempo, non guadagna spazio. Chi ha delle barriere mentali che non gli permettono di lasciarsi andare a scavalcare in luoghi proibiti o giudicati “pericolosi”, come nel greto del fiume Arno durante la deriva notturna di Empoli, perde emozioni spaziali assolutamente inedite e a volte molto rigeneranti e sicuramente formative. Riappropriarsi del tempo da dedicare al ludus è insomma il modo più semplice di riappropriarsi degli spazi della città, una città che ormai viviamo sempre più in forma utilitaristica. Per conoscere altri spazi e situazioni è necessario un salto nell’inutile, avere una concezione antiutilitaristica del tempo, ossia giocare. Il perdersi camminando è quindi il gioco più adatto a far tendere la velocità a zero, e a portare spazio e tempo verso l’infinito. Forse non è matematicamente così, ma è così che leggo la formula V = S/T. È l’essenza stessa del camminare, dell’andare lento, del non arrivare e del “lisciare” la meta.
Camminare come strumento critico: potenza performativa del camminare.
M:R. : C’è poi una altro aspetto secondo me strettamente collegato al primo: quello della doppia valenza del camminare come atto percettivo e creativo allo stesso tempo, ciò che definisci operazione di lettura e scrittura del territorio. Vorrei chiederti qualche riflessione sul valore performativo del camminare, sul fatto che attraverso il camminare non solo si vedono territori altrimenti marginali, ma si producono luoghi. In Walkscapes scrivi: «Uno dei principali problemi dell’arte del camminare è trasmetterne in forma estetica l’esperienza».
F.C. : il perdersi camminando produce automaticamente un racconto. È il racconto condiviso dei corpi del gruppo che esplorano e percepiscono uno spazio fisico e mentale sconosciuto. È quindi necessariamente una lettura del territorio, che avviene con uno spostamento del punto di vista e quindi attraverso uno spaesamento, o se vuoi spaesaggiamento, come il guardare a testa in giù, “con la testa sotto le gambe”, come scrive Benedetto Croce. Il problema della rappresentazione si pone nel momento in cui si vuole “mettere in bella” questo il racconto prodotto automaticamente dall’esperienza. È un problema di natura estetica e di non facile soluzione. In realtà la forma più coerente dovrebbe essere quella di non lasciar tracce e vivere semplicemente l’esperienza senza interpretarla. Aldo Innocenzi che ha fatto tutti i video di Stalker, ha cercato di risolverlo portando con sé una telecamera intesa come corpo estraneo, senza guardarci mai dentro, per lasciare che il territorio si autorappresentasse senza una sua/nostra interpretazione. Abbiamo anche pensato di fare il video in super8 e mano mano che la pellicola si impressiona lasciarla cadere dietro di noi, lasciando così una scia di pellicola del video di quel territorio direttamente sul luogo appena attraversato. In questo caso la rappresentazione sarebbe istantaneamente riterritorializzata e persa comunque per sempre. Non lo abbiamo mai fatto perché la pellicola è un materiale altamente inquinante.
Attivismo. I walk (not) alone.
M. R. : Camminare può essere un modo per dare corpo al “margine”? Se e in che misura diventa azione politica e non puro esercizio sulla percezione?
Il tuo è soprattutto un camminare con gli altri. Lo era con l’esperienza Stalker, nella forma del collettivo artistico, così come lo è oggi con gli studenti empolesi, figli di migranti e figli di italiani di vecchia generazione, un gruppo di persone che deve anche imparare a conoscersi reciprocamente. Cosa cambia, quali valori si mettono in campo?
F.C. : il camminare di per sé ha già una suo valore etico, se vuoi anche politico. L’andare lento è parente della decrescita, del low tech, abbassa ai minimi termini l’appartenenza a questo mondo sempre più governato dal PIL, non consuma idrocarburi, non inquina, anzi fa anche bene al corpo e alla mente. Questo è in controtendenza con i valori che ci vengono proposti. È in questo senso che ho scelto il nome di Laboratorio di Arti Civiche per il corso peripatetico che conduco alla Facoltà di Architettura di Roma Tre e anche per il workshop di Empoli. Credo che l’urbanistica, l’architettura, l’arte pubblica, l’antropologia e sociologia urbana e tutte le discipline che si occupano oggi della città possono insieme confluire in azioni creative di ricostruzione del senso della città e del vivere comune. È in questo senso che le chiamo Arti Civiche. Ma c’è poi l’elemento formativo, quando andiamo a fare lezione in città esploriamo universi assolutamente sconosciuti, agli studenti e ai cittadini che si uniscono a noi. Oggi l’unico modo di conoscere quello che ci sta succedendo intorno è quello di andarci a portare i nostri corpi, un po’ come i dadaisti nel 1921 nella loro prima visita ai luoghi banali della città. La nostra presenza in un luogo dà senso e valore a quel luogo gli cambia di significato.
I wish
M. R. : «Cosa desideri?» è quello che avete chiesto alle persone durante la manifestazione dei migranti del primo marzo. Dalla lettura delle frasi raccolte è poi partita la riflessione che ha condotto alla progettazione dell’intervento artistico. Nel tuo libro riporti dei passaggi molto belli di Guy Debord sull’opzione di una rivoluzione fondata sul desiderio. Si può dire anche di te che stai lavorando per “costruire un modo di vivere appassionato”? Nel caso di quanto fatto ad Empoli, come si tradurrà l’esperienza del workshop in azione pubblica?
F. C. : Mi hanno colpito i desideri raccolti alla manifestazione del 1 marzo, sono desideri di una vita normale e degna di un essere umano, ed è incredibile che siano ancora oggi dei desideri rivoluzionari quando sono invece semplicemente dei diritti negati. Mi hanno colpito anche le parole del sindaco, del parroco e del portavoce del consiglio degli stranieri. E mi ha entusiasmato il mettere insieme gli studenti del liceo artistico (tutti italiani che vivono fuori dal centro) con lavoro i ragazzi di Milleunavoce (tutti stranieri che vivono e abitano il centro della città). Da questo punto di vista Empoli mi è sembrata un’isola felice e spero che il nostro lavoro potrà essere utile all’approccio multiculturale della città. Ma mi hanno colpito anche i comportamenti omologati di alcuni studenti. La loro paura a mettersi in gioco e a guardare le cose da un altro punto di vista, il loro rifiuto a scendere sull’Arno di cui ho detto sopra, l’accettazione acritica dei modelli televisivi. Per molti di loro hanno credo che il workshop abbia cominciato a scalfire i pregiudizi e le verità mediatiche che gli vengono inculcate. Molti di loro vivono già in modo “appassionato” e questa mi è sembrata la più bella delle scoperte empoletane. Il lavoro comunque è lungo, non basteranno venti anni per disfarci da quanto è stato compiuto in questo ventennio in Italia. Per ricitare ancora una volta i nostri avi: “Gli urbanisti del XXI secolo dovranno costruire delle avventure. L’atto situazioni sta più semplice consisterà nell’abolire tutte le memorie dell’uso del tempo della nostra epoca. Un epoca che, fino ad oggi ha vissuto molto al di sotto delle proprie possibilità.”
(Marina Rossi, Intervista a Francesco Careri, “OVO” n° 5/2010, Empoli, pp. 56-60.)
Tempo
M.R. : Agire sul tempo. Questo mi sembra un aspetto importante della tua azione, da affrontare prima ancora della questione dell’agire sullo spazio. Mi riferisco all’operazione di creare una situazione, una condizione, una temporalità che rompa con la scansione quotidiana: uscire dal tempo della produzione per entrare in quello del ludus.
La forma del workshop, come quella che hai messa in atto con i ragazzi con cui hai lavorato ad Empoli, mi sembra che possa inscriversi nella dimensione di un uso del tempo di questo tipo. Ha funzionato così? Si può intendere come un modo per “riappropriarsi della città e usare la città come un gioco” (cfr. Walkscapes)?
Questa costruzione di una temporalità altra, passa attraverso il camminare. E con ciò tocchiamo uno dei punti cruciali della tua elaborazione estetica.
Nel presentare il lavoro del workshop agli studenti, hai evidenziato più volte come prioritario questo camminare rispetto al lasciare tracce, o meglio rispetto all’arrivare a produrre opere. Cosa ci puoi dire del camminare come strumento critico/metodo euristico?
In particolare, ti chiederei di soffermarti su due aspetti. In primis sull’andare “a zonzo”, cioè su quanto/come l’impressione di perdere tempo o di non star facendo nulla diventi esperienza di uso alternativo del tempo e dello spazio e metodo collettivo di “abitare la città”.
F.C. : in realtà il tempo e lo spazio sono sempre collegati. Chi perde tempo guadagna spazio. Questa semplice frase che è da tempo il motto di Stalker, è forse l’unica risposta che posso dare. Si può anche declinare cosi: chi non perde tempo, non guadagna spazio. Chi ha delle barriere mentali che non gli permettono di lasciarsi andare a scavalcare in luoghi proibiti o giudicati “pericolosi”, come nel greto del fiume Arno durante la deriva notturna di Empoli, perde emozioni spaziali assolutamente inedite e a volte molto rigeneranti e sicuramente formative. Riappropriarsi del tempo da dedicare al ludus è insomma il modo più semplice di riappropriarsi degli spazi della città, una città che ormai viviamo sempre più in forma utilitaristica. Per conoscere altri spazi e situazioni è necessario un salto nell’inutile, avere una concezione antiutilitaristica del tempo, ossia giocare. Il perdersi camminando è quindi il gioco più adatto a far tendere la velocità a zero, e a portare spazio e tempo verso l’infinito. Forse non è matematicamente così, ma è così che leggo la formula V = S/T. È l’essenza stessa del camminare, dell’andare lento, del non arrivare e del “lisciare” la meta.
Camminare come strumento critico: potenza performativa del camminare.
M:R. : C’è poi una altro aspetto secondo me strettamente collegato al primo: quello della doppia valenza del camminare come atto percettivo e creativo allo stesso tempo, ciò che definisci operazione di lettura e scrittura del territorio. Vorrei chiederti qualche riflessione sul valore performativo del camminare, sul fatto che attraverso il camminare non solo si vedono territori altrimenti marginali, ma si producono luoghi. In Walkscapes scrivi: «Uno dei principali problemi dell’arte del camminare è trasmetterne in forma estetica l’esperienza».
F.C. : il perdersi camminando produce automaticamente un racconto. È il racconto condiviso dei corpi del gruppo che esplorano e percepiscono uno spazio fisico e mentale sconosciuto. È quindi necessariamente una lettura del territorio, che avviene con uno spostamento del punto di vista e quindi attraverso uno spaesamento, o se vuoi spaesaggiamento, come il guardare a testa in giù, “con la testa sotto le gambe”, come scrive Benedetto Croce. Il problema della rappresentazione si pone nel momento in cui si vuole “mettere in bella” questo il racconto prodotto automaticamente dall’esperienza. È un problema di natura estetica e di non facile soluzione. In realtà la forma più coerente dovrebbe essere quella di non lasciar tracce e vivere semplicemente l’esperienza senza interpretarla. Aldo Innocenzi che ha fatto tutti i video di Stalker, ha cercato di risolverlo portando con sé una telecamera intesa come corpo estraneo, senza guardarci mai dentro, per lasciare che il territorio si autorappresentasse senza una sua/nostra interpretazione. Abbiamo anche pensato di fare il video in super8 e mano mano che la pellicola si impressiona lasciarla cadere dietro di noi, lasciando così una scia di pellicola del video di quel territorio direttamente sul luogo appena attraversato. In questo caso la rappresentazione sarebbe istantaneamente riterritorializzata e persa comunque per sempre. Non lo abbiamo mai fatto perché la pellicola è un materiale altamente inquinante.
Attivismo. I walk (not) alone.
M. R. : Camminare può essere un modo per dare corpo al “margine”? Se e in che misura diventa azione politica e non puro esercizio sulla percezione?
Il tuo è soprattutto un camminare con gli altri. Lo era con l’esperienza Stalker, nella forma del collettivo artistico, così come lo è oggi con gli studenti empolesi, figli di migranti e figli di italiani di vecchia generazione, un gruppo di persone che deve anche imparare a conoscersi reciprocamente. Cosa cambia, quali valori si mettono in campo?
F.C. : il camminare di per sé ha già una suo valore etico, se vuoi anche politico. L’andare lento è parente della decrescita, del low tech, abbassa ai minimi termini l’appartenenza a questo mondo sempre più governato dal PIL, non consuma idrocarburi, non inquina, anzi fa anche bene al corpo e alla mente. Questo è in controtendenza con i valori che ci vengono proposti. È in questo senso che ho scelto il nome di Laboratorio di Arti Civiche per il corso peripatetico che conduco alla Facoltà di Architettura di Roma Tre e anche per il workshop di Empoli. Credo che l’urbanistica, l’architettura, l’arte pubblica, l’antropologia e sociologia urbana e tutte le discipline che si occupano oggi della città possono insieme confluire in azioni creative di ricostruzione del senso della città e del vivere comune. È in questo senso che le chiamo Arti Civiche. Ma c’è poi l’elemento formativo, quando andiamo a fare lezione in città esploriamo universi assolutamente sconosciuti, agli studenti e ai cittadini che si uniscono a noi. Oggi l’unico modo di conoscere quello che ci sta succedendo intorno è quello di andarci a portare i nostri corpi, un po’ come i dadaisti nel 1921 nella loro prima visita ai luoghi banali della città. La nostra presenza in un luogo dà senso e valore a quel luogo gli cambia di significato.
I wish
M. R. : «Cosa desideri?» è quello che avete chiesto alle persone durante la manifestazione dei migranti del primo marzo. Dalla lettura delle frasi raccolte è poi partita la riflessione che ha condotto alla progettazione dell’intervento artistico. Nel tuo libro riporti dei passaggi molto belli di Guy Debord sull’opzione di una rivoluzione fondata sul desiderio. Si può dire anche di te che stai lavorando per “costruire un modo di vivere appassionato”? Nel caso di quanto fatto ad Empoli, come si tradurrà l’esperienza del workshop in azione pubblica?
F. C. : Mi hanno colpito i desideri raccolti alla manifestazione del 1 marzo, sono desideri di una vita normale e degna di un essere umano, ed è incredibile che siano ancora oggi dei desideri rivoluzionari quando sono invece semplicemente dei diritti negati. Mi hanno colpito anche le parole del sindaco, del parroco e del portavoce del consiglio degli stranieri. E mi ha entusiasmato il mettere insieme gli studenti del liceo artistico (tutti italiani che vivono fuori dal centro) con lavoro i ragazzi di Milleunavoce (tutti stranieri che vivono e abitano il centro della città). Da questo punto di vista Empoli mi è sembrata un’isola felice e spero che il nostro lavoro potrà essere utile all’approccio multiculturale della città. Ma mi hanno colpito anche i comportamenti omologati di alcuni studenti. La loro paura a mettersi in gioco e a guardare le cose da un altro punto di vista, il loro rifiuto a scendere sull’Arno di cui ho detto sopra, l’accettazione acritica dei modelli televisivi. Per molti di loro hanno credo che il workshop abbia cominciato a scalfire i pregiudizi e le verità mediatiche che gli vengono inculcate. Molti di loro vivono già in modo “appassionato” e questa mi è sembrata la più bella delle scoperte empoletane. Il lavoro comunque è lungo, non basteranno venti anni per disfarci da quanto è stato compiuto in questo ventennio in Italia. Per ricitare ancora una volta i nostri avi: “Gli urbanisti del XXI secolo dovranno costruire delle avventure. L’atto situazioni sta più semplice consisterà nell’abolire tutte le memorie dell’uso del tempo della nostra epoca. Un epoca che, fino ad oggi ha vissuto molto al di sotto delle proprie possibilità.”
02/03/11
mappe
Mappe
(appunti per un articolo incompiuto da pubblicarsi su un numero della rivista "lo Squaderno" nel 2010)
“Anche gli sguardi consumano”. Me lo dice Guy Tortosa più di dieci anni fa quando gli racconto che il giardino illegale di “vivilerive – al Quantara”, che avevamo inventato sulla riva del Tevere nelle estati del ‘93 e ‘94, dopo il nostro intervento era diventato un banale giardinetto con la pista ciclabile, le panchine e la staccionata in legno stile soprintendenza. È la prima grossa contraddizione che si trova ad affrontare quel gruppo di studenti che in seguito darà il via al progetto Stalker: la trasformazione del territorio non si attua solo disegnando una linea su un foglio, ma anche semplicemente indicando un luogo, nel svelarlo alla città, nel convogliare lì dei corpi e degli sguardi. Quella prima azione territoriale che intendeva “assecondare e di amplificare quel processo di metabolizzazione, a volte di vera e propria mutazione, che sta portando la natura, almeno in quel luogo, ad aver ragione della battaglia ingaggiata con gli scarti dell'uomo, più attenti ad ascoltarne i clamori che non ad imporre l'esito”, e che aveva svelato ai cittadini l’esistenza sotto le loro case di un luogo naturale e incantevole perché in stato di abbandono, si era trasformata dopo una raccolta di firme in un giardinetto omologato al resto della città, perdendo tutte le qualità per cui quel luogo aveva attratto la nostra fantasia. Credo che sia questa la ragione per cui le mappe successive di Stalker sono state realizzate con un alto grado di imprecisione: facevano i conti la volontà di raccontare i luoghi e le nostre azioni - le foto e i video erano già la dimostrazione che “quei luoghi” di cui parlavamo esistevano davvero -, ma anche con la consapevolezza che se volevamo perpetuarne l’abbandono, ossia “il massimo grado di cura”, non dovevamo essere precisi sul “dove” quei luoghi si trovavano, ci avremmo portato solo sguardi fidati, capaci di non consumare.
Nel 2007 siamo di nuovo sul Tevere con “sui letti del fiume”, un’ azione che va a conoscere e raccontare il nuovo fenomeno delle baraccopoli spontanee sorte sulle rive. Da subito, dai primo incontri che facciamo, ci rendiamo conto del pericolo che la nostra mappatura possa trasformarsi in denuncia non del fenomeno ma degli stessi baraccati. Camminando in gruppi lungo i due argini incontriamo una grande quantità di persone, circa duemila. Sono persone molto diverse tra loro, ci sono rom di varia provenienza, moltissimi rumeni non rom, e poi moldavi, ucraini, polacchi, austriaci, italiani, tutte persone che in molti casi hanno un lavoro, ma che non possono permettersi un affitto e sono dunque costrette a vivere nascosti tra i canneti del fiume. Spesso siamo le prime persone che vedono. Ancora non sono passati né gli assistenti sociali, né un servizio medico-sanitario, né i giornalisti, solo in alcuni casi le baracche sono state demolite dalla polizia, ma poi – ci dicono - sono state ricostruite negli stessi posti, in alcuni casi l’unica preoccupazione dell’amministrazione (c’era ancora giunta Veltroni), è quello di chiudergli le fontanelle più vicine, cacciarli prendendoli per sete, cercare comunque di nascondere il fenomeno ai media e ai cittadini. L’unico che ne parla è stato Berlusconi che per attaccare Veltroni già a settembre 2006 dice che a Roma ci sono diecimila baraccati
Ci è subito chiaro che dobbiamo raccontare quello che stiamo vedendo, non per confermare le parole del premier, ma perché non possiamo permettere che succeda tutto questo, e soprattutto che il sindaco e l’intera sinistra neghi le sue responsabilità dopo sedici anni di latitanza sul problema casa. Siamo altrettanto consapevoli del fatto che non si devono fare mappe, che non si deve essere precisi sulla localizzazione degli insediamenti, e così faremo. Ma il fenomeno è così evidente ed è incredibilmente facile trovarle, basta scendere sugli argini e vedere dove portano i sentieri che si inoltrano nella macchia.
(appunti per un articolo incompiuto da pubblicarsi su un numero della rivista "lo Squaderno" nel 2010)
“Anche gli sguardi consumano”. Me lo dice Guy Tortosa più di dieci anni fa quando gli racconto che il giardino illegale di “vivilerive – al Quantara”, che avevamo inventato sulla riva del Tevere nelle estati del ‘93 e ‘94, dopo il nostro intervento era diventato un banale giardinetto con la pista ciclabile, le panchine e la staccionata in legno stile soprintendenza. È la prima grossa contraddizione che si trova ad affrontare quel gruppo di studenti che in seguito darà il via al progetto Stalker: la trasformazione del territorio non si attua solo disegnando una linea su un foglio, ma anche semplicemente indicando un luogo, nel svelarlo alla città, nel convogliare lì dei corpi e degli sguardi. Quella prima azione territoriale che intendeva “assecondare e di amplificare quel processo di metabolizzazione, a volte di vera e propria mutazione, che sta portando la natura, almeno in quel luogo, ad aver ragione della battaglia ingaggiata con gli scarti dell'uomo, più attenti ad ascoltarne i clamori che non ad imporre l'esito”, e che aveva svelato ai cittadini l’esistenza sotto le loro case di un luogo naturale e incantevole perché in stato di abbandono, si era trasformata dopo una raccolta di firme in un giardinetto omologato al resto della città, perdendo tutte le qualità per cui quel luogo aveva attratto la nostra fantasia. Credo che sia questa la ragione per cui le mappe successive di Stalker sono state realizzate con un alto grado di imprecisione: facevano i conti la volontà di raccontare i luoghi e le nostre azioni - le foto e i video erano già la dimostrazione che “quei luoghi” di cui parlavamo esistevano davvero -, ma anche con la consapevolezza che se volevamo perpetuarne l’abbandono, ossia “il massimo grado di cura”, non dovevamo essere precisi sul “dove” quei luoghi si trovavano, ci avremmo portato solo sguardi fidati, capaci di non consumare.
Nel 2007 siamo di nuovo sul Tevere con “sui letti del fiume”, un’ azione che va a conoscere e raccontare il nuovo fenomeno delle baraccopoli spontanee sorte sulle rive. Da subito, dai primo incontri che facciamo, ci rendiamo conto del pericolo che la nostra mappatura possa trasformarsi in denuncia non del fenomeno ma degli stessi baraccati. Camminando in gruppi lungo i due argini incontriamo una grande quantità di persone, circa duemila. Sono persone molto diverse tra loro, ci sono rom di varia provenienza, moltissimi rumeni non rom, e poi moldavi, ucraini, polacchi, austriaci, italiani, tutte persone che in molti casi hanno un lavoro, ma che non possono permettersi un affitto e sono dunque costrette a vivere nascosti tra i canneti del fiume. Spesso siamo le prime persone che vedono. Ancora non sono passati né gli assistenti sociali, né un servizio medico-sanitario, né i giornalisti, solo in alcuni casi le baracche sono state demolite dalla polizia, ma poi – ci dicono - sono state ricostruite negli stessi posti, in alcuni casi l’unica preoccupazione dell’amministrazione (c’era ancora giunta Veltroni), è quello di chiudergli le fontanelle più vicine, cacciarli prendendoli per sete, cercare comunque di nascondere il fenomeno ai media e ai cittadini. L’unico che ne parla è stato Berlusconi che per attaccare Veltroni già a settembre 2006 dice che a Roma ci sono diecimila baraccati
Ci è subito chiaro che dobbiamo raccontare quello che stiamo vedendo, non per confermare le parole del premier, ma perché non possiamo permettere che succeda tutto questo, e soprattutto che il sindaco e l’intera sinistra neghi le sue responsabilità dopo sedici anni di latitanza sul problema casa. Siamo altrettanto consapevoli del fatto che non si devono fare mappe, che non si deve essere precisi sulla localizzazione degli insediamenti, e così faremo. Ma il fenomeno è così evidente ed è incredibilmente facile trovarle, basta scendere sugli argini e vedere dove portano i sentieri che si inoltrano nella macchia.
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