ROM


Autodialogo Rom
Cinque anni di domande intorno ai Rom (2007-2012)

il testo rivisto e corretto insieme a Lorenzo Romito è poi stato pubblicato come Stalker-On / Campus Rom, da altrimedia edizioni, Matera 2017

Testo ancora incompiuto, e pubblicato a varie riprese sui "Roma Time" e altri articoli.
Oltre a Francesco Careri, molte parti sono state scritte da Lorenzo Romito, Ilaria Vasdeki,  provo a spiegare:
- il primo testo l'ho scritto nell’estate del 2007e poi pubblicato in: Autodialogo sobre Stalker e “os nòmades”, in “Paseantes Viaxeieros Paisaxes”, CGAC, Centro Gallego de Arte Contemporanea, Santiago de Compostela xunta de Galicia, pp.133-141, 2007; Autodialogo su stalker e i “nomadi”, in Angelika Burtsher Manuela Demattio e Roberto Gigliotti, “Taum Stadt Wir – Sogno Città Noi”, Studien Verlag, Bolzano, pp. 73-106, 2008; Autodialogo su stalker e i “nomadi”, “macramè” n°2, Firenze, pp. 25-34 2008, Autodialogo sobre Stalker i los “nomadas”, “Spam” n° 5, Santiago de Chile, pp. 52 – 63, 2008
- lo stesso testo è stato poi editato e  riscritto insieme a Lorenzo Romito e pubblicato in: Roma, una città senza case, un popolo senza terra, in Aldo Bonomi (a cura di), La Vita Nuda, Triennale Electa, Milano 2008, pp.105-115 2008; Autodialogue sur le Roms, “Rue Descartes” n° 63 / Droit de Citè, Février 2009, PUF, pp. 97-111, 2009; Stalker /osservatorionomade, Campus Rom, "Zapruder", n°19 2009, Stranieri Ovunque, pp.118-129)
- la parte sgli interventi al campo del foro italico 531 è stata scritta da Ilaria Vasdeki
- altri testi sono pezzi di interviste fatte per terzocchio e per lisa parola, riscritte in forma autodialogica
- manca ancora un riordimìnamento della parte su savorengo ker
-.alla fine ho inserito l'ultimo autodialogo su metropoliz



1 _ sui primi incontri mancati

D: Per contrastare la scelta del “Piano della sicurezza” strumento di variante urbanistica e costituzionale per realizzare quattro enormi “villaggi della solidarietà” per concentrare fuori dalla città tutte le “popolazioni senza territorio” a partire dai Rom, avete articolato un complesso progetto di ricerca e formazione con diverse università. E’ più di un anno che state lavorando con l’Università di Roma Tre e non solo, portando studenti italiani e stranieri, in giro per baraccopoli e campi Rom a Roma e nella Ex Jugoslavia. Avete realizzato per tre corsi universitari, il primo, “sui letti del fiume” è stato un corso di “Arte civica” realizzato esplorando le sponde del Tevere sui due lati dalla foce alla diga di Castel Giubileo e incontrando più di 50 insediamenti di piccole o grandi baraccopoli. Il secondo è stato un corso di progettazione partecipata con i Rom del campo di Foro Italico, sempre con Roma Tre. Il terzo per cui avete costruito una rete di università con la TU di Delft e l’Università di Belgrado è iniziato con il giro di alcuni campi rom di Roma in camper per poi andare in Ex Jugoslavia, da Belgrado a Skopje, attraverso insediamenti diversi fino a Shutka città Rom di 44.000 abitanti con tanto di sindaco Rom.
Prima di raccontarmi tutto ciò mi piacerebbe sapere quand’è che avete cominciato a lavorare con i Rom e quali sono state le prime esperienze di Stalker con l’universo dei “campi nomadi”. Ti chiederei però di non parlarmi del “vostro nomadismo” inteso come categoria filosofica o come pratica estetica, ma delle popolazioni “nomadi” che oggi vivono tra noi, e che riempiono le pagine della cronaca. Come vi siete avvicinati a loro?

R: Il percorso è stato abbastanza lento, è stata una conoscenza progressiva durata più di dieci anni. Nessuno di noi aveva mai avuto prima una relazione diretta con i “nomadi” e direi che questo percorso è stato un’importante crescita comune. Siamo partiti da zero. Nella prima transurbanza, ovvero esperienza di attraversamento delle aree di margine della città di Roma realizzato a piedi e dormendo in tenda tra il 5 e l’8 ottobre 1995 ricordo che siamo passati di fronte all’ingresso del campo Rom di Pietralata e che non ci siamo entrati. Era tardo pomeriggio, eravamo stanchi e cercavamo un posto dove fare l’accampamento per la notte. Ci siamo fermati in un campetto di calcio che degli immigrati albanesi avevano allestito per i propri bambini. Mi ricordo che avevamo parlato con un uomo alto e bellissimo, con capelli lunghi, occhi azzurri profondi e un’aria da saggio. Sembrava Melquiades, quello zingaro dei Cent’anni di solitudine di García Márquez che portava a Macondo le novità del mondo, e che all’inizio del libro aveva stupito il villaggio mostrando il ghiaccio. Melquiades e gli altri albanesi avevano preso un vecchio casale della campagna romana e lo avevano trasformato in una casa per più famiglie, un ambiente accogliente e ospitale. Alla nostra richiesta di dormire nel campetto dei loro figli ci avevano risposto che erano felici di avere ospiti, che potevamo montare le tende e nessuno ci avrebbe dato fastidio.

D: così decideste di chiedere ospitalità agli albanesi e non ai Rom, anzi magari gli chiedeste di difendervi nel caso aveste avuto problemi da loro. È andata così?

R: no, non chiedemmo protezione, ci rivolgemmo agli albanesi perché il loro casale era meglio collocato sull’altura e ci dava sicurezza - era la prima notte delle quattro passate fuori - più di quell’ammasso di tetti di lamiera e di stradine fangose più a valle. Eravamo stanchi e stava facendo buio non ci è venuta la curiosità di entrare nel “campo nomadi”… lo abbiamo fatto un anno dopo, mentre facevamo un simile giro a Torino, entrammo in un campo rom, e ci fermammo un bel po’ a parlare con i bambini... ma in quel primo giro di Roma non successe… semplicemente non li abbiamo incontrati. E comunque l’idea di chiedere ospitalità per la notte ai Rom non ci aveva sfiorato. Mentre oggi è proprio quello che abbiamo fatto portando con noi anche trenta studenti.

D: Oggi a tredici anni di distanza sapreste spiegarvi perché? Voi che eravate lì a camminare per esplorare ed abitare gli spazi vuoti del territorio, le rimozioni e le amnesie urbane, non avete pensato che i campi nomadi facessero parte di questa realtà? Non entrandoci non stavate omettendo dai vostri “territori attuali” una delle zone più importanti della “città inconscia”?

R: Noi andavamo incontro a ciò che ci capitava e semplicemente non ci capitò, però è vero che non ci pensammo. Non so dire se non eravamo ancora pronti o se eravamo ancora vittime della cultura del pregiudizio. È vero, andavamo tutto il giorno scavalcando cancelli, recinzioni e proprietà private, ma lì in quel campo, dove la porta era aperta senza barriere da scavalcare, forse le nostre barriere mentali ci avevano impedito di accedere. Stavamo omettendo una realtà importante della mappa e ciò non fu minimamente elaborato, lo facemmo senza una riflessione, senza neanche trovare una scusa o porci un dubbio. Chissà quante realtà ancora oggi ci sfuggono anche a noi - per lavoro “lettori e testimoni delle realtà emergenti del territorio” - perché in fondo non le vogliamo o non le sappiamo vedere.

D: Apprezzo la vostra la sincerità. Ma andiamo avanti, quando siete entrati in contatto veramente con i Rom?



2_ sui Rom del Campo Boario

R: Quattro anni più tardi, nell’estate del 1999, quando abbiamo dato vita con i rifugiati curdi al progetto di Ararat nel Campo Boario, grande corte abbandonata nell’ex mattatoio di Testaccio. Fu l’inizio di una esperienza che stiamo raccogliendo in una pubblicazione dal titolo “Otto anni nella città degli altri”. Esperienza conclusa tra il 2004 e l’aprile 2007 con lo sgombero prima delle baracche degli immigrati rumeni e nordafricani e poi dell’accampamento dei rom. E lì che siamo entrati in contatto per la prima volta con l’universo rom. Ricordo molto bene il primo incontro con i Rom Kalderasha, un’occasione quasi ufficiale. Una riunione al Villaggio Globale con i capi famiglia, in cui si doveva decidere il rientro della comunità nel piazzale dell’ ex mattatoio dove dal 1985 erano residenti quasi stabili. Erano andati via due mesi, trasferiti in un camping per far posto alla biennale dei giovani artisti del Mediterraneo, proprio l’evento che per noi era stata l’occasione di realizzare Ararat, ovvero il centro di dialogo interculturale e di prima accoglienza per i rifugiati curdi che ancora sta là, unico superstite di quell’incredibile scenario interculturale. Di quella sera ricordo i capifamiglia, con facce stanche, ma sicuri nei loro propositi. Era in gioco il loro abitare, il loro vivere e non avevano altre alternative, dovevano rientrare anche se l’area era stata recintata e interdetta. Ed era sorprendente vedere quanto l’assemblea del Villaggio Globale sapesse trattare con quelle persone. Chiedevano assicurazioni per la scolarizzazione dei figli, per la pulizia generale del Campo Boario, si accordavano per l’uso dell’elettricità e dell’acqua… insomma quella sera abbiamo assistito alla stesura delle regole di buon vicinato tra la comunità rom ed un centro sociale occupato, un patto fondato sulla parola, una rinnovata alleanza. Quella notte i rom rientrarono nel loro piazzale e vi rimasero fino allo sgombero dell’aprile 2007, realizzato, paradossalmente, per far spazio al mercato dell’altra economia.

Quella sera entrarono nell’area, misero in circolo i loro grandi camper superattrezzati, le loro macchine sfavillanti, le tende per le verande, quelle per la lavorazione dei metalli, quelle per gli sgabuzzini, i tavoli, le lavatrici e i fili per stendere i panni, le pompe dell’acqua che rimanevano sempre aperte. I figli tornarono alla scuola di sempre, qualche anno dopo Charlotte, una delle prime ragazze di quella comunità, ottenne la licenza media. Il campo era pulito, organizzato e le relazioni con gli altri abitanti del luogo, erano perlopiù cordiali e collaborative.

D: e com’è stato il primo vostro ingresso nel campo dei rom?

R: mah il primo ingresso non me lo ricordo. È stata una cosa avvenuta progressivamente. Sai, fino al 2004 non c’erano mai state recinzioni. Non era un campo ma una sorta di accampamento, e chi passava entrava praticamente dentro, c’era un confine non stabilito. Non c’era una porta in cui entrare, l’ingresso era libero e filtrato al tempo stesso. Passata una certa soglia ci si sentiva gli occhi addosso. Poi alla domanda “c’è Aldo?” ed a un cenno di assenso la vita ricominciava a scorrere, le donne al lavoro, gli uomini a discutere, i bambini a giocare. Tu potevi camminare.

D: per entrare in un insediamento rom dunque è bene avere un nome da cercare. In fondo è come quando si entra nel cortile di un condominio, l’unico lasciapassare è il dichiarare da chi vai. Ma voi che ci andavate a fare da Aldo?

R: La prima volta ci andai di sera, alcuni Rom erano già venuti da noi ad Ararat, chiedendoci un attacco della luce, i Curdi non li trattavano bene, scoprii che avevano radicati pregiudizi, parlando con i Rom capii che anche i Rom erano preoccupati della presenza dei Curdi, che per quello che avevano capito potevano essere terroristi. Aldo era una sorta di portavoce della comunità, entrai nel campo per parlargli, era quasi ora di cena. Mi accolse e mi invitò a mangiare, fu un momento importante, mi sentii fiero di quell’invito che accettai volentieri. Parlammo dei pregiudizi reciproci, mi iniziò a raccontare del loro arrivo in Italia dalla Dalmazia nel ‘39 quando questa era territorio italiano, di quanto si sentissero italiani e allo stesso tempo Rom, e mi spiegò cosa stavamo mangiando, involtini di indivia con carne. Tutto era molto buono, simile ma diverso. Tornai il giorno dopo per organizzare il “Pranzo Boario”, il primo pranzo curdo – rom – giapponese della storia dell’umanità, pensato grazie alla presenza di una amica artista giapponese, Asako Iwama, con l’intento di promuovere l’avvicinamento delle due comunità. Gli comunicai l’idea, gli piacque e passammo il giorno in giro per il campo per organizzare l’evento. I Rom, nella persona di sua moglie avrebbero portato il Gulasch. Nonostante la prevista organizzazione non trovavamo tavoli e sedie sufficienti per realizzare una tavola rotonda grande come tutto il piazzale, servivano tavoli e sedie e pensare che i Rom si sarebbero messi a disposizione fu un errore di valutazione, ci rivolgemmo allora ai loro bambini, erano loro i più incuriositi dalla nostra presenza, i più contenti di partecipare, presero tavoli e sedie dalle roulotte e dal Villaggio Globale, e in fila indiana con le sedie in testa ci aiutarono ad allestire la tavola. Alla fine Curdi, Rom e Romani pranzarono insieme per la prima volta, così inaugurammo il playground del Campo Boario, dove in seguito attivammo diversi “dispositivi relazionali” per favorire il dialogo e la convivenza, promuovere l’autorganizzazione e far conoscere alla città quella incredibile realtà.

D: che intendi per “dispositivi relazionali?

R: Ci fu il “Globall Game” dove lanciammo centinaia di palloni da calcio nel piazzale e vennero tutti, Rom, Curdi, Senegalesi calciando i palloni da una parte all’altra, un gioco inarrestabile e irresistibile. Vennero prima i bambini, poi i ragazzi più grandi, poi le mamme, infine i capi famiglia. Poi li invitammo a scrivere sui palloni le loro storie i loro desideri, perché avremmo portato tutte quelle palle alla Biennale di Venezia. Così un po’ alla volta si è stabilita una inedita relazione tra tutte quelle strane comunità, estranee tra loro e alla società. Dopo alcuni mesi le donne hanno smesso di voler leggerci la mano e hanno cominciato ad offrirci il caffè o a volte un pranzo, i ragazzi hanno smesso di far la parte dei bulli e dirci di stare attenti al portafogli, gli uomini hanno smesso di osservarci in modo sospettoso. Alla fine tutti si sono stufati di portare la maschera da zingari e si sono rivelati per quelli che sono. Credo il nostro essere diversi ed estranei a quei comportamenti che loro vedevano come tipici dei “Gadjè”, come loro chiamano i non Rom, ha permesso di stabilire una relazione al di là degli schemi, di inventare una maniera per attraversare le barriere culturali, per produrre una comunità senza radici. Con Aldo siamo ormai amici e continuiamo a lavorarci, è stato molto importante anche nei progetti che stiamo facendo ora. Poi abbiamo organizzato insieme un workshop, il titolo era “Rom(a)”, e là abbiamo cominciato a conoscerci e a comprendere meglio tante cose.

D: E poi c’è stato l’arrivo di Matteo Fraterno. Com’è andata?

R: Matteo con il progetto “Serenate”, ha portato una banda di musicisti, artisti, amici suoi, un sacco di gente tra i camper per fare un finto matrimonio zingaro. Un idea sensazionale insomma, delle sue. E in effetti è stata la prima volta che abbiamo invaso in tanti l’interno del loro piazzale, e che abbiamo fatto un’azione direttamente in casa loro. Da quel momento Matteo è diventato un personaggio per tutti gli zingari. E questo è stato importante per conquistare la fiducia di Tomo e Milka, i due anziani che ci hanno raccontato del loro internamento nel campo di concentramento di Agnone nel ’41. Ne è nato un grande lavoro nel 2004, in occasione della giornata della memoria. Abbiamo riportato Milka al Convento di S. Bernardino ad Agnone, dove era il campo di concentramento. Il Prof. Tanzi, che studiava la storia del campo ebbe la sua prima testimone, e Milka fu ricevuta nella scuola da centinaia di studenti emozionati. Il sindaco l’ha ricevuta in consiglio comunale, fu fatta una colletta per comprarle una roulotte nuova, ma soprattutto l’intera città di Agnone ebbe l’occasione di confrontarsi con l’antigitanismo, acclamando come una eroina una ottantenne signora Rom.

D: Conosco la storia di Campo Boario e non vedo l’ora di vedere la pubblicazione di cui parlavate. Ma torniamo ai Rom, da come parlate sembra quasi che per voi l’accampamento di Testaccio fosse un habitat ideale? Perché tanto interesse per questo mondo? Voi vorreste vivere cosi?

R: Ma intanto ti dico che il caso di Testaccio era sicuramente un caso estremo di benessere economico e sociale e che quell’accampamento di roulotte non aveva nulla del degrado in cui versano altri campi della capitale. Era sempre pulito, c’erano anche sette laboratori per i metalli e il lavoro non mancava. Tra le persone sedute in veranda sembrava quasi di stare in un campeggio estivo. Oggi dopo aver fatto visita a tanti altri campi quello di Testaccio mi sembra veramente una grande eccezione. Come habitat quello è l’unico esempio positivo che mi sento di fare, anche e soprattutto perché non sarà stato legale ma era liberamente organizzato dai Rom, il che lo rendeva vivo, civile. Per il resto qui a Roma la maggior parte dei campi è un inferno, luoghi di costrizione e rifiuto, luoghi indegni di una società che si definisce democratica. In merito a cosa ci attirasse, oltre al desiderio di conoscenza, ti risponderei in una sola battuta: lo stile di vita. È proprio un altro modo di stare al mondo, per certi tratti veramente invidiabile, anche se non credo potrà mai essere il mio. E comunque non è che accettassi tutto della loro cultura, siamo molto diversi e non riuscirei a vivere con le loro regole comunitarie. Ma quel mondo non è poi cosi lontano, è qualcosa che in qualche modo ci appartiene, che abbiamo dentro e che dovremmo frequentare per ritrovarlo in noi da qualche parte. Per conoscerlo dobbiamo riconoscerlo. È per questo che ci sembrava importante invitare i cittadini a conoscerlo. Ma comunque ora tutto questo non c’è più, entri al Campo Boario e c’è il mercato dell’economia equa e solidale…assurdo ma è così.

D: si lo so, sono stati sgomberati il 4 aprile per fare posto alla Città dell’Arte e dell’Altra Economia. Sono stati ricacciati via un’altra volta dall’Arte, come quando vi fu la Biennale del Mediterraneo, e questa volta definitivamente. Eppure i Rom Kalderasha di Testaccio erano noti per la loro grande integrazione con il quartiere, mi sembra assurdo che sia finita così. Ma una soluzione non si sarebbe potuta trovare? Loro cosa avrebbero voluto, come vorrebbero abitare?

R: Sembra quasi un paradosso, il Comune ha pulito tutto come se l’arte non dovesse occuparsi della realtà e come se i Rom non fossero esattamente l’altra economia. La cosa più inaccettabile è che tutto il lavoro fatto in quegli anni per favorire il dialogo tra e con le diversità, la sperimentazione di microeconomie alternative, l’azione di promozione dell’autorganizzazione di queste realtà marginali, ha informato il progetto di trasformazione dell’area, ma non si è saputo o non si è voluto farne occasione per accogliere ed emancipare quella realtà. È stata una ennesima occasione di sfruttamento dell’immagine e dei valori che quella realtà rappresentava per riproporli sterilizzati in contenitori vuoti, e per realizzare i quali si è cancellato tutto quel mondo.Noi eravamo riusciti con il nostro lavoro ad avere il sostegno della Fondazione Olivetti e dell’Accademia di Francia. Sul “Laboratorioboario”, così avevamo chiamato il progetto di collaborazione tra tutte le realtà del Campo Boario, era uscito anche un lungo articolo sull’Economist. Avevamo portato artisti da mezzo mondo e cittadini da tutta Roma a incontrarsi, dialogare e lavorare insieme a rifugiati, immigrati più o meno clandestini e Rom. Serviva la collaborazione dell’amministrazione pubblica per trovare insieme un punto di incontro tra formale e informale, tra quella realtà e la città, ma non ci siamo riusciti. Certo il Sindaco avrebbe potuto sostenere e fregiarsi di questo laboratorio unico al mondo, ma non è andata così. Sarebbe stato un esempio per chi chiede più sicurezza, ma anche un modello, un traguardo da raggiungere per le altre comunità Rom che vivono nel degrado ambientale e sociale. In fondo i Rom chiedevano solo un terreno dove sostare i mesi invernali, un piazzale dotato di luce acqua per cui avrebbero pagato regolarmente le bollette, poteva esser quello, ma anche un’altro. Se fosse stato un terreno agricolo avevano anche proposto di comprarlo. Quando fu deciso lo sgombero, su richiesta dell’assessorato all’urbanistica abbiamo anche fatto dei giri insieme ai Rom per cercare dei terreni possibili, ma poi non se ne è fatto più niente, il tutto è passato dall’assessorato all’urbanistica a quello degli affari sociali, al gabinetto del sindaco e poi direttamente alla questura. Nessuna soluzione alternativa fu trovata ed i Rom vennero semplicemente cacciati, dopo aver peregrinato per la città sono tornati lì, fuori dal Campo Boario, sul greto del fiume.

D: è incredibile che l’abitare di queste persone non sia di competenza dell’urbanistica ma sia solo un problema di pubblica sicurezza. A Roma si stima che ci siano circa 15.000 Rom e diverse migliaia di baraccati, perlopiù Rumeni ma anche Italiani e di tanti altri paesi, senza contare l’emergenza abitativa e l’espulsione dalla città dei ceti più deboli incapaci di sostenere i costi del vivere a Roma. Com’è possibile che urbanisti e architetti non se ne occupano?

R: ma guarda in realtà, a parte le associazioni riconosciute e finanziate dallo stato per la scolarizzazione dei Rom, e le associazioni cattoliche come S. Egidio, che offrono assistenza volontaria, di tutto questo non se ne occupa nessuno. E in molti campi non entra veramente mai nessuno, solo la polizia, che spesso entra nelle case senza permesso di perquisizione, magari alle 5 di mattina. Anche i giornalisti hanno paura di entrare in un campo, ci vanno quando succede qualcosa di grave, magari scortati. È per questo che mi sembra importante portare gli studenti nei campi, fargli conoscere queste realtà serve a scalfire le mura del disprezzo e dell’indifferenza che come le reti, circondano i campi. Serve ad assottigliare i pregiudizi reciprocamente, sia per gli studenti che per i rom.


3_ sui letti del fiume

D: arriviamo ai progetti portati avanti con le Università. Cominciamo con il primo dei tre progetti di formazione e ricerca che avete intrapreso, “Sui letti del fiume. Atlante dell’abitare sul Tevere”. Da dove nasce il progetto e in cosa consiste?

R: La percezione diffusa dell’aumentare delle baraccopoli, la confusione mediatica che si è cominciata a fare attorno a chi fossero Rom e Rumeni, assumendo i due termini quasi come sinonimi, la criminalizzazione mediatica dei baraccati, gli sgomberi passati come atti eroici, ma soprattutto la misconoscenza del problema da parte di chiunque ne parlasse, ci hanno convinto di andare a guardare quale fosse la realtà delle baraccopoli. L’occasione è stata una proposta dell’artista americana Kristin Jones di fare un lavoro per la “Piazza Tevere”, spazio da lei ideato sulle sponde del fiume a Ponte Sisto e inaugurato tre anni fa con una bellissima installazione di lupe tiberine disegnate sugli argini da lei stessa. Decidemmo di camminare l’intero corso del Tevere - insieme all’Aniene il luogo privilegiato dai baraccati per nascondersi alla vista – dalla foce fino a Prima Porta, oltre la diga di Castel Giubileo. La camminata è diventata il programma del corso di Arti Civiche della Facoltà di Architettura di Roma Tre e a marzo sono cominciate le esplorazioni a partire dalla foce, da Ostia e Fiumicino. Un corso interamente svolto in città e fuori dalle aule della Facoltà, in cui a camminare erano gli studenti, i membri di stalker e diversi ospiti: una carovana molto eterogenea per età e formazione che ogni giovedì si divideva in due gruppi di una ventina di persone ciascuno per camminare in parallelo sulle due sponde del Tevere dal pranzo al tramonto.

D: e chi avete incontrato?

R: Si camminava tra i canneti, su sentieri a volte tracciati a volte no e allora bisogna aprirselo tra i rovi e le ortiche. A volte dal sentiero principale si staccano sentieri secondari che scendono sul greto, si intravedono dei panni stesi, si sentono delle voci e allora noi chiedevamo: “c’è nessuno? È permesso”. Ci presentavamo dicendo di non essere né la polizia né dei giornalisti e spiegando quello che stavamo facendo. “venite a piedi dalla foce?” suonava strano e nascevano delle conversazioni, spesso avevano voglia di raccontarsi: perché abitano lì, da dove vengono, che lavoro fanno, come vivono, se vogliono restare lì per tanto tempo o è una soluzione temporanea, speranze e desideri anche rispetto alla casa, se hanno costruito loro la baracca o l’hanno trovata o l’hanno comprata a qualcuno, se hanno acqua e luce, se qualcuno viene mai a fargli visita. Spesso ci è stato offerto un caffè o dell’acqua, insomma quasi sempre il tutto si è svolto in un’atmosfera molto conviviale. A volte invece o per la lingua o per la diffidenza, non siamo riusciti a dialogare, solo in due casi siamo stati allontanati da persone preoccupate che la scoperta degli insediamenti fosse il primo passo per essere sgomberati. Questa in realtà era la preoccupazione di molti, consapevoli che l’invisibilità garantisce la durata della baraccopoli.

D: e chi sono? Quanti sono? Sono tutti nomadi?

R: no, non sono tutti “nomadi” e questa parola è già sbagliata. Una sera eravamo a cena da Lorenzo con Aldo Hudorovich e lui ci ha chiarito molte cose che avevamo solo intuito, informazioni molto utili per comprendere il “problema nomadi”. Il Comune chiama “nomadi” a Roma circa diecimila persone, di culture e realtà differenti, che in realtà di nomade non hanno niente. Aldo dice che di famiglie “transitanti” a Roma ce ne sono una ottantina, e che secondo lui a Roma i veri nomadi non sono più di quattrocento persone! Ti rendi conto? Se il problema nomadi fosse questo sarebbe già risolto. Queste quattrocento persone chiedono solo di potersi spostare e di fermarsi con i loro camper dove vogliono, come hanno fatto fino al ’95, quando il campeggio è stato vietato in tutto il territorio comunale.

D: ma scusa, se solo quattrocento sono nomadi, gli altri diecimila chi sono?

R: è questo il punto: sono profughi. O meglio ex-profughi di etnia rom. I primi ad arrivare in Italia negli anni ‘90 sono quelli che fuggivano dalla ex Jugoslavia: serbi, bosniaci, kosovari, macedoni, montenegrini… Prima di venire in Italia non erano nomadi, non transitavano da decenni, erano oramai sedentarizzati ed abitavano in “case”. Non avevano una cultura abitativa dell’abitare “nel campo”, il fatto è che qui in Italia sono stati chiamati “nomadi” e quindi mandati ad abitare nelle roulotte e nelle baracche! Insomma non si dovrebbe parlare di “campi nomadi”, ma semmai di campi profughi come ce ne sono oggi in tutto il mondo, luoghi dove ogni diritto viene sospeso e dove il concetto di legalità diventa sempre più ambiguo. Persone private dei diritti fondamentali e ridotte a vivere in condizioni agghiaccianti…

D: è incredibile. Ma di che cosa vivono? Come fanno a campare?

R: ma non c’è una risposta univoca per Rom e Gagè. Per i Rom il lavoro è un problema, nessuno gli da un lavoro, i pregiudizi sono enormi. Fanno lavori alla giornata, suonano nelle metropolitane, lavano i vetri ai semafori, molti vivono di sola elemosina, altri raccolgono metalli o oggetti usati e li riciclano, e altri hanno attività illegali, è innegabile. Non lo condivido ma mi rendo conto che quando hai dei figli e la sera gli devi portare qualcosa da mangiare alla fine sei anche costretto a farlo. È un po’ la vita che si faceva nelle baraccopoli degli anni ’50, in certi momenti sembra di essere in un film neorealista, in “ladri di biciclette” o “miracolo a Milano” o “i soliti ignoti”, qualcosa che la nostra cultura conosce molto bene insomma.

D: e gli altri, quelli che dicevi non essere Rom, ma che vivono nelle baracche sul fiume?

R: sono soprattutto rumeni, ma ci sono anche moldavi, polacchi, ucraini.. loro hanno un accesso molto più facile al lavoro. Molti hanno lavori di fortuna, fanno gli operai a giornata, lavorano sottopagati e in nero nei cantieri edili, alcuni hanno anche la partita iva, molte donne che abbiamo incontrato fanno le badanti, altre le colf… insomma sono persone che vivono quotidianamente tra noi. Solo che con quello che gli diamo non riescono a pagarsi un affitto, sarebbero espulsi da questa città se non si fossero costruiti le baracche. A Roma un giaciglio per la notte, da condividere a turno, costa anche 200 euro al mese, una camera più di 400 euro, e lo stipendio di un operaio al nero parte da 500 Euro. Sono persone di cui la città ha bisogno ma alle quali non vuole dare una ospitalità. E allora meglio una baracca scassata, senza ruote, intorno a cui ci si può costruire una veranda, altre stanze, la cucina, un bagno nel canneto, insomma un habitat completo, spesso anche dignitoso e con vista sul fiume. Abbiamo visto anche delle situazioni accettabili, insomma, comunque meglio di un appartamento affollato con un letto su cui turnarsi.

D: prima parlavi degli anni ‘50, so che avete invitato anche Giovanni Berlinguer, oggi parlamentare europeo, ma in quegli anni autore insieme a Cesare della Seta del famoso libro Borgate di Roma. Cosa vi ha raccontato?

R: è stato un incontro molto bello. Ci ha raccontato di quando al posto di rumeni e dei moldavi c’erano siciliani e calabresi. Stavano negli stessi posti peraltro, nel libro c’è una descrizione delle baracche dell’Aniene che sembra la stessa di oggi. Ci ha detto che il libro era nato da una grande nevicata di tre giorni della primavera del 1956. Roma era bloccata e allora un gruppo di intellettuali del PCI erano andati a portare i primi aiuti alle baraccopoli. Erano una ventina e andavano a piedi, tra gli altri c’erano Pasolini, Moravia, Pontecorvo, Lizzani. Ma a quel tempo la povertà la conoscevano tutti, era appena finita la guerra, c’erano comitati di lotta, gruppi organizzati, il partito, i sindacati, i preti baraccati come Don Sadelli. È da lì che sono nate le lotte per la casa e infine le leggi per l’edilizia economica e popolare. Oggi i partiti sono assenti, queste persone non portano voti e occuparsi di loro ne fa anche perdere di voti. A destra e a sinistra si fa la gara a chi chiede più sicurezza, se la prendono con queste persone solo perché vivono nelle baracche. Prima c’erano gare di solidarietà, oggi il comune di sinistra gli chiude le fontanelle, disattiva le fermate delle metropolitane, li lascia vivere nell’immondizia senza neanche portargli un cassonetto, gli demoliscono le baracche senza preavviso, con tutte le loro cose dentro, un incubo. Li stanno cacciando rendendogli la vita impossibile. Abbiamo anche incontrato molti bimbi nati in Italia da genitori nati in Italia e che ancora non hanno la cittadinanza italiana. Non si capisce come si fa a chiedere a queste persone di rispettare le regole se i primi a non rispettare i diritti umani siamo noi, non si capisce come chiedere doveri se non gli diamo i diritti che gli spettano.

4_ su Villaggi della Solidarietà e speculazione edilizia

D: mentre stavate conducendo l’inchiesta sul Tevere sono stati firmati i Piani della Sicurezza, proposti dal Ministro degli Interni Amato e poi sottoscritti dai prefetti, dai sindaci e dai presidenti di regioni e province. So che a Roma per risolvere il problema della sicurezza è stato deciso di allontanare tutte “ le popolazioni senza territorio” dalla città e di costruire per loro quattro grandi campi da mille persone, fuori dal Grande Raccordo Anulare. Li hanno chiamati “Villaggi della Solidarietà”. Voi che ne pensate?

R: Esiste una storia fascista dei campi, veri e propri campi di concentramento realizzati in base ad una circolare dell'11 settembre 1940. E' la storia di Toma e Milka, Rom Kalderasha del Campo Boario, rastrellati nei territori jugoslavi occupati dagli italiani e deportati in diversi campi nel sud Italia, loro ad Agnone, in provincia di Isernia. La storia democratica dei campi nasce molto più tardi. E' una storia ormai trentennale e si sviluppa attraverso l'elaborazione di diversi dispositivi, risposte strategiche ad emergenze di natura diversa, dalla scolarizzazione dei bambini rom che ha portato alla creazione dei campi sosta, alla accoglienza dei profughi dall'ex Jugoslavia tra il 1991 al 1999 che ha portato i campi nomadi ad estendere l'idea di campo sosta a quella di campi profughi. Ultimo passaggio in questa elaborazione del dispositivo campo è l’emergenza determinate dall'ingresso quest'anno nell'Unione Europea della Romania. Questo ha creato una falla nel sistema di dispositivi tesi ad arginare la penetrazione dell'altro, costituiti da campi rom e centri di permanenza temporanea, e ha esteso il confine interno, che già includeva i Rom, a dei cittadini europei che non potevano essere più tenuti fuori quali extracomunitari. A questa urgenza si sta tentando ora di rispondere con l'elaborazione di un nuovo dispositivo, di cui il discorso politico, la comunicazione sociale, l'utilizzo di episodi di cronaca, i patti sulla sicurezza tra governo e città sono i diversi elementi costitutivi, e di cui i Villaggi della Solidarietà sono la configurazione architettonica in fieri.

Insomma è una cosa gravissima, che non è mai successa nella nostra storia democratica, una vera svolta autoritaria, pericolosa perché demagogica e razzista. Hanno trovato il capro espiatorio nel “nomade” e adesso lo mettono alla gogna come dice Padre Sardelli nella sua lettera al Sindaco, “si vuole colpire i poveri invece di colpire la povertà”. Ci sono migliaia di persone, uomini, donne e bambini, che dovranno pagare per le malefatte di alcuni. Si colpisce l’etnia e non il singolo. I primi a contestare i patti sono stati gli “ebrei per la pace”, loro la conoscono molto bene questa storia, hanno detto che si tratta senza mezzi termini di deportazione etnica e di campi di concentramento. E li vogliono mettere lontano dalle aree abitate e dai collegamenti per non farli più ritornare in città, per renderli invisibili in favelas di container, recintate, con guardiania all’ingresso. Dentro ci sarà una ambigua sospensione della legalità, come nei CPT, e nessuno potrà sapere cosa vi accade.

D: effettivamente è agghiacciante. Ma voi a che alternative avete pensato? Cosa proponete?

R: Vedi qui l’amministrazione e tutti quelli che si occupano dell’abitare dei rom sono rimasti veramente molto indietro. Qui a Roma autocostruzione è sinonimo di abusivismo. E come soluzione alla baracca si ipotizzano solo case popolari, il ché fa diventare la soluzione quasi impossibile, dato che non se ne fanno più da anni. Noi crediamo invece che vada superata la logica del campo, estranea alle culture rom, e che tra la baracca e la casa popolare ci sia un largo ventaglio di possibilità abitative che sono inesplorate e che potrebbero essere buone soluzioni anche per chi non è rom. Che insomma tutto ciò potrebbe positivamente influenzare anche la nostra maniera di vivere. Ma il problema è anche di tipo speculativo, perché si intende dare un’unica risposta con i Villaggi della Solidarietà, sia alle baraccopoli spontanee nate negli ultimi anni, che all’annoso problema dei campi Rom “legali” ed “illegali”. Perché inserire i campi Rom riconosciuti in questo progetto? La vera questione è cacciare tutti i soggetti a rischio dalla città, Rom e non Rom. I campi Rom legali sono 23 e sono sotto una forte pressione della speculazione edilizia.

D: che c’entra la speculazione edilizia?

R: È chiaro che una volta che i nomadi se ne saranno andati i prezzi saliranno immediatamente. Come è chiaro anche che si utilizzeranno i quattro campi, di cui ancora non si sa la localizzazione, posizionandoli qui e là fuori dal GRA per rendere edificabili porzioni di campagna romana e far abbassare i prezzi delle aree. E questo si può fare andando in deroga ai piani paesistici con la scusa dell’emergenza rom. In questo modo i costruttori potranno comprare e quando poi si deciderà che l’area non è idonea per il megacampo, i costruttori potranno cominciare a costruire su quei suoli comprati a prezzi stracciati, costruendo quartieri abominevoli stile Caltagirone, sempre uguali in qualsiasi parte della città. Il tutto sfruttando i rumeni in nero, senza sicurezza nei cantieri, i quali per vivere si costruiranno altre baracche. I problemi in realtà sono tutti collegati e come al solito fanno capo alla rendita fondiaria e alla speculazione edilizia. Lì dove ci sono le condizioni si deve pensare ad implementare e trasformare i campi in insediamenti stabili, dalle baraccopoli devono nascere pezzi di città. Quelle aree devono rimanere dei “nomadi”, se li sono guadagnati abitandoci per venti anni, con enormi sacrifici. Non devono diventare né nuove palazzine né parchi pubblici. Dovrebbero cambiare destinazione d’uso e diventare residenziali, destinate ai rom e a chi ha bisogno di casa.

D: di tutto questo nessuno ne parla, voi pensate che si possa costruire un opinione pubblica in favore dei rom e dei baraccati?

R: si questa posizione è decisamente minoritaria, proprio perché il problema non lo si conosce, la stampa sia di destra che di sinistra non fa altro che etnicizzare ogni fatto di cronaca e questo peggiora le cose. Secondo me tra venti anni ci vergogneremo di quello che stiamo facendo ai nuovi paria. I “nomadi” sono invisi a tutti e i pregiudizi sono radicatissimi anche tra le persone più vicine a noi. È per questo che bisogna trovare il modo con cui costruire un consenso a partire dalla conoscenza diretta del problema. Dopo la firma del patto di sicurezza abbiamo fatto un appello alla cittadinanza di venire a dormire sotto Ponte Garibaldi, in pieno centro. Uno sleep-out di solidarietà e per contestare i patti. Ha funzionato, sono venute circa trecento persone e molti hanno dormito in tenda. Abbiamo cercato di organizzarne un secondo sleep-out nel nuovo campo di Castel Romano, dove ci sono più di mille Rom sgomberati dal centro e che ora si ritrovano sulla via Pontina a venti chilometri da Roma. Sono senza acqua, senza elettricità, in filari di container. Per l’amministrazione è un “campo attrezzato”, ed è spesso stato citato come il modello per i nuovi quattro campi. È importante portare la gente a vedere che cosa si vuole fare, cosa sono i villaggi della solidarietà. È importante portare i cittadini a vedere che cosa si vuole fare in loro nome.

D: ma la gente ha paura dei Rom…

R: Sono i Rom a far paura o i pregiudizi, le discriminazioni e le persecuzioni a cui sono stati soggetti? Forse a far paura è proprio il fatto che siano sopravvissuti a tutto ciò, che la storia non abbia mai condannato l'Europa, l'Italia e Roma per tutto ciò che hanno fatto ai Rom. È la loro sopravvivenza a far paura. I rom sono uno specchio in cui ci guardiamo e ci vediamo deformi, mostruosi, la loro condizione è il frutto del nostro pregiudizio, la loro cultura è in simbiosi con le persecuzioni a cui sono stati sottoposti, la loro irriducibilità, un incubo.

E' da quando abbiamo iniziato a rinchiuderli nei campi che il desiderio di circondarli con barriere insuperabili sembra esser diventata per noi l'unica possibilità di sopravvivenza, l'unica garanzia di sicurezza. Più invivibile sarà la loro situazione, più criminali i loro comportamenti, più ne saremo angosciati e più ci sentiremo insicuri. Il percorso intrapreso è un percorso di non ritorno, rimuovere e recludere l'alterità non può che esasperare il desiderio sociale della sua cancellazione. E' già successo e rischia di succedere ancora.
5_ su Campus Rom

D: parlatemi adesso del progetto “Campus Rom”. Con che obiettivi siete partiti? Cosa avete compreso nei Balcani?

R: Dopo i Letti del Fiume, Campus Rom è stato un altro viaggio. Un seminario itinerante in cui abbiamo portato docenti, studenti e ricercatori di decine di paesi diversi attraverso alcuni “campi nomadi” e baraccopoli della città di Roma e poi nella ex-Jugoslavia. Da Belgrado a Skopije attraverso quartieri, villaggi e baraccopoli, fino a Shutka, municipalità di Skopije interamente abitata da Rom e dove anche il sindaco è Rom. Il seminario è stato organizzato da Stalker/On e Urban Body, con la Facoltà di Architettura Roma 3, con l’Università di TU – Delft e in collaborazione con l’Università di Belgrado, la KTH di Stoccolma e l’ufficio UN-Habitat di Belgrado.

Con Campus Rom abbiamo affrontato la dimensione europea del problema, costruendo una rete tra università europee e affrontando i temi della cittadinanza e del diritto alla casa. Sia la discriminazione dei Rom che l’emergenza abitativa non sono problemi circoscrivibili alla città di Roma ed anzi devono essere necessariamente inquadrati nei loro contesti di riferimento.

Per quanto riguarda i Rom il contesto è senza dubbio la scala europea. È importante tenere a mente che i Rom in Europa sono quindici milioni e che rappresentano l’unica realtà transnazionale d’Europa. Sono quindi un termine di riferimento fondamentale nel processo di integrazione europea, ed è interessante comprendere quale contributo ci possono dare i Rom nel divenire di una identità transnazionale. Anche per questo abbiamo scelto di visitare la realtà Rom non solo a Roma ma anche nella ex Jugoslavia. La loro trasversalità a cavallo dei confini di Schengen è una gran parte del problema, determina ad esempio il loro essere ritenuti stranieri e risultare irregolari anche se spesso nati in Italia o vissuti perlopiù in Italia. Circa il 70% dei Rom considerati stranieri in Italia è originario di quei luoghi, molti di loro si trovano ad essere invisibili, non riconosciuti in Italia e nemmeno dagli stati etnici nazionali nati dalla frantumazione dell’Ex Jugoslavia. Vittime di una guerra che non gli appartiene, estremo tessuto connettivo tra popoli divisi. Nei Balcani abbiamo sicuramente appreso che in Europa i Rom non possono essere considerati stranieri, né nomadi. Abbiamo visitato quartieri e villaggi dove i Rom abitano da centinaia di anni, e compreso l’importanza che i Rom possono avere sia nel processo di disintegrazione jugoslava che nel processo d’integrazione europea.

D: Campus Rom aveva anche un sottotitolo interessante, “Plans & Slums”. Cosa volevate dire?

R: Per quanto riguarda la crisi abitativa, questa va necessariamente inquadrata a scala planetaria dove l’ impressionante crescita dell’urbanizzazione e degli slums in tutti i paesi del mondo costituisce la più importante emergenza ecologica e sociale di oggi e dove le previsioni di grandi spostamenti di persone legati ai conflitti e ai cambiamenti climatici configurano la più grande scommessa per la civiltà urbana e per l’umanità tutta. In questo senso è stato molto utile vedere in paesi come la Serbia e la Macedonia, sospesi tra Europa e il resto del mondo quanto più avvertite e radicali siano le pratiche di intervento sulla questione abitativa. Ci ha fatto comprendere come enti sovranazionali quali UN – Habitat, l’Osce e l’Unione Europea, sostengono e favoriscono strategie di intervento con modalità molto innovative: partecipazione, autocostruzione, perimetrazione e legalizzazione degli insediamenti illegali, rifiuto della pratica dello sgombero, creazione di microinsediamenti… Approcci innovativi e interessanti, spesso fortemente ridotti negli esiti, dal peso e dal costo della burocrazia, ma che purtroppo non vengono proposti o imposti al di qua dei confini di Shenghen. Ma in quel sottotitolo c’era anche una volontà di guardare cosa può esistere in mezzo, tra le baraccopoli e l’urbanistica pianificata.

D: Prima di entrare nel merito di queste riflessioni vorrei comprendere di più sul vostro “metodo” di insegnamento, se così si può dire, in particolare Campus Rom ha visto insieme studenti di quanti paesi? E come siete riusciti a confrontarvi con i Rom in Italia e nell’ex Jugoslavia?

R: Ci siamo posti proprio questo problema attraverso una serie di interrogativi: Come introdurre in una realtà così marginale, complessa e a loro estranea decine di studenti europei, asiatici e sud americani? Come approfittare di questa nostra costitutiva molteplicità e diversità? Come far diventare tante singolarità un soggetto il cui viaggiare produca esperienza e identità inedite necessarie per interrogarsi sulla stessa possibilità della conoscenza di una questione così complessa? Come inventare un rapporto inedito con i Rom che ci permetta di stabilire una relazione di reciproco rispetto e di ascolto, che ci permetta di apprendere da loro senza ricadere negli stereotipi della sclerotizzata relazione Rom-Gagè?
Non avevamo una risposta a così tante domande ma una intuizione su come iniziare, in linea con il modo di approcciare le realtà da investigare da parte di Stalker. Ci siamo così proposti noi stessi come una comunità itinerante ed in divenire, un soggetto da investigare nel suo investigare, abbiamo tagliato i ponti con la nostra normalità, siamo diventati altro, estranei ma partecipi, ci siamo spaesati per risultare spaesanti. E’ nata così l’idea di affittare 9 camper per avvicinare i campi rom in maniera inconsueta e più familiare ai Rom stessi, d’altro canto anche per gli studenti è stata l’occasione per vivere immersi in questa realtà, condividerne l’esperienza, sia con noi che con i Rom.

D: avete affittato dei Camper? E come è stata l’accoglienza dei Rom? Perché site diventati nomadi?

R: Da questo punto di vista devo dire che questa strategia ha funzionato, eravamo disposti a farci cambiare da quella realtà e quella realtà ci ha cambiato, abbiamo iniziato a sentire e sperimentare l’essere noi stessi una comunità a cavallo tra quello che eravamo prima e quello che iniziavamo a capire di ciò che fossero i Rom. Questo nostro estraniarci dal contesto ci ha permesso di abbandonare i pregiudizi e di guardare al problema con occhi nuovi, sguardi diversi. C’erano studenti serbi e iraniani, turchi e messicani. L’intimità sviluppatasi attraverso l’esperienza del viaggio tra tanti stranieri ha fatto emergere una comune visione critica del problema, ad allargare lo sguardo dalla questione abitativa dei Rom al ruolo e che essi hanno e possono avere a scala planetaria ed europea, ci eravamo dati come mandato quello di imparare dai Rom e dai Rom abbiamo appreso molto. Come ci ha detto - presso il memoriale del misconosciuto genocidio dei Rom al Divino Amore - don Bruno Nicolini, un sacerdote che ha vissuto a lungo con i Rom e da loro profondamente rispettato, dobbiamo capire il senso, in una prospettiva planetaria, di quello che può essere il contributo di questo popolo così pervicacemente resistente nell’irrinunciabile processo ecologico di trasformazione umana e sociale che stiamo vivendo. Dobbiamo capire cosa possiamo apprendere da loro che possa contribuire a salvare la civiltà umana.
6_ sull’esperire nuove relazioni

D: Ho visto la pubblicazione “Roma Time” che avete realizzato in inglese per la mostra all’Università di Delft e ho proprio voglia di rigirarvi le domande che avete messo in copertina:

“Come innescare una dinamica che inverta il secolare processo di discriminazione, odio e rifiuto che rende oggi inimmaginabile solo pensare a nuove e reciprocamente rispettose forme di coesistenza tra popolazione rom e gagè?

Come uscire dal binomio campi di concentramento, baraccopoli–discarica che sembra ormai essere le uniche forme abitative ancora tollerate dalla nostra società per i Rom?

Come invertire il circolo vizioso e autoalimentante che a partire dalla discriminazione verso i Rom, rende analfabetizzazione, emarginazione economica, emergenza abitativa, carenze igenico sanitarie, illegalità e rifiuto sociale, problemi inscindibili e stante le condizioni attuali irrisolvibili?

Come impedire che tale circolo vizioso si estenda includendo nel rifiuto sociale verso i Rom il rifiuto verso la diversità e la povertà in genere? Oggi tutti i Rom sono poveri, presto tutti i poveri saranno Rom?

Come impedire che l’assuefazione a tale situazione, che impedisce anche solo di vedere quanto razzista e criminale sia l’abito sociale verso i Rom, non trasformi la discriminazione in persecuzione e quindi la nostra società in un sistema repressivo di cui l’intera società civile diventerebbe vittima?”


R: Le domande già contenevano se non una risposta almeno un avviso:” Si tratta di ristabilire una ecologia tra romani e rom che permetta - a partire da un riconoscimento reciproco – di ristabilire forme di dialogo, scambio, apprendimento e arricchimento, per raggiungere quel rispetto che è alla base del ripristino della legalità e del diritto. Affrontare l’emergenza abitativa dei Rom non può prescindere da tutto ciò.”
Porsi queste domande, ha rappresentato per noi acquisire una nuova consapevolezza necessaria, a nostro avviso per affrontare il problema. La consapevolezza della necessità di integrare in un unico processo tutte le questioni su cui appunto ci interrogavamo. Un processo fondato sulla necessità di sperimentare nuove relazioni tra i soggetti coinvolti della comprensione, gestione e progettazione della realtà Rom. La necessità di descrivere la complessità del problema, il livello di degrado del rapporto tra la città di Roma e i Rom e le possibili strade da intraprendere, proprio a partire dalle relazioni che Stalker ha costruito nel tempo non solo con i Rom ma anche con altre forme di alterità, come i rifugiati curdi e gli immigrati clandestini.
Tali relazioni sono il punto di partenza di questa ricerca, la loro trasferibilità nei rapporti tra le parti in causa. Si tratta di relazioni sperimentali, improntate al rispetto, reciprocamente trasformative, estranee alla simmetria degli schemi “Rom – Gadjè”. Relazioni nate attraverso la pratica dell’ascolto, il rispetto e la condivisione di strategie creative. Alla luce di queste esperienze pensiamo di poter indicare un percorso, attivare un processo, in grado non tanto di offrire soluzioni immediate, quanto piuttosto tracciare una via da percorrere insieme alle comunità Rom della capitale e a quanti oggi sono titolati a elaborare proposte per questo problema di convivenza: amministratori, mediatori, esperti, forze di polizia, ma anche i media, così responsabili dell’attuale incomunicabilità tra Rom e Gadjè e la società civile, che su questo così come su molte altre questioni sembra oggi latitare.
L’emergenza Rom in Europa, in Italia e in particolar modo a Roma può diventare una incredibile occasione per comprendere limiti e contraddizioni della nostra società in questo momento di epocale trasformazione dovuto alla crisi ecologica e sociale che attraversa il pianeta.
In questo senso i Rom rappresentano l’emergere in Europa di un fenomeno planetario che è quello degli esclusi e delle loro baraccopoli, delle economie alternative di sopravvivenza, del riemergere dei legami sociali devastati dal capitalismo globalizzato. Un fenomeno che non può essere visto solo come un rischio sociale, qualcosa da cancellare, il tabù delle società del benessere, ma deve esser scrutato come indicatore di nuove forme di vita, di ineluttabili cambiamenti da affrontare e non rimuovere. Oggi dai Rom, dalla loro situazione e dal sentimento che questa produce nella nostra società abbiamo molto da imparare. La resilienza di questa realtà invisibile ed esclusa può permetterci di capire ed affrontare scenari ormai prossimi, di sperimentare strade per affrontare il cambiamento incombente.



7_ sulle proposte presentate alla Triennale a Milano

D: Alla Triennale di Milano presenterete queste esperienze formative portate avanti con le Università, ma mi sembra di aver capito che ci sarà una installazione che in fondo lancia delle proposte, ipotizza un percorso per affrontare il diritto alla casa dei Rom. Me lo spiegate?

R: Si è un’installazione che abbiamo immaginato come un percorso obbligato per il visitatore, una serie di proposte dalla scala europea a quella nazionale, cittadina fino a raggiungere e calpestare la terra su cui i Rom potrebbero - come molti altri cittadini privi di abitazione - realizzare finalmente una casa in autocostruzione.

La prima proposta è di dare ai Rom, così come a chi lo richiedesse un Passaporto Europeo Transnazionale, ovvero un documento che ne attesti la specificità di popolo europeo senza territorio, senza privarli dei diritti di cittadinanza.

A livello nazionale ci sembra fondamentale cancellare quell’ignominia per cui i Rom vennero esclusi dalla legge del 1999 sulla tutela delle lingue e delle minoranze, pur essendo la più consistente minoranza presente in Italia, reinserendoli nel testo di legge così da poter avvalersi dei diritti di essere una minoranza riconosciuta.

A livello regionale e cittadino proponiamo la cancellazione della legge che istituisce i Campi di Sosta, meglio conosciuti come “campi nomadi”, luoghi di abietta discriminazione sociale. Solo a partire dalla chiusura dei campi si possono individuare diversificate strategie di inserimento abitativo e sociale dei Rom.

E infine per la città di Roma proponiamo l’uso della perequazione per densificare la città consolidata e liberare migliaia di ettari di Campagna Romana dalla speculazione edilizia, mille dei quali da destinare quale patrimonio pubblico in usufrutto vitalizio a chi è bisognoso di accedere alla casa ed è pronto a realizzarla in autocostruzione. 1000 ettari potrebbe essere sufficienti se ben progettati urbanisticamente a dar casa a 100.000 persone, più o meno rispondendo a quello che è l’attuale fabbisogno abitativo della città, Rom inclusi.


8_sul campo di via del Foro italico 531

D: da più di un anno state seguendo le vicende del campo di Via del Foro Italico 531. Come siete entrati in contatto con loro?

R: è un posto in cui siamo “inciampati” lungo la camminata “sui letti del fiume”, e su cui abbiamo deciso di soffermarci per diversi motivi. Il primo è che abbiamo trovato subito una ottima accoglienza, abbiamo conosciuto Miriam e dopo pochi minuti stavamo già conversando di fronte ad una tazza di caffé turco. Il secondo è che è un campo piccolo, una sorta di grande famiglia allargata, la dimensione di quelle “microaree” che ci sembrano essere una valida soluzione al problema abitativo. Il terzo è che anche dal punto di vista urbanistico sembra una situazione favorevole: è sul Tevere ma non è in un area esondabile, è il solo campo del II Municipio, sono solo 50 persone, e quindi forse si potrebbe facilmente trovare una sistemazione o lì dove sono o all’interno del Municipio. E poi le abitazioni non sono tutte “baracche”, ma ci sono delle vere e proprie “case” a volte grandi e molto decorose, quasi un modello di habitat non solo per rom ma anche per i gagé. Insomma è un campo dove abbiamo capito che era possibile scendere di scala, affrontare il problema dal punto di vista urbanistico e architettonico. La situazione in principio era molto complessa, oltre ai rom c’erano anche i rumeni che vivevano nelle baracche lungo gli argini.

D: avete conosciuto anche le persone che vivevano nelle baracche? Che relazioni avevano con i rom?

R: all’inizio i rom ci hanno messo in guardia, dicevano che lì sotto la situazione era estrema, che era pericoloso scendere. Ci siamo inoltrati nel canneto un po’ timorosi e abbiamo incontrato la situazione tipica della baraccopoli tiberina, era un po’ una giungla e non si capiva bene. Tra le canne c’erano baracche costruite alla meglio, con cartoni, legni, canneto. C’erano 200 persone o almeno cosi ci hanno detto, erano tutti rumeni e c’erano anche delle famiglie di rom rumeni con bambini. A quanto abbiamo capito quasi tutti lavoravano nei cantieri e ogni mattina attraversavano la tangenziale e si mettevano di fronte allo smorzo dove c’è uno dei punti di raccolta dei “caporali” che li portavano a lavorare nei cantieri con i pulmini. Noi ci siamo fermati da Elena una donna di una quarantina di anni che faceva la badante da una signora lì vicino al quartiere Parioli. Ci ha ospitato per un intero giorno nello spiazzo di fronte a casa sua per costruire con le canne una sorta di nido.

D: si ho visto le foto, ma cosa stavate cercando di fare?

R: era per l’installazione che avremmo dovuto fare il 21 giugno per Tevereterno, il progetto di Kristin Jones. L’idea era di costruire con fasci di canne legate tra loro dei grandi nidi-culle, culle tiberine per Rom e Remo da far scivolare lungo il fiume fino al centro di Roma. Potevano accogliere una decina di persone ciascuno, e ogni nido avrebbe avuto un ambiente sonoro diverso che raccontava le storie raccolte lungo la camminata. Agli studenti sembrava troppo elaborata, troppo estetizzante, e forse avevano ragione. L’operazione si è semplificata ed è stata sostituita con lo Sleep-Out sotto Ponte Cavour, in cui le storie raccolte sono state consegnate al pubblico chiuse in buste da lettera e si è dormito più semplicemente nelle tende.

D: e poi quand’è che li hanno sgomberati? E perché solo i rumeni e non i rom?

R: Quando siamo arrivati il 25 giugno 2007, la parte sotto, lungo il fiume, era già completamente rasa al suolo, mentre sopra, nel campo vero e proprio, stavano demolendo delle baracche lasciando in piedi solo quelle abitate dalle famiglie rom censite nel 1995. La situazione era paradossale, la vita dei rom si svolgeva nella quotidianità mentre tutto intorno le ruspe spaccavano tutto. I rumeni si erano rifugiati sotto un ponte e avevano passato la notte all’addiaccio. Non avevano più niente, gli erano rimasti i vestiti e lo zainetto con cui erano andati al cantiere il giorno prima. Molti avevano perso anche i documenti. Elena aveva perso il lavoro perché da due giorni non si era presentata dalla anziana che assisteva. I bambini non avevano vestiti e dormivano sui pochi materassi che erano riusciti a racimolare tra le macerie. Insomma una situazione veramente difficile da raccontare. Non ci sono parole.

D: e i rom?

R: I rom si erano salvati, almeno per questa volta. Loro avevano ancora il diritto di rimanere là dove erano stati messi da 17 anni da un’ordinanza del sindaco e quindi erano ancora “legali”. E in realtà sembravano comunque contenti che la situazione venisse bonificata, perché negli ultimi tempi c’erano stati dei problemi. Tra i rom e i rumeni c’erano diverse relazioni: i rom gli affittavano le case che erano rimaste vuote e quindi avevano un guadagno dalla loro presenza, i rumeni invece riuscivano ad aver l’acqua e l’elettricità, e soprattutto i rumeni erano ottimi operai edili e sono stati proprio loro a costruire molte delle case dei rom. Insomma c’era una microeconomia che si era creata e il campo era comunque più denso di persone, più animato, in un certo senso più urbano. Da quando i rumeni non ci sono più sembra di essere in un villaggio abbandonato, la città sembra essere ancora più lontana.

D: prima mi hai detto che avete capito che qui c’era la possibilità di scendere di scala, in che senso?

R: Nel senso che si poteva provare a fare un lavoro concreto con gli abitanti, un progetto che partisse dalla conoscenza dei loro nuclei familiari, delle loro abitudini, di come loro si erano costruiti il loro habitat. Qui era possibile fare un progetto come un abito su misura, non un progetto astratto. È per questo che lo abbiamo scelto come tema per il Laboratorio di Progettazione Architettonica e Urbana di Roma TRE. La prima volta, penso, che un corso di progettazione ufficiale abbia proposto come tema “un campo nomade”. All’inizio gli studenti erano un po’ perplessi. Mentre il corso di arti civiche era facoltativo, questo era obbligatorio e quindi anche se avevi dei pregiudizi ci dovevi passare comunque. Ma con il tempo gli studenti si sono molto appassionati, si rendevano conto di non saperne assolutamente niente e che ogni giorno facevano dei grandi passi, riuscivano a trovare sempre nuove risposte alle proprie domande. E poi nessuno gli aveva mai chiesto di fare un progetto con una committenza cosi definita, in cui i futuri abitanti dei loro progetti avevano un nome un cognome, un età e addirittura un volto e delle relazioni con loro. L’intento era dimostrare che quel campo da provvisorio poteva diventare permanente. C’erano più strade possibili: la prima era quella di legalizzare e far evolvere la situazione a partire da quella iniziale, dotando il campo di servizi e ristrutturando le case fatiscenti; la seconda era partire dalla tabula rasa e ridisegnare interamente il campo; la terza, quella che alla fine è stata adottata da tutti è stata una via di mezzo, cioè una evoluzione graduale da uno stato iniziale ad uno stato finale completamente rinnovato. Se avessi l’incarico fare veramente un intervento sul campo seguirei la prima strada, ma comunque è stato importante che gli studenti inserissero il fattore tempo nel loro progetto. Che studiassero una evoluzione ed una cantierizzazione che permettesse agli abitanti di continuare a vivere lì durante la realizzazione del campo.

D: mi immagino che per questo tipo di progettazione sia importante conoscere i legami familiari. Avevate un censimento?

R: il censimento ufficiale non lo abbiamo mai avuto, ma da subito gli studenti si sono messi a fare l’albero genealogico delle famiglie e alla fine siamo arrivati ad una immagine in forma di ruota, con anche le zone di pertinenza di ogni famiglia. È stato complicato perché i componenti del campo sono imparentati tutti tra loro, c’è stato un gruppo di studenti che si è dedicato esclusivamente a questo e non riusciva mai ad arrivare a una soluzione definitiva. I Rom per confondere le acque hanno spesso più nomi, soprannomi, nomi italiani, serbi, romanes. Nascevano bambini, alcune famiglie se ne andavano, altre si erano in principio rese invisibili e si erano palesate solo dopo. Ogni volta che andavamo al campo bisognava ricorreggere tutto.

D: come funzionava, andavate regolarmente al campo, i rom seguivano l’andamento dei progetti?

R: all’inizio siamo andati molte volte, abbiamo cominciato con il conoscere le persone, leggere le architetture delle loro case, le loro distribuzioni, la tipologia e poi anche a cominciare a disegnare gli interni delle case e ad avere una planimetria sempre più definita delle infrastrutture, degli usi, delle “proprietà”, delle pertinenze e degli spazi vuoti. In seguito andavamo una volta al mese a fare vere e proprie “revisioni”, delle specie di stati di avanzamento dei progetti, in cui i rom correggevano i progetti o davano i loro giudizi anche di merito e di gusto sulle differenti soluzioni.

D: e loro proponevano anche delle ipotesi o si limitavano a criticare le vostre?

R: una volta è successa una cosa molto bella. Dopo le critiche loro si sono messi a dire come lo avrebbero fatto. E a un certo punto Roky ha detto: perché non lo facciamo a forma di U? A quel punto è uscito fuori un tavolino e Davide ha cominciato a disegnarci sopra a pennarello un impianto a corte aperta verso sud. Un cortile da cui tutti potevano vedere tutti e soprattutto in cui tutti potevano controllare l’entrata. Poi ha disegnato i parcheggi per le macchine nel piazzale di ingresso verso la tangenziale, quelli per i camper nel lato della ferrovia e giochi per bambini e spazi comuni all’interno del piazzale centrale. Insomma un vero e proprio progetto.



9_le baracche e le case

D: e per quanto riguarda le case, sono stati utili i loro consigli?

R: questo è forse il punto più interessante: sanno benissimo come deve essere la loro casa e sannoi trovare soluzioni tecnologicamente appropriate. In realtà le loro case più belle le hanno costruite i rumeni, ma loro hanno aiutato e visto come si fa. La tipologia adottata da tutta la comunità è quella della casa isolata ad un piano con veranda. La veranda ha di preferenza un orientamento a sud, è lo spazio più importante della casa, la soglia dove si svolge la maggior parte del tempo anche d’inverno, spaziosa per ospitare una tavolata interfamiliare e se possibile per avere anche una cucina esterna: è l’abito principale che si mostra all’esterno. Da qui si accede a un soggiorno pranzo, dove sempre si trova la stufa a legna - lo sporretto - una sorta di focolare di ferro su cui si cucina e che scalda l’intero ambiente. Le camere da letto sono meno vissute e si aprono direttamente sul soggiorno senza disimpegni, la cucina che è sempre a vista verso il soggiorno. Alcune case hanno il bagno interno, altri usano i bagni chimici all’esterno. A quanto abbiamo capito il secondo piano non è rifiutato a priori ma evitato per difficoltà di autocostruzione, mentre il fatto di fare case isolate risponde soprattutto ad esigenze di antincendio, per non propagare il fuoco e limitare i danni. E comunque quando le case sono adiacenti, sono della stesa famiglia.

D: ma se le saprebbero veramente costruire loro. Con che tecnologie?

R: direi proprio di si, magari andrebbero guidati organizzando un cantiere di formazione. Ma si potrebbe partire da quello che sanno fare e apportare alcune migliorie ai loro sistemi, accorgimenti tecnici e innovazioni tecnologiche per a rendere l’abitazione più sicura, più duratura, più ecologica ed energeticamente sostenibile. In base all’analisi di diverse abitazioni è stato possibile dedurre le tecnologie che usano. Le fondazioni sono un cordolo di cemento perimetrale al cui interno gettano calcinacci e su cui viene fatto un massetto di cemento. La struttura verticale, composta di murali di legno 10 x 10 posizionati ogni 2 metri, viene affogata nel cemento per circa 50 cm. Poi tra murale e murale viene inchiodata una parete esterna di assi da getto 200 x 50, viene messo come isolante la lana di vetro per evitare che vi entrino i topi, e poi il rivestimento interno con fogli di legno di spessori minori. Il tetto è sempre a falda con una pendenza verso la veranda ed è costituito da pannelli di lamiera su una struttura di travetti da 10 x 25 ogni 50 cm, il tutto viene controsoffittato ad un altezza di 220 – 250, per limitare al massimo il volume da riscaldare.

D: e quanto costano?

R: Sono case molto economiche che escluse le opere di urbanizzazione costano tra i 100 e i 200 euro a metro quadrato. Sono case molto grandi, a volte fino a 120 metri quadrati. Il costo principale è quello dei materiali per la struttura, mentre finestre, porte, rivestimenti, pavimentazioni e sanitari sono quasi tutti elementi riciclati e riadattati.

D: Beh da questo punto di vista ci sarebbe proprio molto da imparare.

R: si, usano sistemi economici ed anche ecologici, fondate su pochi e buoni principi:

- estendibilità: sono tutte case cresciute nel tempo per addizioni successive, il nucleo di base è uno spazio coperto (in principio erano le roulotte dotate dal comune) cui si affianca una veranda esterna, poi cresce a seconda delle dimensioni del nucleo familiare e delle sue capacità economiche.

- autocostruibilità: la tecnologia in legno, permette di immaginare sia la totale autocostruzione che un sistema di moduli base estendibili in autocostruzione solo successivamente.

- sostenibilità: sono sostenibili perché riciclano quasi tutto, ma non lo sono ancora dal punto di vista energetico e si potrebbero invece proporre componenti a bassa tecnologia facilmente realizzabili e riparabili dagli abitanti, tipo dei pannelli solari per avere acqua calda

- flessibilità: la struttura con montanti in legno permette di spostare con facilità tramezzi interni, cambiare porte, aprire finestre, chiudere verande…

D: da quello che dici sembrerebbe veramente che in questo campo si potrebbe ipotizzare un progetto pilota. Avete costruito una relazione con le amministrazioni? Che progetti ha il Municipio?

R: con la vecchia giunta avevamo instaurato una buona relazione, a novembre avevano approvato un ordine del giorno in cui si avanzava l’ipotesi dello sgombero, poi siamo riusciti ad organizzare una visita al campo e a far comprendere che la situazione non è di degrado come viene fatto sembrare. In particolare con l’Assessore ai servizi Sociali, Elena Improta abbiamo cominciato a lavorare su un progetto proposto da Stalker e dal Dipartimento di Studi Urbani per rendere compatibile il campo con i progetti di sviluppo dell’area. Abbiamo dimostrato che l’apertura della nuova stazione ferroviaria potrebbe benissimo integrarsi con il campo. E rispetto al problema che il campo è oggi sui posti auto del vecchio parcheggio della ferrovia, abbiamo dimostrato con i progetti degli studenti che ci sono molte soluzioni per reperire i parcheggi necessari nelle vicinanze. Adesso ci sono state le elezioni e la giunta è cambiata, bisogna vedere se riusciremo a costruire una nuova relazione di fiducia.


10_Campus Rom e Arti Civiche a via del Foro Italico

D: siete venuti anche qui con i camper di Campus Rom? Com’è andata?

R: quando ci hanno visto arrivare quasi non credevano ai loro occhi. Li avevamo avvertiti, ma forse avevano creduto che scherzavamo. Sembrava una invasione, cinquanta studenti provenienti da tutti i paesi in nove camper parcheggiati sul piazzale di ingresso. Siamo stati accolti molto bene, abbiamo cominciato ad organizzare lo spazio per la cena, faceva molto freddo e quando si è scoperto che cera una casa vuota, e che avremmo potuto mangiare lì, è stato un passaggio importantissimo. Abbiamo pulito “la casa gialla”, rimesso in funzione la stufa, e soprattutto loro, contrariamente a quanto ci avevano preannunciato, si sono messi a organizzare la griglia, a cercare tavoli e sedie… insomma si è messa in moto una bella collaborazione. Abbiamo fatto le tre di notte scherzando e ridendo. E il fatto di risvegliarsi lì in camper il giorno dopo ha accorciato molte distanze.

D: ma è vero che poi avete chiesto di darvi gli indirizzi e siete andati a vedere le loro case in Serbia?

R: Si quando hanno saputo che pochi giorni dopo saremmo andati Belgrado ci hanno subito detto che saremmo dovuti andare a Indidja, la loro città. Ci hanno dato indirizzi, indicazioni stradali, contatti, e cosi una volta a Belgrado abbiamo affittato una macchina e siamo andati a cercarle. È stata una vera sorpresa. Sono case assolutamente “normali”. Nel senso che sono in muratura, di tre piani con garage, e soprattutto sono inserite all’interno di quartieri misti, non ci sono elementi esterni da cui potresti dedurre che si tratta di abitazioni di Rom. Sembra molto strano che i proprietari di quelle case vivano in baracche accanto alla tangenziale di Roma. In realtà non è pensabile che loro ritornino qua, non hanno più legami, sono in Italia da tre generazioni e le ultime due non parlano più neanche il serbo. Adesso molti di loro stanno cercando di vendere per comprarsi dei terreni agricoli vicino a Roma dove poter costruire e poi condonare.

D: al vostro ritorno dalla Serbia qui in Italia ci sono state le elezioni, hanno influenzato il vostro lavoro?

R: come dicevamo, i rapporti costruiti con le amministrazioni sono sospesi, è impossibile fare qualsiasi passo avanti. Nel frattempo la situazione dei Rom in Italia continua a peggiorare. I media denunciano ogni giorno atti di violenza commessi da rom e rumeni, alimentando la paura dei cittadini, i pregiudizi e l’odio. E ad oggi l’unica parola che viene usata per contrastare questi fenomeni è sicurezza. Ma in questo momento storico credo non sia in gioco la nostra sicurezza quanto la nostra capacità e la nostra volontà di essere e rimanere un paese aperto ai cambiamenti, un paese flessibile dove sia possibile ricominciare a immaginare un futuro positivo e costruttivo. Andrej Tarkovskij aveva tradotto bene questo pensiero paragonando la vita dell’uomo a quella dell’albero: “Anche l'albero mentre cresce, è tenero e flessibile. Quando è duro e secco, muore. Rigidità e forza sono compagne della morte. Debolezza e flessibiltà esprimono la freschezza dell'esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà.” Irrigidendoci consideriamo l’altro un nemico, precludendoci qualsiasi altra possibilità.

D: i rom cosa pensano di voi?

R: direi che ancora non hanno un’idea chiara riguardo la nostra identità, sanno che siamo architetti e probabilmente si aspettano da noi progetti architettonici, ma durante la nostra permanenza al campo secondo me hanno capito che cerchiamo qualcos’altro oltre all’architettura.

D: cosa cercate nei rom?

R: continuiamo a vedere in loro una speranza, attraverso loro la possibilità di costruire una città diversa.

D: da quanto avete incontrato questo campo avete smesso di camminare?

R: non esattamente. Ovvero, il camminare ci ha portato fin qui, e continuiamo a camminare tutti i giorni da quando siamo al campo, ma in un modo diverso, in una dimensione che non ha propriamente a che fare con il percorso che puoi tracciare su una mappa, una dimensione che riguarda piuttosto il camminare in profondità, l’esperienza che devi costruire per raggiungere l’altro, intimamente. Quell’esperienza che richiede confronto, prossimità, empatia. Dal nostro incontro con il campo abbiamo intravisto la possibilità di poter lavorare qui in profondità. Di poter costruire in questo luogo un’utopia concreta.

D: che cosa avete pensato di fare con il corso di arte civica quest’anno?

R: dar luogo ad un’esperienza poetica che permettesse a rom e gagè di incontrarsi nei luoghi di questo campo. Un modo per far conoscere questa realtà agli abitanti del quartiere, per essere assieme e decostruire pregiudizi attraverso l’esperienza diretta. Tempo fa avevo ricevuto una mail che parlava di uno spettacolo teatrale di Tony Lo Zingaro, un’artista rom. Questo spettacolo avrebbe raccontato con ironia la condizione dei rom nei campi sosta italiani, sia dal punto di vista dei rom che dal punto di vista dei gagè. Ho contattato Tony e ho cercato di capire cosa avesse in mente. Uno spettacolo teatrale per i gagè, dove sul palcoscenico del teatro una scenografia avrebbe riprodotto le condizioni del campo.
Parlando con lui gli ho mostrato la possibilità di fare lo spettacolo al campo piuttosto che a teatro, in questo modo la rappresentazione avrebbe coinvolto sia i rom che i gagè. Questo avrebbe permesso alle due culture di incontrarsi sullo stesso piano. In questo modo lo spettacolo avrebbe potuto testimoniare la realtà dove e come è, piuttosto che ricostruirla in uno spazio di finzione. Sotto le stelle, sull’argine del fiume, nella città possibile.
Immaginando la situazione con Tony gli ho anche proposto che avremmo potuto costruire una scenografia per lo spettacolo rispondendo alle reali necessità del campo: costruire uno spazio pubblico per fare feste, incontri, dibattiti, cene e matrimoni, costruire dei giochi per i bambini, rigenerare le soglie (gli accessi al campo).
Gli studenti dovrebbero proporre contenuti e modi di costruire questa scenografia, dovrebbero individuare percorsi per mettere in relazione il campo con la città, immaginando che l’esperienza poetica possa assumersi il compito di ricucire una frattura – tra il mondo dei rom e il mondo dei gagè – da un punto di vista simbolico, culturale e territoriale.

D: cosa avete fatto finora?

R: finora ci siamo incontrati con gli studenti tutti i lunedì pomeriggio al campo. Abbiamo chiesto loro di sprigionare idee, dubbi, perplessità riguardo al mondo rom. E allo stesso tempo abbiamo chiesto loro di maturare un approccio individuale e intimo al tema. Mi spiego meglio, credo che un rapporto sincero con questa realtà possa scaturire soltanto da una propria necessità culturale, da un desiderio di metter in gioco la propria visione del mondo, della città e dell’umanità che vi abita.

Questo è molto difficile per loro ed è per questo che finora i loro passi sul campo sono stati incerti e fragili. Altrettanto per noi. Essere nella condizione di voler imparare dai rom, e allo stesso tempo di insegnare agli studenti lo stesso approccio non è un passaggio pedagogico scontato. Finora abbiamo lasciato che le cose accadessero, invitandoli a prendere confidenza con questa realtà per permettere loro di avvicinarsi al progetto in maniera sincera e coerente. E fino a ieri non è successo niente. Per gli studenti non è semplice costruire un rapporto con le famiglie. E le famiglie non partecipano. Non sembrano nemmeno preoccupate del nuovo panorama politico e dell’imminente minaccia di sgombero.

D: avete organizzato un atto di residenza poetica, di cosa si tratta?

R: circa un mese fa ci ha contattato il gruppo di scout di questo municipio, ed è nata l’idea di organizzare un fine settimana con attività pratiche e pernotto. Già con il seminario Campus Rom avevamo dormito lì e ci è sembrata un’ottima idea ripetere questa esperienza. Un risveglio rom nel cuore della città cambia la percezione di quello spazio. Elaborando idee sul nostro stare con i rom in quei due giorni è nato l’atto di residenza poetica. Una residenza poetica è quando decidi di abitare in un posto per farlo sbocciare dal suo interno, attraverso il tuo abitare. La residenza poetica ha a che fare con la scelta di essere presente. Prossimo.

D: cosa avevate programmato questo fine settimana?

R: di passare tre giorni al campo, assieme agli studenti, agli scout e alle famiglie. Abbiamo fatto un programma: il sabato una pulizia generale, la domenica una tinteggiatura del tunnel disastrato e buio e lunedì le rifiniture e i programmi per i prossimi incontri.

D: e cosa è successo oggi? (sabato 10 maggio 2008)

R: stamattina ci siamo presentati al campo alle 11, poi sono arrivati gli studenti, gli amici degli studenti, all’inizio eravamo in pochi, cinque o sei, e non succedeva niente. Davide, col quale abbiamo ormai stretto rapporti di amicizia, ci ha detto chiaramente che nessuno di loro avrebbe lavorato con noi. Che lì nessuno ha voglia di fare niente e che nessuno di loro ci invita a stare lì. Fa caldo, la prima giornata d’estate. Il sole, la cappa della città.

Decidiamo di non fare più niente, siamo affranti e stiamo per abbandonare tutto. Rimaniamo seduti all’ombra della veranda di Zoran, convincendoci che ogni tanto non lavorare, placare l’ansia della produzione fa bene. E se fa bene ai rom fa bene anche a noi. Una grande lezione. Mi tornano in mente le parole di Don Bruno Nicolini, quando mi ha detto che i rom spendono tutto il loro tempo vivendo, che i rom non producono, che i rom creano. Una grande lezione. Abbandonare il nostro ritmo e adottare il tempo rom. Nell’ombra oziosa si sono avvicinati a noi tutti i giovani. Come trovare una chiave per proseguire il nostro percorso in profondità? A un certo punto è successo. Qualcosa è accaduto, e abbiamo iniziato a giocare con il linguaggio. Un abbecedario per l’esattezza, intorno al tavolo della veranda, abbiamo iniziato a scrivere insieme: rom, studenti spagnoli, cileni, italiani e Beverly artista austriaca che con noi parla l’inglese. Il nostro abbecedario è iniziato dalla lettera “A” e si è concluso con la lettera “J” e “K”, in successione dopo la nostra “Z”. La prima parola “amore” e l’ultima “chi”, in romanesh “ko”. Italiano, romanesh, spagnolo e inglese, passando per le parole desiderio, fame, niente, odio, piacere, soldi, vergogna e altre.

Abbiamo iniziato così, traducendo le parole che ci venivano in mente. Questo gioco riguardava tutti, senza coinvolgere o escludere nessuno. A volte le cose succedono e basta. E oggi è andata così. Non saprei dire con esattezza il momento preciso in cui qualcosa ha cominciato ad accadere, ma chiamare in causa il linguaggio ci ha permesso di arrivare oltre qualsiasi nostra aspettativa.

D: da quello che dici mi sembra di capire che è importante trovare una chiave per entrare in relazione con le persone e con i luoghi.

R: credo sia così, non c’è mai un’unica formula, ogni volta la costruzione delle relazioni richiede un’invenzione, l’elaborazione di una strategia nuova, che ti mette in discussione. Nell’elenco di parole abbiamo scelto “gioco”, poi “strada” e “piazza”, e abbiamo cntinuato a giocare inventando nomi per le strade del campo. Dal linguaggio siamo passati alla toponomastica, nominando per la prima volta in diciassette anni dal loro arrivo i luoghi in cui si trovano le loro case.

La strada di ingresso è stata nominata Via Roma (Via dei Nomadi), la prima strada a sinistra Ulica Bactalì (Strada Fortunata), la seconda a sinistra Ulica Monte Parioli (residenza dell’ambasciata Serba), la terza a sinistra Ulica Barvalì (Via Ricca), l’ultima traversa a sinistra Ulica Sucar (Via Bella). La strada a ridosso del fiume è stata nominata Lungotevere Rom. L’area all’ingresso del campo è stata nominata Piazza Homenenghi (Piazza di Tutti). Così abbiamo iniziato a sprigionare energia creativa insieme. Ascoltando i loro desideri abbiamo iniziato a lavorare; alcuni studenti si sono messi a costruire una cassetta postale insieme a Mirko, giovane rom. Noi abbiamo continuato a giocare nominando dei responsabili (tra i rom) per ciascuna strada: ognuno di loro si sarebbe occupato di fare una direzione dei lavori coordinando studenti e scout. Nel frattempo è arrivato il gruppo di ragazzi scout, e subito dopo aver nominato i direttori dei lavori rom, abbiamo formato i gruppi di lavoro. Tutti si sono messi al lavoro, anche i rom più giovani (15-18 anni), ed è stato incredibile osservare questo paesaggio per la prima volta positivo, energico, creativo. Abbiamo continuato fino a sera, poi cenato assieme immaginando quali potessero essere i passaggi ulteriori. Parlando con alcune donne dopo la cena ho capito che quello che era successo non era un evento eccezionale solo per noi, ma anche per loro. Un miracolo quasi. Nessuna di loro aveva mai visto lavorare gli uomini assieme e assiduamente per il campo come oggi.

D: e gli studenti come hanno reagito a questo miracolo

R: mi sembra che siano stati coinvolti come ancora non era successo. Sembravano finalmente a loro agio. Indipendenti da noi, dentro questa nuova realtà. Dopo cena sono rimasti a dormire nella “casa gialla” che per ora è libera. Le donne gli hanno prestato i materassi, preoccupandosi che avessero tutto il necessario per passare la notte. La domenica abbiamo concluso i lavori, realizzando anche un parco giochi per i bambini con un’altalena e un dondolo, grazie al grande aiuto degli scout.

D: il lavoro fatto in questi giorni in che modo serve alla realizzazione dell’esperienza poetica di cui mi parlavi?

R: fare programmi è molto difficile. Abbiamo deciso di perseguire l’obbiettivo di costruire un’azione poetica a fine corso con gli studenti e con Tony lo zingaro. Ma abbiamo capito che se questo succederà sarà possibile soltanto grazie ad altre occasioni di questo tipo, ad altri miracoli prodotti dal processo creativo che ci vede reciprocamente coinvolti con le nostre diverse visioni del mondo. Penso che il primo passo da fare è capire come quello che sta succedendo possa essere comunicato alla città, come possa contribuire prima di tutto a costruire un nuovo immaginario sui rom romani, nostri vicini di casa.


11_ al Casilino 900 con i camper di Campus Rom

D: come comincia la vostra storia con il campo del Casilino 900?

R: eravamo in piena preparazione del seminario Campus Rom, verso la fine del gennaio del 2008, era tutto pronto quando arriva una telefonata di Aldo Hudorovich che ci dice che sono stati nuovamente sgomberati e che sono finiti a Tivoli in un parcheggio, per qualche giorno. Una delle giornate del seminario itinerante sarebbe dovuta essere da loro, all’accampamento dei kalderasha a Saxa Rubra, dove si erano spostati dopo lo sgombero del Campo Boario di Testaccio. Saremmo dovuti andare a dormire là con i nostri nove camper e adesso abbiamo una notte scoperta. Aldo dice che non è il caso di inseguirli per le strade di Roma, perché attirerebbe i controlli, che lui verrà a Testaccio il primo giorno per aprire il seminario con un bell’incontro intorno al fuoco.
Insomma dobbiamo sostituire la visita ai Kalderasha con un altro campo. Chiediamo a Marco Brazzoduro che conosce i campi di Roma più di chiunque altro. Ci consiglia vivamente il Casilino 900 e ci mette in contatto con Najo Adzovic il portavoce montenegrino. Al telefono è molto gentile e disponibile, ci mettiamo d’accordo per un incontro il giorno seguente. Quando torno a casa vedo che è arrivato un pacco postale con i libri sui rom che avevo ordinato in internet, tra questi c’è anche il libro di Najo Adzovic, “Il popolo invisibile Rom” edizione Palombi. Solo in quel momento capisco che sono la stessa persona. Me lo leggo tutto fino a notte tarda e scopro un Rom tutto particolare, che ha fatto tutte le scuole fino a diventare ufficiale dell’esercito di Tito. All’inizio del conflitto disobbedisce all’ordine di fucilare quindici suoi sottoposti colpevoli di essere mussulmani e quindi possibili traditori in quella guerra civile che stava per scoppiare di li a qualche settimana. Decide di portarli nella foresta e poi invece di fucilarli li libera. Diventa disertore, scappa e percorre a piedi per tutta la Jugoslavia fino a entrare clandestino in Italia dove scopre che i suoi parenti vivono nei campi e nelle baraccopoli e non nelle case dove lui li immaginava. Lui, che non sapeva neanche parlare romanès, diventa così un “rom in Italia” e comincia una vita da baraccato. Non ci vuole credere, non ci sta, non riesce ad abbandonarsi ad un destino da cui assolutamente vuole sottrarsi.

D: e poi quando siete entrati nel campo per la prima volta che impressione vi ha fatto?

R: il giorno dopo Najo vestito di tutto punto ci aspettava nel piazzale di ingresso sulla Casilina. Eravamo io Lorenzo e Fabrizio, e dopo avergli spiegato il progetto ci ha affidato a sua figlia per farci fare una prima passeggiata, evitando accuratamente di entrare nella parte kossovara. Casilino 900 era incredibilmente più grande degli altri campi in cui ero entrato, la strada non finiva mai e la situazione ancora più articolata e complessa: una coabitazione di quattro nazionalità diverse, provenienti tutte dalla ex Jugoslavia: macedoni, bosniaci, kosovari e montenegrini. Quasi mille persone che vivevano dimenticati dal mondo - “invisibili” come diceva Najo - e che qui avevano ricostruito una sorta di quartieri etnici-familiari, le mahalla che avevamo visto nei Balcani. Sembrava la ricostruzione in miniatura della balcanizzazione della ex Jugoslavia, ma tra di loro non sembravano in guerra. Quando siamo arrivati poi con i Camper e gli studenti stranieri ci siamo resi conto subito che qui il problema abitativo non era la priorità. Tutti ci parlavano dei documenti, l’urgenza principale era ed è questa: vivono in Italia da tre generazioni ma non hanno la carta d’identità, hanno l’atto di nascita, le pagelle, il tesserino sanitario, tutte le bollette della luce e a volte del telefono e ancora vivono con l’incubo del rinnovo del Permesso di soggiorno. È incredibile: sei nato in Italia, parli italiano ma quando hai diciotto anni automaticamente diventi clandestino, perché anche i tuoi progenitori ex jugoslavi non hanno documenti, perché le anagrafi dei loro paesi di provenienza spesso sono bruciate, e comunque sono scappati e non li rivogliono indietro i rom, né loro né i loro figli. E quindi puoi essere rimpatriato in un paese di cui non sai la lingua e non sapresti nemmeno dove andare, quindi passi dei mesi nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione), per poi essere rispedito al campo, di nuovo senza documenti, in uno stato di sospensione. Al Casilino 900 ci è stato chiaro che il primo dei loro problemi è la loro stessa identità, il divieto assoluto di mettere radici.

D: Ma quando avete cominciato a pensare di costruire una casa al Casilino 900?

R: Era da tempo che la cosa era nell’aria, fin dai tempi della camminata sui letti del fiume. Ma direi che l’idea di costruire veramente una casa insieme a loro ci è venuta verso dicembre 2007, quando la Triennale di Milano ha invitato Stalker a realizzare un prototipo per la mostra “Una Casa Per Tutti” . Parallelamente al Campo del Foro Italico abbiamo cominciato a visitare sempre più spesso il Casilino 900 e qui comprendevamo che era diverso. Abbiamo stretto subito migliori relazioni e c’era una grande volontà di riscatto. Qui le case non le avevano costruite i rumeni, ma se le erano fate direttamente loro. Guardavamo le case con altri occhi, e nel parlare con chi le aveva costruite e con chi ci abitava, cercavamo di capire quanto costavano, in che misura erano di materiali di riciclo, quali erano le invarianti tipologiche. Insomma eravamo in una fase di studio quando in aprile, Francesco Rutelli, che aveva messo tra i punti del suo programma elettorale lo spostamento del Casilino 900, quattro giorni prima delle elezioni e quindi come azione puramente elettorale, manda le ruspe al campo e fa buttare giù diciotto baracche con la scusa di fare spazio a una strada di emergenza per il passaggio dei vigili del fuoco. Per fortuna Rutelli ha perso le elezioni, così una settimana dopo il nuovo Sindaco Gianni Alemanno arriva nel campo per dire “Voi resterete qui!”, in realtà non si capiva se qui in Italia, a Roma, o proprio lì nel campo, ma intanto era un segno importante che riconosceva finalmente la loro presenza. A quel punto i rappresentanti del campo ci chiedono di costruire il prototipo: “Il Sindaco è venuto e ci ha detto che rimaniamo, dobbiamo fargli capire che siamo capaci di trasformare il campo in un quartiere. Il Sindaco aspetta una proposta entro una settimana, voi siete in grado di fare un progetto?”.

D: Quindi se capisco bene il progetto nasce su incarico diretto dei Rom a Stalker, sono stati loro i veri “nuovi committenti”. A quel punto come vi siete mossi?

R: Come hai capito il quadro istituzionale era già poco chiaro e il terreno molto scivoloso, ma insieme all’Università, che fino a quel momento ci aveva sostenuto, abbiamo deciso tutti di andare avanti. Come prima cosa abbiamo cercato il coinvolgimento di tutte le altre realtà che lavoravano con il campo , poi abbiamo chiarito che non potevamo fare un vero e proprio progetto preliminare in una settimana, ma abbiamo scritto un testo di linee guida al progetto, lo abbiamo discusso con loro e quando ancora non era definitivo i Rom lo hanno consegnato al Sindaco. Su quel progetto non abbiamo mai avuto delle risposte ufficiali, siamo rimasti in una sorta di limbo in cui tutti sapevano, ma nessuno ci dava un mandato per operare in regola. Quel testo ricalcava le procedure che avevamo imparato a Belgrado da UN – Habitat : valorizzare ciò che esiste e si può implementare, portare le infrastrutture di base come strade acqua luce e fogne, demolire le baracche più fatiscenti e sostituirle con nuove case. Ma soprattutto ci interessava far capire al Sindaco che era un occasione da non perdere, c’erano i presupposti per un processo collettivo, c’erano le nostre competenze professionali e soprattutto che andavano valorizzate le competenze artigianali dei Rom, la loro abilità tecnica e la conoscenza di tecnologie a basso costo. In quel testo compare anche l’idea di “casa di tutti” : una soluzione più economica del container, una possibile alternativa all’emergenza abitativa di tutti, non solo dei Rom. Si poteva cominciare da lì.

Quando abbiamo presentato l’idea il Prefetto Mosca, che era stato appena insediato come Commissario straordinario all’emergenza nomadi, si era detto molto interessato: “Di solito mi portano problemi da risolvere e non soluzioni da sperimentare, vi osserverò con molta attenzione” . Il Prefetto Mosca è stata l’unica persona di grande respiro che abbiamo incontrato in tutta questa vicenda, aveva veramente intenzione di affrontare una volta per tutte la questione Rom, e aveva cominciato a farlo in modo molto intelligente: organizzando una serie di incontri per ascoltare direttamente i Rom senza intermediari. Purtroppo è durato solo pochi mesi: il Ministro Maroni lo ha destituito perché si è rifiutato di prendere le impronte digitali ai minori. Un fatto gravissimo. Comunque per tornare al progetto e al quadro istituzionale, devo dire che io forse sono stato ingenuo a pensare che il progetto sarebbe potuto andare in porto nel clima di intolleranza che si respirava, ma mi sembrava davvero che ci fossero le condizioni perché si potesse aprire una breccia: il Sindaco e il Prefetto ci osservavano con interesse, il VII municipio ci aveva dato il patrocinio e l’Università intendeva sostenerci economicamente e andare avanti fino in fondo. Veramente non pensavo che sarebbe finita come è andata a finire.





(seguono frammenti di interviste, da qui in poi è ancora tutto da rieditare)









INTERVISTA A FRANCESCO CARERI per terzocchio



D: In cosa consiste il progetto “Savorengo Ker- la casa di tutti”?

R: Nel dare ai Rom un’occasione per esprimere il loro desiderio di abitare, e nel realizzare quel desiderio insieme ai Rom in una straordinaria avventura interculturale. Nella sperimentazione di un processo creativo relazionale per affrontare il problema abitativo dei rom e di tutti. È una casa sperimentale che i Rom del Casilino 900, Stalker e il Dipartimeno di Studi Urbani e gli studenti di Roma Tre, hanno realizzato dentro al campo nel luglio del 2008. Oggi non esiste più, è stata bruciata a dicembre, dopo un lungo contenzioso con il VII Municipio di Roma che inizialmente ha patrocinato il progetto e quando ne ha capito la portata ne ha ostruito il processo, bloccando i lavori il giorno della sua inaugurazione, senza darci mai la possibilità di utilizzarla. Savorengo Ker poteva diventare un punto di incontro tra il campo e il quartiere, aiutare il campo a non essere più un campo. Era in una posizione ideale, una porta di accesso sul bordo, e sarebbe potuta diventare veramente un inedito luogo di emancipazione culturale. Poteva diventare un centro sanitario, il doposcuola dei bambini, un ristorante balcanico, la sede della cooperativa edilizia che avrebbe recuperato il campo, avevamo sognato tante cose. Da questo punto di vista se non ci avessero tolto l’energia avremmo potuto continuare a dimostrare che un altro modo non solo è possibile, ma che può essere anche bello, per tutti. Noi abbiamo avuto la fortuna di viverlo durante la costruzione della casa. In quella circostanza si è realizzato sicuramente uno dei momenti più alti di condivisione tra le nostre culture, un momento di apprendimento per gli studenti e per i rom, di conoscenza reciproca, di convivialità e partecipazione.

D: Ma quella casa poteva veramente essere una soluzione per il problema abitativo dei Rom?

Se si supera la logica del campo si, se invece si vogliono fare ancora campi no. Neanche se fatti con tante Savorengo Ker al posto dei container, questo lo abbiamo sempre rifiutato. In ogni caso non è “la” risposta, ma una tra tante risposte che bisognerebbe fare emergere insieme ai Rom. Dal punto di vista economico-normativo, il nostro metro di paragone sono stati i parametri dei container: fare una casa che costasse quanto un container ma che avesse prestazioni e dimensioni di una vera casa, rispettando le normative edilizie e di risparmio energetico. Savorengo è costata 8.000 euro ed è di 72 mq, un container è di 32 mq e costa 22.000; ma soprattutto è un punto di partenza verso la cittadinanza, ha l’abitabilità e un numero civico, è un primo passo, “una baracca con i documenti”, come l’avevano chiamata i Rom. Il loro problema principale non è infatti la casa ma sono i documenti: anche quando hanno l’atto di nascita in Italia, pagelle, tesserino sanitario, bollette di decenni, anni di residenza, sono tenuti costantemente in sospeso, in un stato di invisibilità, senza documenti, vengono schedati, identificati etnicamente e vivono ogni giorno la minaccia di essere espulsi in fantomatiche nazioni di provenienza, dove non saprebbero neanche più parlare la lingua.

D: Eppure le etnie nomadi non sono disposte a mettere radici.

Credo che il vero motivo per cui la casa è stata bruciata è proprio questo: il fatto che fosse una “casa”. Savorengo Ker ha un forte portato simbolico, dice che i Rom vogliono abitare in una casa, non in una roulotte né tanto meno in un container, che non vogliono i campi nomadi perché non sono “nomadi” come si vuole far credere, ma vogliono mettere radici tra noi, abitare insieme a noi nel rispetto reciproco. È questo che risulta inaccettabile. Il Rom che viene ad abitare vicino a te in una casa e non in una baracca, fa paura. Vederli costruire una casa sotto le nostre case fa scattare odi culturali, ancestrali, direi biblici, che vengono alimentate dai media e dai politici. Che questo sia il vero problema lo hanno capito i Rom, lo hanno capito l’Università e le tante associazioni e i cittadini che ci hanno sostenuto, lo aveva capito anche il Prefetto Mosca, che per questo è stato sostituito, e non lo hanno capito né i media né i politici, né di destra né di sinistra.

D: Se non in un campo, dove immaginavate “Savorengo Ker”?

La prospettiva che ci siamo dati è quella di trasformare “Casilino” da campo a quartiere. Savorengo nasceva all’interno di un progetto di autorecupero del campo, era la dimostrazione che noi e i rom insieme lo avremmo saputo fare. Non immaginavamo il campo pieno di cloni di savorengo, ma un pezzo di città con case tutte diverse, nate dalle relazioni con gli abitanti, una nuova babilonia di desideri abitativi, abbiamo visto città rom nei balcani, che sono assolutamente fantastiche. Sono convinto che un pezzo di quelle città a Roma sarebbe una grande ricchezza per la città, la gente ci andrebbe come a chinatown. Il casilino 900, come altri campi spontanei, si potrebbe affrontare come è stato fatto per le borgate abusive degli anni sessanta, che sono oggi forse uno dei pezzi migliori di città del dopoguerra. Si potrebbe legalizzare la situazione di fatto, dotarla di infrastrutture e fogne, sostituire via via le baracche più fatiscenti con le case, aprire dei negozi, aumentare la densità costruendo case per italiani, stranieri, studenti, giovani, insomma fare entrare la città e fare uscire i Rom dal ghetto. Perché un campo non sia più un campo basta che tutti ci entrino.

Come si è evoluta la situazione? Il vostro progetto ha modificato qualcosa?

Ha sdoganato l’idea che i Rom sanno lavorare e sanno costruire. Il Comune intende realizzare, fuori dal Raccordo Anulare, un “villaggio” con abitazioni di emergenza, con container non più in lamiera ma in pannelli di cemento, che verrebbero montati dai Rom.. Anche Auschwitz è stato costruito dagli ebrei e dai Rom, ma quella non è autocostruzione, né partecipazione, è utilizzo dei Rom come forza lavoro a basso costo. Il campo sarebbe sorvegliato 24 ore da telecamere a circuito chiuso, recintato e sorvegliato e con un ferreo regolamento interno, tesserini di riconoscimento e non accessibile da estranei: un campo.

Noi crediamo che l’unica via di uscita questa situazione che, è bene ricordarlo, esiste solo in Italia, sia quella di abolire i campi, chiuderli così come coraggiosamente sono stati chiusi i manicomi con la legge Basaglia. Bisogna intanto riconoscere che i campi sono invivibili e intollerabili per i diritti dell’uomo e che vanno chiusi, poi le soluzioni si troveranno. Alcuni Rom, attraverso percorsi individuali e di gruppi familiari allargati, hanno già sperimentato strade percorribili. Bisogna guardare oltre i campi nomadi, altrimenti non si vede niente, nessun futuro.



D: Cosa avete imparato e cosa vi piacerebbe realizzare dopo “Savorengo Ker”?

Ci piacerebbe realizzare un agglomerato più grande, dieci quindici case in autocostruzione, e non solo con i Rom, con chiunque volesse sperimentare un nuovo modo di abitare e ha fiducia in un mondo migliore. Abbiamo capito che l’integrazione si produce in cantiere, costruendo insieme la propria casa, mangiando insieme. Che le buone relazioni di vicinato, di pianerottolo, di condominio e di quartiere, si possono costruire attraverso una relazione di lavoro gomito a gomito, passandosi il martello.







Intervista a Francesco Careri

di Lisa Parola



D: Un modello per l’emergenza abitativa dei Rom; Savorengo Ker / la casa di tutti ha segnato profondamente la vostra attività di questi ultimi anni. Ci racconti questa esperienza?



È quasi un paradosso: Stalker che ha sempre voluto essere “nomade” e che non ha lasciato dietro di sé tracce architettoniche a un certo punto si trova a costruire una casa su richiesta dei “nomadi”. Questo è sicuramente il sintomo di un cambiamento in corso, ma è anche vero che c’è una grande confusione sul concetto di “nomade”, ma su questo torniamoci dopo.

Savorengo Ker nasce dopo un lento processo di avvicinamento di Stalker all’universo Rom durato diversi anni, cominciato nel 1999 con i primi lavori insieme ai Rom Calderasha del Campo Boario . Più recentemente, durante un’azione di esplorazione del Tevere , ci siamo resi conto che le comunità rom abitavano in molti modi diversi: abbiamo trovato molti insediamenti di fortuna con baracche di cartone assolutamente invivibili, ma in alti casi abbiamo visto che i Rom erano ottimi autocostruttori, in particolare nei campi spontanei, i cosiddetti campi “autorizzati”, molto diversi da quelli “attrezzati” con container, è qui, dove i Rom hanno potuto esprimere il loro desiderio di casa, che abbiamo trovato case con fogne, bagni, giardini e spazi confortevoli. In uno di questi, il campo di via del Foro Italico ci siamo fermati per un anno.


D: Prima di dirci come è andata a finire, ci racconti come è stata l’esperienza della costruzione? Come giudichi i risultati?



Si forse mi sono dilungato sulle premesse, ma è importante capire il contesto politico in cui si è svolto il tutto. In realtà la cosa più importante è stata proprio l’esperienza della sua costruzione, lì si è realizzato sicuramente uno dei momenti più alti di condivisione tra le nostre culture, un momento di convivialità e partecipazione, di vero apprendimento reciproco per noi, gli studenti e i Rom. Era la prima volta che si proponeva ai Rom di esprimere il loro desiderio di abitare, lentamente i reciproci pregiudizi si sono sciolti e alla fine tutti avevano chiari gli stessi obiettivi e si sono impegnati nel realizzare quel desiderio insieme, insomma è stata prima di tutto una straordinaria avventura interculturale. Una scuola di apprendimento reciproco. È stato un mese di utopia collettiva vissuta e abitata profondamente da tutti, si respirava una grande energia.

Direi che la cosa più importante che abbiamo imparato, è che lo spazio dell’integrazione si produce attraverso un atto di creazione collettiva, in cantiere, costruendo insieme la propria casa, mangiando la sera di fronte al fuoco, ragionando insieme su cosa costruire il giorno successivo. Abbiamo sperimentato che le buone relazioni di vicinato, di pianerottolo, di condominio e di quartiere, si possono costruire attraverso una relazione di lavoro gomito a gomito, passandosi il martello.

Per quanto riguarda il risultato della sperimentazione direi che il progetto ha centrato diversi obiettivi. Dal punto di vista economico-normativo, il nostro metro di paragone erano i container: fare una casa che costasse quanto un container ma che avesse prestazioni e dimensioni di una vera casa, rispettando le normative edilizie e di risparmio energetico. Savorengo Ker non era finita, mancavano ancora le finiture interne, i servizi e i sistemi energetici, ma la struttura è costata 8.000 euro ed era di 72 mq, mentre un container è di 32 mq e ne costa 22.000; ma soprattutto è un punto di partenza verso la cittadinanz: il container non essendo una casa non ha l’abitabilità e un numero civico, mentre Savorengo è un primo passo verso l’identità e la cittadinanza, è “una baracca con i documenti”, come la chiamavano i Rom.

Un risultato positivo si era avuto anche dal punto di vista più prettamente sociale e politico. Quella casa era riuscita a catalizzare tutte le forze positive del campo e a tenere insieme le quattro provenienze diverse del campo che hanno realizzato per la prima volta un lavoro comune. I direttori dei lavori hanno cominciato a svolgere durante e dopo la costruzione della casa anche il ruolo ufficiale di rappresentanti del campo. Certo non rappresentavano tutti, ma dietro di loro c’era più dell’ottanta per cento del campo che chiedeva case e non container. Sono loro che in seguito hanno incontrato il Prefetto e il Sindaco e che per definire i termini dello spostamento. Con l’incendio poi è cambiato tutto, quella unità di intenti a si è rotta e oggi stiamo ancora cercando di rimettere insieme i pezzi.



D: Ma quella casa poteva veramente essere una soluzione per il problema abitativo dei Rom?



Il problema prima che abitativo è politico, direi razziale. Se si supera la logica del campo quella casa può essere un modello, se invece si vogliono fare ancora campi sicuramente no. Il modello infatti non è quella casa in sé, ma il processo con cui è stata costruita. I campi non potranno essere mai una soluzione, neanche se fatti con tante Savorengo Ker al posto dei container, questo lo abbiamo sempre detto. A un certo punto ci hanno contattato da Latina; ci proponevano di realizzare un campo con il nostro modello di casa. Ne abbiamo discusso e abbiamo deciso di rifiutare: Savorengo Ker era un simbolo che intendeva trasformare l’idea stessa di campo, immaginavamo il Casilino diventare un quartiere. Quella casa non è “la” risposta, ma una tra tante risposte che bisognerebbe fare emergere insieme ai Rom in un processo di ascolto e trasformazione reciproca. La immaginavamo come il primo tassello del progetto di autorecupero del campo verso un quartiere misto e interculturale. Non immaginavamo il campo pieno di cloni di Savorengo Ker, ma case tutte diverse nate dalle relazioni con gli abitanti, una Nuova Babilonia di desideri abitativi, come le città dei Balcani. Io sono convinto che un quartiere così sarebbe una grande ricchezza per la città di Roma, potrebbe addirittura diventare una meta turistica come Chinatown. E non credo che si trattasse di utopia, il Casilino 900, come altri campi spontanei, si potrebbe affrontare come è stato fatto per le borgate abusive degli anni sessanta, che sono oggi forse uno dei pezzi migliori di città del dopoguerra.



D: Poi c’è stato l’incendio. Come è stato possibile? Dove vedi delle responsabilità?

La notte del 10 dicembre la casa è bruciata, ufficialmente colpita da un fulmine, c’era una vera tempesta e il Tevere che rischiava di straripare, mai vista tanta acqua! Ancora mi chiedo quante taniche di benzina ci sono volute. È stato un lutto, un vero lutto per tutti! Il fuoco. Prima, durante e dopo il cantiere, il fuoco ci è stato promesso da tutti. Era talmente nell’aria che persino noi, quando discutevamo ci trovavamo a dire “e allora io gli do fuoco!”, quasi per bestemmiare. Forse era scritto che dovesse finire così. Sulle responsabilità ci sono molte ipotesi sia interne che esterne al campo. All’interno del campo la casa aveva prodotto dei malumori, aveva attirato l’attenzione e anche una maggiore sorveglianza da parte delle forze dell’ordine. All’esterno i nemici sono sempre stati tanti, e di recente un amico ha sentito due loschi individui in un bar che si attribuivano il gesto in nome di una vendetta per un furto subito. Ma non mi interessa sapere chi è l’autore materiale. Alla base direi che il clima era cambiato a partire dal giorno dell’inaugurazione. Il Prefetto e il Sindaco non sono venuti perchè braccati dai cosiddetti “comitati di cittadini”, mentre il Presidente del Settimo Municipio, dei comunisti italiani, all’inizio ha patrocinato il progetto, poi ha avuto paura dell’opinione pubblica e ha cominciato a metterci i bastoni tra le ruote. Ci ha sigillato il cantiere dicendo che mancavano documenti che prima non ci aveva richiesto, poi una volta prodotti tutti i documenti, non ci dava l’autorizzazione ad utilizzarla: insomma è rimasta incompiuta e chiusa per tre mesi. Probabilmente anche noi come Stalker abbiamo delle responsabilità: forse avremmo dovuto agire illegalmente, occupare la casa, interrompere il rapporto con l’Università, e continuare a portare avanti il progetto da soli con i Rom, in quel limbo ambiguo che ci era permesso. Continuo a domandarmelo.



D: Che problematiche sollevava il quartiere? E in che modo secondo te è stata un’azione di arte pubblica, o di arte civica, come la chiami tu?



La costruzione della casa è stata dirompente come azione simbolica. Sono convinto che era il simbolo stesso a spaventare: la “casa”, l’archetipo della stanzialità che per un atavico pregiudizio è “nostro” e non può essere esteso ai Rom. È lì che capisci che è stata un’azione di “arte civica” nel senso di artistica, architettonica e politica, una idea alternativa di concepire la civitas e di immaginare la città. All’opinione pubblica non interessava sapere come era fatta, quanto era grande, quanto costava, che era ecologica ecc, gli bastava sapere che era stata fatta. E anche il suo aspetto architettonico dava fastidio, non è stato disegnato e poi realizzato ma è emerso spontaneamente nel cantiere fino ad assumere quelle forme da “chalet” balcanico, troppo lusso per i Rom.

La casa è bruciata è proprio il suo portato simbolico. Insieme ai Rom abbiamo costruito un oggetto artistico capace di comunicare che i Rom vogliono abitare in una casa vera, non in una roulotte né tanto meno in un container, che non vogliono i campi nomadi perché non sono “nomadi” come si vuole far credere, che vogliono mettere radici tra noi, abitare insieme a noi nel rispetto reciproco, addirittura dandosi una propria veste. È questo che è risultato inaccettabile. Il Rom che viene ad abitare vicino a te in una casa, fa ancora più paura di quello che vive in una baracca. Vederli costruire una casa sotto le nostre case fa scattare odi culturali, ancestrali, biblici. Che il vero problema Rom sia questo lo hanno capito l’Università e le tante associazioni e i cittadini che ci hanno sostenuto, lo aveva capito anche il Prefetto Mosca, ma non lo hanno capito né i media né i politici, né di destra né di sinistra. Quello che mi consola è che di Savorengo Ker si è parlato in tutti i campi di Roma, che i Rom sono venuti a vederla, hanno visto che il Casilino 900 alzava la testa e in molti hanno creduto che il riscatto fosse possibile e grazie a quella casa ci credono ancora, perché come dicono i direttori dei lavori “noi quella casa l’abbiamo proprio fatta”.



D: Secondo te oggi il vostro progetto ha modificato qualcosa? Come si è evoluta la situazione?



Ha sdoganato almeno l’idea che i Rom sanno lavorare e sanno costruire. Adesso sembra che il Comune intende realizzare fuori dal Raccordo Anulare, un “villaggio” con abitazioni di emergenza, con moduli abitativi non più in lamiera ma in pannelli di cemento, che verrebbero montati dai Rom. Anche il campo di Auschwitz è stato costruito dagli Ebrei e dai Rom, ma quella non è autocostruzione, né progettazione partecipata, è utilizzo dei Rom come forza lavoro a basso costo. Il campo sarebbe sorvegliato 24 ore da telecamere a circuito chiuso, recintato e sorvegliato e con un ferreo regolamento interno, tesserini di riconoscimento e non accessibile da estranei: un campo insomma. Noi crediamo che l’unica via di uscita a questa situazione che, è bene ricordarlo, esiste solo in Italia, sia quella di abolire i campi, chiuderli così come coraggiosamente sono stati chiusi i manicomi con la legge Basaglia. Bisogna intanto riconoscere che i campi sono invivibili e intollerabili per i diritti dell’uomo e che vanno superati, poi le soluzioni si troveranno. Bisogna guardare oltre i campi nomadi, altrimenti non si vede niente, nessun futuro.



D: Torniamo all’inizio della tua ricerca: in Walkscapes. Camminare come pratica estetica, pubblicato da Einaudi nel 2006, ripercorri le teorie di numerose avanguardie. Passi dal nomadismo primitivo al Dadaismo e al Surrealismo, dal Lettrismo all'Internazionale Situazionista, fino alla Land Art. Nelle tue pratiche di esplorazione dei luoghi, in relazione a un disegno urbano sempre più segnato dalle pieghe e dai margini, quali aspetti senti ancora attuali, ancora in grado di raccontare e progettare la complessità di questo scenario urbano che esce dai codici delle discipline tradizionalmente legate al contesto della città?



Il libro è il risultato di tre anni di ricerca, svolta dal 1996 al 1999. È la mia tesi di Dottorato, con la quale ho avuto la possibilità di ragionare su cosa aveva fatto Stalker/Osservatorio Nomade nella sua prima fase errabonda, prima di fermarci per tre anni al Campo Boario. Questo mi ha portato a scrivere una storia del camminare e del rapporto tra nomadismo e architettura, a scrivere che sono stati i nomadi e non i sedentari a mettere in piedi il primo menhir, il primo oggetto architettonico. Per quanto riguarda le esperienze degli artisti direi che mi rimangono ancora due direzioni di riferimento: un modo di leggere il territorio che è ancora debitore della Land Art e soprattutto delle odissee suburbane nei paesaggi entropici di Robert Smithson, su cui ora non mi dilungherei, e dall’altra parte le teorie situazioniste sulla città e il tentativo di Constant di immaginare la realizzazione di una città nomade attraverso l’Urbanismo Unitario, un progetto forse portato avanti in modo erroneo e che è rimasto incompiuto ma che secondo me ha ancora un grande potenziale oggi che la cultura artistica ha fatto grandi passi avanti grazie all’arte pubblica e alle esperienze di partecipazione.



D: Perché lo definisci erroneo?



Ho provato a scriverlo in un articolo su Domus in occasione della morte di Constant nel 2005 e non ne faccio una colpa a lui in particolare . Nell’articolo immagino di tornare nel 1956 ai tempi del congresso di Alba, nel momento della nascita dell’Internazionale Situazionista . La visita al campo dei Sinti di Alba era stato il primo passo di New Babylon, lì Constant ha cominciato ad immaginare la città nomade attraverso i plastici e le descrizioni della nuova società che la avrebbe abitata. Se invece i situazionisti avessero cercato di mettere in campo le loro migliori forze per realizzare un vero processo di trasformazione creativa della realtà insieme ai Sinti, forse le cose sarebbero andate diversamente. Se oltre all’immaginario di Constant ci fosse stata la volontà di lavorare veramente nel campo nomade di Alba, con l’intelligenza di Guy Debord, le capacità relazionali di Asger Jorn, la capacità di tradurre tutto questo in un progetto istituzionale di Pinot Gallizio, l’Urbanismo Unitario, inteso come unione interdisciplinare di tutte le creatività a disposizione per costruire una nuova città, non si sarebbe fermato ai plastici di New Babylon, e alle disquisizioni ideologiche, ma avrebbe avuto un vero terreno su cui sperimentarsi. Cinquanta anni dopo credo che le nostre esperienze prima al Campo Boario e adesso al Casilino 900 siano dei passi avanti in quella direzione.



D: Fin dal titolo del libro hai voluto sottolineare il carattere estetico di questa pratica. Puoi darci una definizione di questo termine in merito alle pratiche di Stalker e Osservatorio Nomade? Come un processo, un procedere diviene forma estetica?



Nel film Tarkovskij lo Stalker accompagna due forme di conoscenza della natura mutante in cui si svolge il film, quella scientifica e quella estetica. Credo che la pratica estetica prima di essere una forma di rappresentazione sia un forma di conoscenza della realtà come quella scientifica, mette in atto dei processi e li sperimenta creativamente, poi gli scienziati producono dati, mentre gli artisti di solito opere, ed è ormai accettato che le opere possono essere quegli stessi processi, senza la produzione di oggetti. Il camminare così come il mettersi in campo con i Rom sono forme di conoscenza estetica che operano interagendo con il territorio e con i suoi abitanti. la pratica artistica agisce in modo più libero di quella scientifica, non cerca dati, ma trova cose inedite da raccontare. Se si è interessati alla lettura dei fenomeni urbani, il camminare ti permette di inciampare e incontrare realtà che se tu agissi solo come professionista non riusciresti mai a vedere. Facciamo un esempio: in un processo di progettazione partecipata se ascolti solo le associazioni, le realtà del territorio, non riesci a far fronte a tutto il ventaglio di problemi che il territorio solleva. Se invece ci vai camminando, scavalcando, attraversando, riesci a individuare problemi che magari lo stesso territorio non ha neanche ancora sollevato come questione rilevante. Con la pratica ti metti in una condizione nella quale far emergere altre questioni. Ti metti tu nella condizione di scoprire, verifichi tu, e magari riesci a riportare la tua visione mettendoti in gioco creativamente su un altro piano.



D: Una pratica per mettere in atto uno sguardo critico sul territorio… Il titolo del tuo corso all’Università Roma 3 è Arte civica?



Al plurale: Arti civiche. È un corso opzionale basato sul camminare a cui partecipano di solito studenti di Architettura, di Storia dell’Arte, di Antropologia, ma anche singoli cittadini, artisti di passaggio, insomma una carovana ogni anno composta da persone diverse perché sono convinto che l’Università debba avere un carattere pubblico, che le lezioni debbano essere aperte e che è importante che si svolgano nello spazio pubblico. Che le trasformazioni della città si apprendono esperendole direttamente. L’idea è che la città, come diceva Constant, non appartiene solo agli architetti e ai pianificatori, ma appartiene a tutti e tutti hanno il diritto di raccontarla, di immaginarla e di costruirla. Sul versante didattico, è un viaggio iniziatico, come lo è stato per noi all’inizio, un’esperienza che ti permette di toccare con mano, di connettere un punto a un altro, un modo di scrivere in un unico racconto la complessità ma soprattutto l’attualità di quello che stai attraversando.



D: Hai sollevato una questione importante: lo studente che si iscrive ad Architettura dovrebbe essere consapevole che progetterà per e nella sfera pubblica, che le sue forme saranno collocate in uno spazio complesso. Eppure ci pare che l’architettura come disciplina in questi ultimi anni abbia riflettuto poco sulle problematiche urbane, realizzando il più delle volte delle grandi architetture che poco, a volte mai, si sono misurate con il tessuto e la cornice che le accoglieva. L’arte, a partire da posizioni distanti, si è però trovata a riflettere molto su questi temi.



Purtroppo è molto vero, soprattutto se penso a Rem Koolhaas, “l’uomo da abbattere” diceva Constant perchè gli ha rubato le idee, le forme e le ha messe al servizio del neoliberismo, “disegnando una maschera ludica al capitalismo trionfante”, sono più o meno così le parole di Constant. Comunque è certo che negli ultimi dieci anni le architetture vengono costruite per essere messe sulle copertine delle riviste o per far da sfondo alle pubblicità di macchine, poi quando vai a vederle ti accorgi che sono un vero bluff, ma non sono tutte così, riconosco che alcune architetture dello star system sono importanti e alcune anche belle: per esempio credo che il museo di Frank Gehry a Bilbao è meraviglioso, che le terme di Peter Zumtor a Vals sono un fantastica esperienza per il corpo nello spazio liquido, ma il problema di queste architetture è che oltre all’estetica gli manca un contenuto, una spinta etica, una volontà di cambiare il mondo. Sono puro spettacolo. In realtà credo che una città non è bella solo se ha belle strade e bei monumenti, ma se vi è democrazia libertà e giustizia per tutti i suoi cittadini e questo mi sembra non lo abbiano dimenticato solo gli architetti ma soprattutto i politici e anche i cittadini.



D: Per Davis, un altro “uomo da abbattere” era proprio Frank Gehry … ne Il pianeta degli slum fa un quadro drammatico, definendo la popolazione di queste protesi di città un “proletariato urbano informale”, i numeri sono inquietanti. Lui parla degli Stati Uniti, tu credi che la forma urbana europea garantisca ancora una rete tra chi sta dentro e chi sta fuori?



Fino a pochi anni fa non si vedeva più una baracca a Roma, erano rimasti solo i campi rom storici. Con Petroselli il fenomeno dei baraccati era finito, la risposta erano state le case popolari, la città pubblica della pianificazione, i casermoni insomma. Adesso è diverso inciampi ovunque in costruzioni di cartone, bivacchi, baracche, ma credo che la risposta non dovrebbero essere altri casermoni. E credo che la risposta vada trovata tra plans e slums, tra progetto e informalità, in qualche modo indirizzando fin dove si può l’autoorganizzazione e l’autocostruzione.

Gli slum di Davis sono anche qui in Europa, è vero, è un fenomeno ancora all’inizio ed è legato a una crisi globale. È una questione molto più vasta di quella che vogliono farci credere, e non è limitata ai Rom. Nell’esplorazione del Tevere abbiamo incontrato anche molti italiani, magari impiegati pubblici che per un semplice divorzio si sono trovati a lasciare casa e mantenere la famiglia, e sono andati a dormire prima in macchina, poi sotto un ponte e poi in baracca. Il fenomeno riguarda grandi strati della popolazione ormai impoverita, che non riesce a pagare i mutui, che non ha il reddito sufficiente per vivere nelle città e viene espulsa nei sobborghi.

Conosco un poco la situazione latinoamericana e mi sembra dovremmo imparare molto dalle loro esperienze, lì è da decenni che si fanno i conti con la città informale. In Italia invece si tenta di eliminare il problema alla radice e la soluzione che stanno proponendo è quella dei “villaggi della solidarietà” per i Rom, dei veri e propri campi di concentramento. Quello che mi chiedo, è se non saranno l’unica soluzione anche per gli altri, per tutti gli altri che si troveranno in emergenza abitativa che saranno prima criminalizzati e poi reclusi. Finché sono solo i Rom la questione preoccupa poco, ma se continua così nei campi finiranno anche gli italiani che non pagano il mutuo e forse presto saremo tutti Rom.





Sul Laboratorio di Progettazione Urbana al Casilino 900

(scritto in occasione del numero di Roma Time "casilino 900")
D: Com’è andato il Laboratorio di Progettazione sul Casilino 900?

Gli studenti sono stati messi di fronte a un problema molto complesso, quello della emergenza abitativa, affrontandolo dal suo gradino più basso, quello dei campi rom. Un tema difficilissimo, in cui le nozioni architettoniche e urbanistiche fin qui assorbite, debbono per forza di cose dotarsi di nuovi strumenti, aprirsi all’interdisciplinarietà e a una sete di conoscenza sentita in prima persona. È un esame obbligatorio e non opzionale, dunque non viene scelto ma ci si trova dentro con una conoscenza del fenomeno solamente mediatica, e questo complica le cose, perché è un esame che arriva a persone con diversi stadi di consapevolezza. Dunque il primo passo è stato aiutarli a rendersi disponibili a modificare sé stessi, il proprio sguardo e le proprie opinioni, e cominciare a basarsi sull’esperienza diretta, sulle risposte che i Rom davano alle loro domande. Per il primo mese siamo stati sempre al campo, è stata una fase antropologica, gli studenti si sono trasformati in etnografi dilettanti, cercando di ricostruire delle mappe familiari territorializzate: capire come si erano disposte le diverse famiglie allargate, i gradi di parentela, le relazioni di vicinato, la composizione di ogni singola famiglia, gli spazi comuni, il ruolo “aperto” delle case dei nonni, gli usi degli spazi vuoti, le pratiche abitative. Per molti questa prima fase è sembrata troppo lunga, una “perdita di tempo”. Io sono convinto che se si vuole conoscere si deve “perdere del tempo”, che non si può pensare di studiare solo sui libri un fenomeno tanto complesso, ma che l’esperienza dell’altro può avere luogo solo se ci sbarazziamo del concetto di “tempo utile” e ci guadagniamo un tempo “libero” o “ludicoricreativo”, per metterci in gioco e mettere in gioco gli altri. Più si perde tempo, più si guadagna spazio. Lo so, è un concetto difficile da mettere in pratica.

D: Ma poi a un certo punto gli studenti dovevano anche cominciare i progetti. Da che presupposti siete partiti?

Abbiamo affinato il tipo di risposte seguendo l’evolversi della situazione politica. In quel momento il Casilino 900 era ogni giorno su tutti i giornali, c’erano dichiarazioni del sindaco, prese di posizione di politici, visite della commissione europea, riunioni a porte chiuse tra i Rom e il Sindaco. I Rom hanno scritto una serie di lettere al sindaco dove in sostanza chiedevano la riattivazione dei loro mercatini e delle utenze di luce e acqua, tagliate oramai da un anno, per attivare un percorso di collaborazione e trovare insieme una via di uscita dal campo. Le ipotesi erano tre: autorecupero del campo lì dov’è, spostamento del campo all’interno del VII Municipio, mantenendo le relazioni con il territorio; costruzione di nuovi campi fuori dal Raccordo Anulare, ipotesi che i Rom avrebbero accettato ma che non rappresentava una loro proposta, bensì una imposizione. All’interno del corso l’ultima ipotesi non è stata presa neanche in considerazione, mentre gli studenti si sono divisi in gruppi lavorando sulle prime due ipotesi. Chi ha proposto il recupero del campo ha lavorato riducendo l’area attualmente occupata per far spazio ai lavori della metro e per dare un accessibilità al parco di Centocelle anche venendo dalla via Palmiro Togliatti, cercando di mantenere sempre saldi i legami familiari dell’attuale stato in uno nuovo, partendo dalla infrastrutturazione con strade asfaltate, fogne, luce e acqua, la sostituzione immediata delle baracche più fatiscenti, arrivando fino ad una quasi totale riconfigurazione. In alcuni casi è stata ipotizzata, dopo averlo concordato con i rom, l’inserimento di nuove case anche per abitanti non rom, come studenti, giovani coppie, artigiani e artisti, per cominciare a smontare l’idea stessa di campo. Gli altri, quelli che lavoravano su uno spostamento del campo all’interno del municipio, soon andati a cercare degli spazi attualmente vuoti, interstizi, zone di proprietà pubblica ma non edificate e hanno progettato da zero dei nuovi insediamenti misti con alloggi estendibili, da attuare in autocostruzione multiculturale. Era una loro scelta anche proporre in che percentuale mescolare rom e gagè, e devo dire che seppure con una totale astrazione, e come proposte assolutamente didattiche e non concertate con le amministrazioni e con chi dovrebbe decidere, questi progetti danno comunque da pensare.

D: Proprio a questo pensavo, come si è riusciti a fare dei progetti senza alimentare nei rom delle speranze e negli abitanti paure (pensando a Savorengo Ker…), o più semplicemente, come siete riusciti a fare dei progetti, soprattutto se penso all’esperienza diciamo “anti-progettuale” di stalker, alla sua impostazione processuale e non deterministica?



Non alimentare false speranze, su questo c’è stata una grande chiarezza fin da principio. Sia il gruppo di persone del campo che avevano partecipato a Savorengo che gli studenti erano assolutamente avvertiti, e il fatto che era una esercitazione accademica è sempre stato detto come premessa ad ogni discorso. Per quanto riguarda le paure negli abitanti invece, non c’è stato il minimo rischio, perché non abbiamo lavorato in una dimensione pubblica, in collaborazione con il municipio o presentando i progetti al quartiere, quindi questi progetti non sono mai stati visti da nessuno e li presentiamo per la prima volta solo qui su “Roma Time”, come fatto marginale all’interno di tutta la ricerca. Il problema con “il progetto” è sempre quello che arriva a dare una risposta necessariamente semplificata, che poi può essere manipolata da media e potere, verrebbe subito considerata “la risposta”, mentre credo che prima di arrivare a questo bisogna fare ben altri passaggi, culturali, politici, insomma che prima si dovrebbero creare le condizioni reali e non mediatiche perché un vero progetto di emancipazione e autorganizzazione abitativa per Rom e gagè possa avere luogo. I media, i politici, ma direi anche le istituzioni culturali, non aspettano altro che delle ricette corredate da immagini da buttare nell’agone per alimentare polemiche, produrre prese di posizione, consumare nel giro di un botta e risposta temi che necessiterebbero ben altri livelli di dibattito e soprattutto dei veri territori di sperimentazione. È un po’ quello che è successo con il consumo di Savorengo Ker, anche se quello non era un progetto tradizionale, nel senso “con pianta prospetto e sezioni”, ma il risultato di un processo relazionale, una forma progettuale che difficilmente gli studenti a questo stadio della loro formazione potrebbero essere in grado di fare. Ma allora perché proporre agli studenti questo tipo di progetti, con piante prospetti e sezioni?



Io credo che se si ha una consapevolezza dei limiti che pone una esercitazione didattica, in realtà anche il progetto sia uno strumento di conoscenza importante. Voglio dire che seppure all’interno di una modellizzazione astratta, il mettersi di fronte a problemi progettuali come quelli di fare una casa per una famiglia di dodici persone, che vuole avere delle relazioni dirette con altre famiglie e magari voltare le spalle ad altre, che ha sue modalità di crescita, e che potrebbe avere spazi e usi interfamiliari e altri luoghi semipubblici e pubblici di relazione con la città, tutto questo mette in moto l’immaginazione e allena il cervello a inventare risposte complesse. La cosa più interessante di questi progetti è che se ci si dimentica che sono nati all’interno della problematica rom e li si guarda come progetti destinati a comunità generiche, quello che viene fuori è che potrebbero funzionare benissimo per tutti, che in realtà tutti vorremo avere spazi di relazione diversificati, degli spazi per usi promiscui al piano terra ecc. insomma da una parte credo si debba sperimentare attraverso il progetto il più vasto ventaglio di soluzioni possibili, per essere pronti nel caso si avesse un vero incarico a saper proporre un idea di città che sia il più possibile lontana dall’idea di campo, e tipologie adattabili a rom, gagè e chiunque abbia intenzione di condividere il proprio abitare con estese relazioni di vicinato. Penso che se già nel progettare i campi si desse importanza a fattori come le composizioni dei gruppi familiari, le relazioni di vicinato i processi naturali di crescita delle famiglie, alla possibilità di estendere le case in autocostruzione, saremmo già un bel passo avanti.





Autodialogo su Savorengo Ker.



D: In cosa consiste il progetto “Savorengo Ker- la casa di tutti”?



Nel dare ai Rom un’occasione per esprimere il loro desiderio di abitare, e nel realizzare quel desiderio insieme ai Rom in una straordinaria avventura interculturale. Nella sperimentazione di un processo creativo relazionale per affrontare il problema abitativo dei rom e di tutti. È una casa sperimentale che i Rom del Casilino 900, Stalker e il Dipartimento di Studi Urbani e gli studenti di Roma Tre, hanno realizzato dentro al campo nel luglio del 2008. Oggi non esiste più, è stata bruciata a dicembre, dopo un lungo contenzioso con il VII Municipio di Roma che inizialmente ha patrocinato il progetto e quando ne ha capito la portata ne ha ostruito il processo, bloccando i lavori il giorno della sua inaugurazione, senza darci mai la possibilità di utilizzarla. Savorengo Ker poteva diventare un punto di incontro tra il campo e il quartiere, aiutare il campo a non essere più un campo. Era in una posizione ideale, una porta di accesso sul bordo, e sarebbe potuta diventare veramente un inedito luogo di emancipazione culturale. Poteva diventare un centro sanitario, il doposcuola dei bambini, un ristorante balcanico, la sede della cooperativa edilizia che avrebbe recuperato il campo, avevamo sognato tante cose. Da questo punto di vista se non ci avessero tolto l’energia avremmo potuto continuare a dimostrare che un altro modo non solo è possibile, ma che può essere anche bello, per tutti. Noi abbiamo avuto la fortuna di viverlo durante la costruzione della casa. In quella circostanza si è realizzato sicuramente uno dei momenti più alti di condivisione tra le nostre culture, un momento di apprendimento per gli studenti e per i rom, di conoscenza reciproca, di convivialità e partecipazione.



D: Ma quella casa poteva veramente essere una soluzione per il problema abitativo dei Rom?



Se si supera la logica del campo si, se invece si vogliono fare ancora campi no. Neanche se fatti con tante Savorengo Ker al posto dei container, questo lo abbiamo sempre rifiutato. In ogni caso non è “la” risposta, ma una tra tante risposte che bisognerebbe fare emergere insieme ai Rom. Dal punto di vista economico-normativo, il nostro metro di paragone sono stati i parametri dei container: fare una casa che costasse quanto un container ma che avesse prestazioni e dimensioni di una vera casa, rispettando le normative edilizie e di risparmio energetico. Savorengo è costata 8.000 euro ed è di 72 mq, un container è di 32 mq e costa 22.000; ma soprattutto è un punto di partenza verso la cittadinanza, ha l’abitabilità e un numero civico, è un primo passo, “una baracca con i documenti”, come l’avevano chiamata i Rom. Il loro problema principale non è infatti la casa ma sono i documenti: anche quando hanno l’atto di nascita in Italia, pagelle, tesserino sanitario, bollette di decenni, anni di residenza, sono tenuti costantemente in sospeso, in un stato di invisibilità, senza documenti, vengono schedati, identificati etnicamente e vivono ogni giorno la minaccia di essere espulsi in fantomatiche nazioni di provenienza, dove non saprebbero neanche più parlare la lingua.



D: Eppure le etnie nomadi non sono disposte a mettere radici.



Credo che il vero motivo per cui la casa è stata bruciata è proprio questo: il fatto che fosse una “casa”. Savorengo Ker ha un forte portato simbolico, dice che i Rom vogliono abitare in una casa, non in una roulotte né tanto meno in un container, che non vogliono i campi nomadi perché non sono “nomadi” come si vuole far credere, ma vogliono mettere radici tra noi, abitare insieme a noi nel rispetto reciproco. È questo che risulta inaccettabile. Il Rom che viene ad abitare vicino a te in una casa e non in una baracca, fa paura. Vederli costruire una casa sotto le nostre case fa scattare odi culturali, ancestrali, direi biblici, che vengono alimentate dai media e dai politici. Che questo sia il vero problema lo hanno capito i Rom, lo hanno capito l’Università e le tante associazioni e i cittadini che ci hanno sostenuto, lo aveva capito anche il Prefetto Mosca, che per questo è stato sostituito, e non lo hanno capito né i media né i politici, né di destra né di sinistra.



D: Se non in un campo, dove immaginavate “Savorengo Ker”?



La prospettiva che ci siamo dati è quella di trasformare “Casilino” da campo a quartiere. Savorengo nasceva all’interno di un progetto di autorecupero del campo, era la dimostrazione che noi e i rom insieme lo avremmo saputo fare. Non immaginavamo il campo pieno di cloni di savorengo, ma un pezzo di città con case tutte diverse, nate dalle relazioni con gli abitanti, una nuova babilonia di desideri abitativi, abbiamo visto città rom nei balcani, che sono assolutamente fantastiche. Sono convinto che un pezzo di quelle città a Roma sarebbe una grande ricchezza per la città, la gente ci andrebbe come a chinatown. Il casilino 900, come altri campi spontanei, si potrebbe affrontare come è stato fatto per le borgate abusive degli anni sessanta, che sono oggi forse uno dei pezzi migliori di città del dopoguerra. Si potrebbe legalizzare la situazione di fatto, dotarla di infrastrutture e fogne, sostituire via via le baracche più fatiscenti con le case, aprire dei negozi, aumentare la densità costruendo case per italiani, stranieri, studenti, giovani, insomma fare entrare la città e fare uscire i Rom dal ghetto. Perché un campo non sia più un campo basta che tutti ci entrino.



D: Come si è evoluta la situazione? Il vostro progetto ha modificato qualcosa?



Ha sdoganato l’idea che i Rom sanno lavorare e sanno costruire. Il Comune intende realizzare, fuori dal Raccordo Anulare, un “villaggio” con abitazioni di emergenza, con container non più in lamiera ma in pannelli di cemento, che verrebbero montati dai Rom.. Anche Auschwitz è stato costruito dagli ebrei e dai Rom, ma quella non è autocostruzione, né partecipazione, è utilizzo dei Rom come forza lavoro a basso costo. Il campo sarebbe sorvegliato 24 ore da telecamere a circuito chiuso, recintato e sorvegliato e con un ferreo regolamento interno, tesserini di riconoscimento e non accessibile da estranei: un campo. Noi crediamo che l’unica via di uscita questa situazione che, è bene ricordarlo, esiste solo in Italia, sia quella di abolire i campi, chiuderli così come coraggiosamente sono stati chiusi i manicomi con la legge Basaglia. Bisogna intanto riconoscere che i campi sono invivibili e intollerabili per i diritti dell’uomo e che vanno chiusi, poi le soluzioni si troveranno. Alcuni Rom, attraverso percorsi individuali e di gruppi familiari allargati, hanno già sperimentato strade percorribili. Bisogna guardare oltre i campi nomadi, altrimenti non si vede niente, nessun futuro. Cosa avete imparato e cosa vi piacerebbe realizzare dopo “Savorengo Ker”? Ci piacerebbe realizzare un agglomerato più grande, dieci quindici case in autocostruzione, e non solo con i Rom, con chiunque volesse sperimentare un nuovo modo di abitare e ha fiducia in un mondo migliore. Abbiamo capito che l’integrazione si produce in cantiere, costruendo insieme la propria casa, mangiando insieme. Che le buone relazioni di vicinato, di pianerottolo, di condominio e di quartiere, si possono costruire attraverso una relazione di lavoro gomito a gomito, passandosi il martello.







Sui Rom a Roma
(intervento il 3 ott 2009 auditorium festa dell’architettura)



Negli ultimi anni ho imparato a guardare la nostra città da un punto di vista nuovo
Un punto vista che forse è il più basso della scala sociale
Il punto di vista dei rom

Credo che capire e partecipare da vicino a quello che sta succedendo ai rom oggi - e soprattutto cosa sta per succedergli, perché proprio in questi giorni sta per essere messo in atto il piano rom - sia di fondamentale importanza per capire cosa sta succedendo in città.

Mi ricordo di una storia di un governatore catalano che prendendo alla lettera Voltaire, era andato ad Alghero nel 700 per controllare lo stato della colonia, e come prima cosa aveva chiesto di visitare le carceri: era dallo stato delle carceri che si poteva comprendere l’intero stato di salute della colonia.

Oggi per conoscere lo stato di salute della nostra città sicuramente una visita alle carceri sarebbe di grande interesse. Ma è ancora più incredibile vedere dei luoghi che carceri non sono ma lo sono di fatto: i campi rom. Luoghi di sospensione della costituzione italiana.

Vi assicuro sono veramente in pochi quelli che ci vanno.



1)

Pochi giorni fa ho visto gli studenti universitari distribuire dei volantini con su scritto grosso: Nella tua città c’è un lager e tu non lo sai, vieni alla manifestazione etc... e poi parlavano del CIE di Ponte Galeria, dove vengono detenuti tutti gli “irregolari che vengono trovati a camminare in giro per la città” e dove per altro siamo andati insieme a stalker e all’attore di teatro civile Ulderico Pesce durante il giro del GRA di cui parlava prima lorenzo romito.

Ho detto a quegli studenti : guardate che a roma non c’è un solo lager, ce ne sono diversi e ne stanno per creare ancor di nuovi, sono i nuovi campi rom, che si chiamano “villaggi della solidarietà”. Gli ho spiegato che sono i nuovi campi ideati dal governo prodi attraverso il ministro giuliano Amato insieme al Sindaco Veltroni e al prefetto Serra oggi senatore nelle file del PD, sono i campi di ultima generazione, un esempio per tutti è quello di castel romano, la cui creazione è stata seguita direttamente dal gabinetto del sindaco veltroni. 1300 perone in container di 32 metri quadrati, senza acqua potabile, in piena campagna (il parco di decima malafede) e con il primo negozio a sei chilometri di distanza.

Vi dico che questi studenti stentavano a credermi. Non ne sapevano nulla, e soprattutto non riuscivano a mettere insieme le due cose.

Per loro erano comunque due problemi separati..



2) secondo fatto: sembra che l’Europa abbia dato al Comune di Roma 12 milioni di euro da spendere per l’emergenza abitativa dei Rom. Ma le ultime dichiarazioni del sindaco e dell’assessore ai servizi sociali dicono: “ai rom non daremo assolutamente le case popolari”.

Questi soldi non saranno infatti spesi per l’abitare dei rom, ma per il controllo sociale da attuare sui rom:

- ristrutturazione e ampliamento degli ultimi villaggi fatti da veltroni (quelli lontani da roma, perché quelli vicini devono essere cancellati per far posto alle nuove speculazioni fondiarie)

- cartellini di identità (hanno fatto credere ai rom che si tratta di veri documenti)

- appalti per la guardiania dei campi h24 (alle associazioni, poi la croce rossa, poi chissà l’esercito)

- appalti per la scolarizzazione (invece di insegnargli a portare i bambini a scuola)

- sistemi di sicurezza come telecamere intorno e dentro ai campi

- costruzione di nuovi villaggi (che alla fine non si farà perché i comitati di cittadini insorgono e si perdono voti, meglio camminare sulla scia aperta da veltroni, lui i campi nuovi li ha fatti)



Ora io credo che questi soldi potrebbero essere cumulati ai milioni di euro che stanno stanziando in questi giorni per l’”housing sociale”. Si potrebbe mettere insieme i soldi e riservare una quota in percentuale per i rom, distribuendoli nelle nuove case popolari. (è una proposta che faccio al signor sindaco, e qualcuno in aula volesse riportargliela…)

Ma questo non si fa. Né il sindaco né chi si batte per la casa tiene che i due temi siano tenuti insieme.

Eppure mi sembra lampante come il tutto sia collegato. I campi, la speculazione fondiaria, la sospensione dei diritti, il fallimento della sinistra corsa dietro alla demagogia sulla sicurezza…

Ancora una volta separazione



2)

Quando in primavera abbiamo fatto il giro del GRA il progetto iniziale era mettere insieme il problema dei campi rom e le istanze cittadine che vengono dal basso, organizzate dai comitati di quartiere di cui ci ha parlato Marcello Paolozza. E questo è anche il concetto esposto oggi alla biennale di Rotterdam, materializzato in un grande piatto di rame con il GRA, il nostro percorso di 210 chilometri, e poi i comitati di cittadini e i campi rom incontrati durante il viaggio.

Ebbene questo progetto ha incontrato mille difficoltà e direi che almeno fino ad oggi, direi che non è riuscito: non siamo riusciti a mettere insieme i rom e gli “altri”.

I rom stanno cercando mediazioni e trattative da soli e stanno per finire nei nuovi campi di concentramento, non capisco se hanno paura del sindaco, se si immischiano con gli antagonisti della città, oppure perché sanno che comunque gli altri non faranno una battaglia per loro, sta di fatto che si sono isolati. Solo un rom è venuto una volta a fare con noi una uscita sul GRA, nessuno dei rom che abbiamo incontrato lungo il giro è voluto uscire dal proprio campo per unirsi a noi.

E gli “altri” lo stesso, i comitati dei cittadini e le istanze oggi in lotta nel territorio finalmente si sno messi insieme, camminano con la carovana bene comune e sono riusciti a proporre in regione una legge di iniziativa popolare sull’emergenza abitativa, ma in quella legge la parola rom non compare e a molti quando gli parli di rom ti dicono: “ma quello è tutto un altro problema”,

non tutti per fortuna, infatti ci stiamo ancora lavorando, anche perché credo che quella sia forse l’ultima speranza.



Da una parte perché mi sembra che può essere la prova per altri strati della popolazione sempre più in stato di indigenza e in emergenza abitativa.



Autodialogo su Metropoliz


di Francesco Careri



_Dopo il Casilino 900

D: dopo l‘esperienza di Savorengo Ker mi sembra che siano cambiate molte cose. Com’è avvenuto il passaggio da Casilino 900 al Metropoliz?

R: si sono cambiate molte cose, direi che l’intero quadro è cambiato. La prima è Stalker, non abbiamo mai detto che sia finito ma che è entrato in una fase di riflessione, come si dice tra fidanzati. La seconda è che il Casilino 900 è stato sgomberato e quindi seppure con molte persone abbiamo mantenuto ottimi rapporti, non c’era più il campo e non aveva senso lavorare con loro dentro ai nuovi campi in cui li avevano rinchiusi. La terza è stata la sfiducia nelle istituzioni, visto com’era andata al Casilino, non ci sembrava più il caso di avanzare proposte alle istituzioni, né loro sembravano interessate a riceverne. E nel frattempo era nato Metropoliz, una realtà nuova che andava in una nuova direzione, verso l’inclusione dei Rom in una “città meticcia”, insomma un’esperienza da seguire, magari cercando di non ripetere alcuni errori compiuti al Casilino.

Anche perché dopo che Savorengo era stata bruciata, la nostra idea era di costruire un condominio meticcio in autocostruzione, fare un salto di scala e non più per soli Rom. A Metropoliz questo stava già succedendo e ci è sembrato più interessante seguirne il processo che ricrearlo da zero.



D: Calma calma… troppe cose date per scontate. Andiamo con ordine. Proviamo a seguire i punti che hai detto. Dunque a Metropoliz non è più Stalker che agisce? E chi è allora?

R: diciamo che a Metropoliz ha partecipato quella parte di Stalker che aveva deciso di partecipare all’operazione Savorengo Ker. A Ilaria piace dire che Stalker si è impantanato nella palude del Casilino, che là è l’ultima volta che è stato avvistato, e forse è vero ed è bello vederla così. Credo che Stalker, come pensiero e come modalità, ci sia sempre stato in ogni azione compiuta al Metropoliz. Ma mancandone una parte importante il nome non è stato usato, non era Stalker il soggetto in campo. Al suo posto abbiamo usato il LAC, che sta per Laboratorio di Arti Civiche e che raccoglie persone che si sono formate con Stalker negli ultimi anni di interazione con l’università, attraverso esperienze come il corso di arti civiche, workshop, tesi, camminate etc.



D: Fabrizio Boni e Giorgio De Finis hanno partecipato attivamente a Savorengo Ker. Che rapporti hanno con Stalker e con il LAC?

R: beh intanto lo chiederei a loro… non mi è mai piaciuto dare o non dare la patente di Stalker. Penso di poter dire che Fabrizio e Giorgio non si sono mai autodefiniti Stalker. Ma hanno lavorato molto con e su Stalker, e quando condividi un’esperienza con noi per documentarci da dentro, a un certo punto fai anche parte del processo che stai osservando, diventi un elemento in gioco. Sicuramente l’esperienza di Casilino ha cementato la nostra relazione, e non è un caso che poi ci siamo ritrovati insieme al Metropoliz insieme ad Azzurra e Ilaria. Per quanto riguarda il LAC, Giorgio e Fabrizio hanno mantenuto sempre la stessa distanza che avevano con Stalker, non hanno mai fatto parte di LAC. Poi oggi con Space Metropoliz mi sembra che tutto ciò si sia ancora più chiarito, loro sono un soggetto in campo molto ben definito, molto più di Stalker e del LAC.



D: Ok, ma su tutto questo vorrei arrivarci dopo. Proviamo a seguire il filo di prima. Dunque il Casilino non c’è più. I vostri amici rom finiscono nei campi e si esaurisce la fiducia nelle istituzioni.

R: Lo sgombero del Casilino è stato il fischio di inizio del Piano Nomadi a Roma. Le persone con cui avevamo costruito Savorengo Ker sembravano anche fiduciose in un futuro diverso, volevano credere nelle promesse del sindaco. Najo, l’ex portavoce del Casilino, era diventato delegato del Sindaco per l’emergenza Rom, e questo è stato un duro colpo, una vera delusione affettiva di quelle che ti danno da pensare. E poi avanti cosi: Hakja si faceva fotografare sorridente mentre gli demolivano la sua bellissima casa a due piani e poi entrando al campo di Salone prendeva la tessera numero uno del DAST, il nuovo tesserino con codice a barre che sancisce l’apartheid dei Rom a Roma. Mirsad, Bayram, Klej dopo aver cercato di resistere e di chiedere garanzie, avevano ceduto con la promessa che si trattasse solo una soluzione temporanea e che avrebbero avuto un campo nuovo. Il gruppo di Senad, l’unico a rifiutare i campi, era invece finito al CER, Centro Emergenza Rom, assistito come se fossero persone incapaci di intendere e di volere.

Noi che fosse tutto una presa in giro e che sulla loro pelle si stesse facendo solo bello il sindaco lo avevamo capito perfettamente. Era evidente che il mondo in cui stavano per entrare era infinitamente peggiore di quello che stavano lasciando. Ma non potevamo certo metterci a fare barricate al posto loro… C’è stata anche la festa di chiusura del Campo con il concerto di Mannarino sul piazzale. La foto su tutti i giornali di Najo, il Prefetto e il Sindaco che mettono insieme il lucchetto al cancello del campo, l’assessore ai servizi sociali che dichiarava ai suoi elettori che “a Roma non ci saranno mai case per i Rom” … Noi a quella festa non ci siamo andati.



_l’ingresso nella fabbrica occupata

D: E veniamo allora al Metropoliz. In che occasione ci siete arrivati?

R: Mentre stavamo facendo il giro a piedi del Grande Raccordo Anulare con il corso di Arti Civiche e Primavera Romana, mi ha chiamato Leroy, un mio laureando-occupante: “Aho Prof ! Stamo a occupà ‘n posto ncredibile! Na fabbrica sulla prenestina, vicino al GRA! Dovete venì subito!”. Eravamo ancora a Roma Ovest e gli ho promesso che ci saremmo andati quando passavamo da quelle parti. E così è stato. Dopo molti altri inviti di Leroy che nel frattempo aveva deciso di abitarci e di farci la sua tesi di laurea, verso l’inizio dell’estate ci siamo entrati e Leroy ci ha fatto da guida raccontandocelo come una sorta di mondo nuovo. Indicava ammassi di ferraglia in stanze diroccate e ne parlava come della nuova biblioteca, e poi qui i condomini, e le sale multimediali, le aule universitarie... visitavamo un suo progetto completamente sovrapposto alla realtà. Lui indicava il tutto con una spada. Sembrava una sorta di Don Chisciotte dell’archeologia industriale. Giorgio De Finis che era con noi ha ripreso tutto. Quella puntata di Appunti dal GRA è un documento importante di questa storia. Abbiamo visto la fabbrica di salumi ancora come era dopo l’ultimo turno di lavoro del giorno in cui era stato chiuso il cancello vent’anni fa.



D: E questa visita è stata amore a prima vista? Quand’è che avete deciso di lavorarci?

R: No in realtà sono passati diversi mesi. Il fatto scatenante è stato quando Metropoliz ha accolto i Rom del canalone di Centocelle, chiamati erroneamente del Casilino 700, che era invece il campo famoso sgomberato nel 2000 in occasione del Giubileo. Avevo seguito le loro vicende tramite Popica Onlus e sono stati loro ad avvertirmi che i Rom si erano messi in una fabbrica a fianco al Metropoliz. Mi arrivavano continue notizie da Maria, Leroy e Margherita che avevano cominciato a dividere lo spazio tra le famiglie, a disegnare per terra i nuovi lotti e a seguire i lavori di autocostruzione. In quei giorni era programmato che dovessi fare un workshop della Facoltà di Architettura e lo avevo immaginato ancora al Casilino per documentarne gli ultimi giorni. Doveva durare una settimana, cosi dopo aver preso accordi con Popica si è deciso di fare il primo giorno di visita al Casilino sotto sgombero (il problema), il secondo giorno al campo di Salone (la soluzione istituzionale) e gli altri tre a Metropoliz (la soluzione auto-organizzata) in aiuto all’autocostruzione dei Rom.



D: Che tipo di lavori avete fatto?

R: siamo arrivati di sera e in una prima riunione con i Rom e Popica intorno al fuoco, abbiamo spiegato che avevamo parecchie mani volenterose, circa cinquanta studenti. Dissero che alle case ci avrebbero pensato loro e in effetti erano già a buon punto, mentre la loro priorità era fare i bagni. Poi, già che eravamo tanti abbiamo cercato anche di mettere in sicurezza il tutto con un minimo di anti-incendio, togliere i vetri rotti in bilico dalle finestre, stappare le gronde del tetto e i tombini del piazzale… insomma lavori di prima necessità a cui abbiamo aggiunto dei giochi per i bambini e qualche lavoro più simbolico-artistico tipo le ruote di bicicletta sulla facciata di mattoni. L’interazione non è stata molta anche perché loro erano occupati a farsi le case. Ma la delusione più grande è che dopo aver fatto i bagni nel posto indicato da loro, questi non siano mai stati usati. Ancora oggi i bisogni si fanno in una baracca esterna, sotto una lamiera vicino alla recinzione. Non ho ancora capito se avevamo fatto male noi le pendenze dei bagni o se loro avevano sbagliato ad indicarci il posto giusto, troppo vicino alle case...



D: Un’esperienza assolutamente diversa da quella di Savorengo...

R: Beh si. Non c’era stato proprio il tempo di costruire una relazione affettiva e di reciproca fiducia e quindi di collaborazione. E soprattutto era un lavoro molto funzionale-edilizio e per nulla simbolico-politico. Direi che è stato un errore nostro, dovuto alla troppa velocità. Ci siamo presentati come una task force di volontari e quindi il lavoro è stato per loro e non con loro. C’è anche, devo dire tutt’ora, un diverso grado di comunicazione reciproca. Sono qui da pochi anni, pochi di loro parlano l’italiano, sono tutti molto giovani… per dire, nessuno di loro ha vissuto nella Romania di Ceausescu, semplicemente non erano ancora nati. Insomma è un mondo molto diverso dai Rom italiani del Campo Boario o dagli ex-balcanici del Casilino che erano da quarant’anni in Italia, e che hanno anche più o meno la nostra età. Una sorta di gap culturale e generazionale, che comunque continua a procurare difficoltà di relazione, anche se non con tutti chiaramente. In particolare sembrano più le donne qui a voler prendere in mano la situazione e a voler riscattarsi da questa condizione. Mentre gli uomini sono sempre indaffarati intorno ai camioncini, a raccogliere ferro, ammassare cose, a parlare tra loro immaginando imprese e progetti… donne e bambini sembrano più attenti alle relazioni che si instaurano con gli altri occupanti del Metropoliz.



D: Insomma forse l’ingresso è stato un po’ un passo falso. È mancato l’elemento ludico-onirico e utopico…

R: Decisamente si… l’anno seguente con il workshop “Pidgin Macam” abbiamo cercato di mettere qualche toppa e le cose sono andate meglio, ma ancora non alla perfezione. Questa volta c’è stata una maggiore preparazione del terreno di gioco. In una prima riunione con Popica e i BPM abbiamo definito gli obiettivi e il nostro ruolo. C’era anche Giorgio De Finis e si è parlato di come avremmo voluto portare a Metropoliz una rete di artisti con il fine di aprire l’occupazione alla città, e di costruire relazioni di vicinato con il quartiere. In fondo dopo il Casilino l’errore che non volevamo correre era di non coinvolgere il quartiere intorno, e da questo punto di vista Adriana Goni con la sua esperienza di partecipazione e di comitati di quartiere alle spalle, si è rivelata di grande aiuto.

Anche questo secondo workshop è stato di autocostruzione, seguendo quasi alla lettera il progetto di tesi di laurea di Leroy: abbiamo ripulito dal guano due grandi zone al primo piano della fabbrica per farci una ludoteca e un aula di italiano, che sono venute molto bene, colorate e funzionali, e poi abbiamo disegnato la pavimentazione michelangiolesca della piazza del Campidoglio nel piazzale di ingresso, anche questo dal disegno di Leroy. Ma la cosa che ha fatto cambiare la relazione con gli abitanti è stata l’organizzazione dei pranzi. Invece di spendere i soldi al bar si è deciso di pagare alcune famiglie di Metropoliz per cucinare. Ogni giorno abbiamo avuto modo di assaggiare diversi menù e soprattutto di conoscere le diverse persone che vivono nell’occupazione. Questo ha fatto nascere anche una più forte collaborazione. L’ultimo giorno di workshop ci sono state molte lacrime di addio.



D: Durante il workshop si sono anche avvicinati alcuni importanti personaggi di Tor Sapienza…

R: Si devo dire che questo è stato merito dei BPM, che avevano già cominciato a lavorare sul territorio per collegarsi con la storia operaia di Tor Sapienza. Durante il workshop sono venuti degli ex operai della fabbrica che ci hanno raccontato dove lavoravano e come funzionava tutto il ciclo produttivo. Ed è venuto Nicola Marcucci che è un pilastro della storia di Tor Sapienza, e ci ha raccontato della nascita delle prime case intorno alla stazione, del ruolo di Michele Testa, a cui oggi è dedicata la più importante associazione di quartiere, delle baracche, delle lotte per la legalizzazione delle case abusive, per i servizi e per le scuole, del ruolo sociale del vecchio PCI, dell’arrivo delle case popolari negli anni ottanta, dei campi rom attrezzati negli anni novanta. Insomma ci un racconto di un quartiere la cui storia è in piccolo quella della città di Roma. Da subito con l’associazione Michele Testa è nata un’ottima sintonia, e si sono create diverse occasioni per fare costruire un ponte tra Metropoliz e Tor Sapienza, per esempio il carnevale del 2011 a cui hanno partecipato in piazza tutti i bambini dell’occupazione. Una cosa che mi è sembrata molto importante è stato il loro impegno con la petizione pubblica che raccoglie le firme per l’acquisizione pubblica della ex-fabbrica a fini culturali ed abitativi. In questi giorni con loro stiamo lavorando a un importante progetto di interazione con il quartiere, ma siamo solo all’inizio.



D: Hai detto acquisizione pubblica a fini culturali ed abitativi. È questo il progetto di Metropoliz?

R: Direi di si, ma non voglio essere io a dirlo, dovrebbe farlo piuttosto qualcuno dei BPM, e probabilmente avranno dello spazio in queste pagine per farlo. Comunque la petizione firmata anche da loro dice questo. Il proprietario non ha un progetto alternativo per la ex-fabbrica, è solo in attesa di rivenderla a più soldi di quanto l’ha comperata, di utilizzare i premi di cubatura del piano casa, e nel frattempo lasciarla cadere a pezzi senza utilizzarla. Mentre la petizione parla di beni comuni, di memoria del quartiere, di progetto sostenibile, di risposte nuove e inclusive per i Rom, di case a chi ne ha bisogno. Insomma sono più che sicuro che gli abitanti non se ne andranno in cambio di proposte abitative alternative, le quali non potrebbero che essere fuori dal GRA, o in residence che sperperano denaro pubblico per una falsa assistenza o in quartieri speculativi che hanno divorato il suolo della campagna romana. Insomma quella fabbrica è un prototipo della città veltro-alemanniana che si vuole attaccare. Mi sembra di poter dire che Metropoliz vuole abitare là, rivendicando che le case si possono fare autorecuperando il costruito, senza ulteriore consumo di suolo e nel vivere una socialità diversa da quella dei condomini borghesi. Questo però non vuol dire che l’unico tema sia l’emergenza abitativa e che non si vogliano aprire anche spazi culturali per la città e per il quartiere. La volontà di farlo mi sembra esplicita vedendo come gli abitanti hanno accolto favorevolmente sia il progetto del film che le azioni degli artisti che hanno accompagnato per mesi il lavoro lunare.



_la Luna a Metropoliz

D: e veniamo finalmente alla Luna e al film Space Meropoliz! Comìè uscito fuori?

R: Un giorno Fabrizio e Giorgio sono venuti a casa mia, mi hanno raccontato l’idea della luna, mi hanno fatto vedere il film di Méliès e mi hanno regalato il dvd di “Miracolo a Milano”. Era da tempo che aspettavo un momento come questo. Su Metropoliz eravamo impantanati in mille cose tutte interessanti ma nessuna veramente coinvolgente e l’idea di andare sulla Luna mi ha fatto subito sognare: finalmente qualcosa capace di trascinarsi dietro tutto, allo stesso tempo leggera e profonda, utopica e concreta. La luna è un terreno di incontro comune a tutti, un progetto senza steccati sociali: nessuno di noi sa niente della luna più degli altri, nessuno ci è stato, né i registi, né i professori, né gli attivisti, né i rom, né i peruviani, né gli eritrei … finalmente tutti sullo stesso piano! Insomma sono stato subito entusiasta di questo film allo stesso tempo fantascientifico e neorealista e ho messo in campo tutto quello che potevo: i lanci alla Biennale di Venezia, a Festarch a Perugia, e alla Biennale dello Spazio Pubblico di Roma; il workshop con il DPU della University College di Londra sul muro che separa le due occupazioni; con Roma Tre abbiamo partecipato e vinto il bando “Roma Provincia Creativa” della Provincia di Roma (non molto ma una base con cui si poteva cominciare a lavorare); ho coinvolto diversi amici come Francesco Sylos Labini che ha fatto una lezione astrofisica nella Piazza Perù, Cesare Pietroiusti con una memorabile lezione di arte relazionale nel cortile delle due Olghe ucraine, la collettiva Geologika con un cretto lunare in terra cruda. Insomma mi sembrava che finalmente potevo girare per Metropoliz con un ruolo che mi stava meglio: non più nelle vesti del prof con una squadra di autocostruttori, ma di un cosmonauta pronto a partire insieme a tutti gli abitanti per un viaggio tutto da inventare.



D: E un viaggio iniziatico lo avete anche fatto. Se non sbaglio una camminata notturna. Mi dici qualcosa?

R: Si, il nome è “Pidgin Moon Walk” ed è stata la camminata del corso di Arti Civiche che ogni anno faccio con gli studenti in zone diverse della città. Avevamo deciso di deambulare nel quadrante est, tra Prenestina e Casilina, per attraversare i livelli di interazione multiculturale della zona più “meticcia” di Roma. “Pidgin” è una sorta di “lingua meticcia”, un idioma ancora non solidificato in lingua come il creolo, ma che si trova ancora al suo grado zero, nel suo divenire attuale, attraverso inciampi, incomprensioni e sbagli di pronuncia. Insomma una parola che parla di volontà di relazione tra diversi e di accettare di mettere in crisi le proprie sicurezze, di frequentare l’errore e il malinteso per costruire un qualcosa di nuovo, di imprevedibile, di indeterminato. In una serata molto alcolica al Pigneto con gli altri del LAC, la camminata Pidgin City si è trasformata in Pidgin Night. Si è deciso di camminare sempre di notte, da mezzanotte all’alba, e di arrivare a tappe da Piazza Vittorio fino a Metropoliz guidati dalla luna. Fabrizio e Giorgio ne sono stati entusiasti e si sono subito offerti di filmare il tutto per inserirlo nel film. È stata un po’ un banco di prova per capire la reazione della gente al progetto Space Metropoliz. Camminando raccontavamo che stavamo per costruire un razzo per esplorare nuove possibilità di vivere questa nostra vita. La gente impazziva di desiderio, molti invece di andare a dormire hanno camminato con noi per il resto della notte, altri sono andati a prendere strumenti musicali e ci hanno raggiunto per rallegrare la notte, altri hanno chiamato altri amici e si sono uniti alla carovana lunare. Insomma la cosa ha funzionato e la sera del 15 giugno in occasione dell’eclissi lunare abbiamo organizzato al Metropoliz una bellissima festa di arrivo, un Luna Park con installazioni degli studenti, balli con la Murga, cibi di tutte le culture. E per l’esame ogni studente ha portato una valigia per andare sulla luna, con ricordi della camminata notturna, oggetti, pensieri, desideri, proposte…



D: Insomma mi par di capire che quella sera di eclissi, dopo aver attraversato la città meticcia, la Luna è finalmente arrivata a Metropoliz.

R: Si credo che quella serata di musica e festa sia stato un momento importante in cui gli abitanti hanno toccato con mano il progetto Space Metropoliz. C’erano quasi tutti e ballavano come matti al ritmo coinvolgente della Murga insieme agli studenti e ai loro amici, alle persone coinvolte durante la camminata, agli attivisti delle altre occupazioni, agli abitanti dei quartieri vicini che venivano per la prima volta a Metropoliz. Insomma un bell’intreccio di persone e culture. Penso che quella sera abbia finalmente cementato una fiducia reciproca e aperto le porte al progetto. È stata un esempio di quello che si intendeva fare dopo, invitando artisti a intervenire durante il resto dell’estate come poi è successo. Da quel momento in poi Giorgio e Fabrizio hanno cominciato una frequentazione quotidiana, hanno organizzato REstate al Metropoliz durante i mesi estivi, hanno invitato gli artisti a lavorare tra le case, insomma sono “entrati in famiglia” e con alcuni hanno stretto rapporti di amicizia che sono sicuro continueranno anche dopo il film.



_il cantiere del Razzo

D: E veniamo al razzo. In qualche modo mi sembra che dall’inizio la costruzione del razzo sia sempre stata implicitamente un compito del LAC. Un po’ l’oggetto simbolico-relazionale che era stata la casa Savorengo Ker.

R: Si dall’inizio queste erano le aspettative di tutti. Poi le cose per fortuna vanno diversamente da come le si prevede e il razzo ha preso la sua strada liberandosi da tutto ciò che ci avevamo proiettato sopra, sia come progetto che come immaginario. E questo suo liberarsi è costato molto come dissipazione di energie e ha anche messo a nudo alcune contraddizioni importanti.

Sul fatto di ripetere Savorengo avevo sempre avuto grandi dubbi: Savorengo era la costruzione di una “vera casa” che incarnava il progetto politico dei Rom del Casilino, mentre il razzo che va sulla luna mi sembrava nascesse più come scenografia di un film che come manifesto, insomma un concetto troppo sofisticato e surreale per incarnare il progetto politico di Metropoliz. Ma devo dire che ascoltando oggi come ne parlano gli abitanti, mi sembra che forse già lo stia diventando.



D: Aspetta stai dando troppe cose per scontate. Che vuol dire che il razzo ha preso una sua strada?

R: La cosa bella e dura è che a un certo punto la squadra dei costruttori-abitanti ci ha allontanato: ha chiesto ad architetti, artisti, antropologi, professori e quant’altro, di farsi da parte, e di rimanere da sola con Giorgio e Fabrizio per chiudere il razzo finalmente come volevano loro. Io Maria e Leroy da due mesi ci stavamo lavorando a tempo pieno. Dopo che si era installato il basamento con le grandi sfere galleggianti tolte dalle vasche, abbiamo organizzato momenti di scambio con tutti, raccolto disegni, progetti e desideri da bambini e da adulti, abbiamo fatto un modellino tridimensionale, verificato diverse ipotesi strutturali, siamo andati a comprare i materiali, a procurare i tubi innocenti, a raccogliere dai rom le lavatrici per fare gli oblò. È successo che in questi preparativi, nel pensarci e ripensarci, abbiamo anche cominciato ad avere un immaginario comune tra noi, e ci sembrava che questa nostra visione fosse condivisa ma notavamo anche pigrizia diffusa e disaffezione al progetto. Quando la mattina andavamo in cantiere era sempre molto difficile coinvolgere Daniel, Lucho, Tarik. Boris e gli altri a venire a fare il razzo. Sembrava che la cosa non li appassionasse, ma non era così. Una volta tirata su tutta la struttura si è capito che il problema riguardava il “vestito” del razzo, la sua immagine: noi lo avevamo sempre immaginato leggero e trasparente, con una rete metallica in cui fosse possibile attaccare gli oggetti che tutti avrebbero mandato sulla Luna. Mentre un giorno che non c’eravamo, “la squadra” ha smontato delle coperture in lamiera dalla fabbrica e le ha attaccate ai tubi. Ripensandoci poi ho capito che era una cosa che da tempo dicevano di voler fare e che noi non eravamo stati capaci di ascoltare. Quando siamo tornati in cantiere e lo abbiamo visto abbiamo pensato: ok è un segnale più che chiaro. Lo vogliono fare a modo loro, ed è assolutamente giusto che sia così, in fondo il progetto è sempre stato questo, che gli abitanti di Metropoliz costruivano il “loro” razzo.



D: Mi immagino che comunque questo sia stato anche un po’ doloroso?

R: Si certo. Non si accetta facilmente quando qualcuno ti dice che non vuole giocare con te. Ma ci ho imparato molte cose. Vedi anche nel cantiere di Savorengo il progetto era stato cestinato il primo giorno. Molto spontaneamente ci avevano detto è troppo piccolo e lo avevano ingrandito, poi per il vestito Senad aveva detto “domani vi faccio una sorpresa e mi dite che ne pensate” e avevano montato quelle doghe orizzontali che gli davano un’aria così da chalet, poi le discussioni sulla scala fuori… ognuno di questi momenti però veniva fuori da un confronto affettuoso e a noi interessava proprio che venisse come piaceva a loro. Insomma anche i Rom del Casilino erano fieri di aver fatto un loro progetto tradendo quello degli architetti e dell’università, e su questo ci abbiamo sempre giocato. Per il razzo invece non ci eravamo resi conto che c’era un “come piaceva a loro” e che questo stava diventando un problema. E ho capito che il mio ruolo di universitario non aiuta in questi casi, anzi il fatto che tutti mi chiamano “prof”, anche scherzosamente, crea comunque molta distanza. Comunque la mia parola viene ascoltata in modo di verso e con più autorità, anche quando non ce n’è assolutamente bisogno, anche quando non lo desidero affatto. Ho capito che se io mi pronuncio, gli altri poi hanno remore a dire la loro. Insomma che anche quando pensi di star facendo un’opera relazionale e condivisa, devi prima capire bene come sei visto, qual è il tuo ruolo, qual è il vestito che tuo malgrado ti porti addosso.



D: e insomma come si è risolta questa situazione? La cosa poi è rientrata?

R: ma si, è una cosa che si è chiarita nel giro di pochi giorni. Quando sono tornato in cantiere si è scherzato da subito sul fatto che potevo osservare ma non dovevo più parlare, e mi hanno spiegato come pensavano di andare a chiudere. L’ultima cosa che ho chiesto è stato di mettere dei tubi inclinati per controventare la struttura, avevo veramente paura che cadesse. In parte lo hanno fatto.

Quando poi è stata fatta la festa di inaugurazione e mi hanno chiesto che ne pensavo gli ho risposto:

“È buffo. È bello perché è vostro.” Ed effettivamente “buffo” è l’aggettivo che mi è venuto spontaneo. È una baracca verticale, un po’ minareto, un po’ campanile, pieno di bozzi e di cuciture, assolutamente anti-fantascientifico, antimonumentale, per niente futurista, per niente aggressivo.

In tutta questa storia mi sembra insomma di aver svolto un grande gioco di sfondo. Altri artisti sono intervenuti e hanno lasciato una loro opera, come il telescopio di Tosatti, gli orti di Fabio Pennacchia, per citarne alcuni. Io invece ho una lavorato a una preparazione continua di un qualcosa che non è mai stato “mio” e a cui ho sempre fatto fatica appartenere: il razzo, come il film, come il progetto più generale di Metropoliz. È un qualcosa a cui partecipo perché mi piace osservare da dentro come le cose si trasformano, ma ho l’impressione che al contrario di tutte le altre volte, qui sia molto difficile partecipare veramente alla loro trasformazione.

D: E oggi come la vedi? Hai ancora energie da dissipare per osservare da dentro?

R: Si certamente. Sono tornato da pochi giorni da Sao Paolo del Brasile dove con Irene dei BPM, Azzurra e altri del LAC abbiamo portato il caso Metropoliz alla mostra “Sao Paolo Calling”. Una mostra sugli slums del mondo in cui sono state invitate città come Mumbai, Nairobi, Medellin, Baghdad e Mosca, e Metropoliz è il caso studio che rappresenta l’Europa. Insomma una cosa importante e che avrà molta eco. È stato molto bello il momento in cui Irene si è confrontata con gli abitanti della Favela Sao Francisco sul tema del passaggio dalla lotta al diritto alla casa a quella per il diritto alla città. Credo che portare in giro per il mondo questa esperienza aiuti tutti a guardarsi da lontano, a chi siamo in una scala più allargata, ad apprendere dalle esperienze degli altri luoghi.

E poi ho molta voglia di vedere il film e le reazioni, sia dei suoi attori che della città. Mi sembra che stiano per succedere molte altre cose a Metropoliz: il passaggio dei Rom dalle baracche costruite oltre il muro alle nuove case dentro la fabbrica darà luogo a nuove forme di convivenza, a nuove contraddizioni, a nuove cose da capire… e poi la Cucina Meticcia nata durante il film, l’unico posto a Roma che ha un menù di 7 culture differenti, un progetto di sole donne che fa da contraltare all’oggetto maschile del razzo... Insomma Metropoliz resta ancora una bellissima scommessa e c’è ancora moltissimo da imparare.

Roma 2011

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