25/02/24

GILLES TIBERGHIEN, La città nomade, prefazione a walkscapes, 2002

In occasione della conferenza di Gilles A. Tiberghien del 15 marzo al Master Environmental Humanities, pubblico qui la sua prefazione al mio libro Walkscapes, scritta per la prima edizione del 2002. (traduzioni inglese e spagnola in fondo al testo)

La città nomade

Con Walkscapes Francesco Careri fa qualcosa di più che scrivere un libro sul camminare inteso come strumento critico, come modo ovvio di guardare il paesaggio e forma emergente di un certo tipo di arte e di architettura. L’autore fornisce al gruppo Stalker, in origine composto da giovani studenti di architettura, un’opera che in qualche modo ne radica le attività nel passato, ne determina in ogni caso una genealogia, alla maniera di André Breton che considerava il surrealismo come una sorta di coda di cometa del romanticismo tedesco, e come hanno fatto i romantici di Jena stessi nella loro rivista «Athenaeum» annettendosi Chamfort, Cervantes o Shakespeare e dichiarandoli romantici ante litteram. O come anche Smithson, che nel suo ultimo testo su Central Park faceva del suo creatore, Frederick Law Olmstead, un progenitore della land art.

Più che ai surrealisti – dei quali, comunque, propone qui una opportuna rilettura con Nadja e L’amour fou di Breton, o Le paysan de Paris di Aragon – è a Dada e alle sue incursioni nella città di Parigi, alle sue camminate senza meta nella campagna francese, che Francesco Careri si richiama.

Ma, ancora a noi più vicini, è ai situazionisti che Stalker può essere paragonato. I due gruppi condividono il gusto per l’investigazione urbana, la sensibilità per le trasformazioni contemporanee in quanto sintomi caratteristici di una società in mutazione, per non dire in «decomposizione». Della città loro sanno scrutare il subconscio, come a suo tempo ha fatto Benjamin affacciandosi sulla Parigi del xix secolo.

Ma non equivochiamo: Stalker è un gruppo del tutto informale nel quale ciascuno dei membri sa bene cosa deve all’insieme degli altri. Il numero dei membri varia, a seconda dei momenti, da sette a venti. Il gruppo ha elaborato nel gennaio del 19961 un manifesto, ma leggendolo ci si convince subito del suo carattere non dogmatico e della sua funzione essenzialmente euristica. Walkscapes partecipa di questo stesso spirito. Prende in esame una pratica della quale Stalker vuole essere il prolungamento, l’amplificazione, l’aggiustamento e anche, perché no, in un certo senso, il fine ultimo. Con questo libro, Francesco Careri mette a disposizione del gruppo le sue ricerche storiche, ma anche la sua inventività teorica proponendoci una rilettura della storia dell’arte attraverso la pratica del camminare così come lui la concepisce, dall’edificazione dei menhir attraverso l’Egitto e la Grecia antica, fino agli artisti della land art.

L’idea che percorre l’intero libro e che l’autore espone in modo convincente è che, in ogni tempo, il camminare ha prodotto architettura e paesaggio, e che questa pratica, quasi del tutto dimenticata dagli stessi architetti, è stata ripristinata dai poeti, dai filosofi e dagli artisti, capaci per l’appunto di vedere quello che non c’è per farne scaturire qualcosa. Si pensi, per esempio, a Emmanuel Hocquard e Michael Palmer, un poeta francese e un poeta americano, che fondarono nel 1990 il «Musée de la Négativité» dopo aver individuato una immensa buca sul bordo dell’autostrada del Nord, in Francia; o all’artista Gordon Matta-Clark che, negli anni ’70, aveva acquistato minuscole parcelle di terreno tra edifici quasi contigui dichiarando che «attraverso ‘lo spazio negativo’ esiste un vuoto che permette ai componenti di essere visti in modo mobile, in modo dinamico»2.

Si può trovare l’inventario di atteggiamenti analoghi e delle riflessioni filosofiche indotte dal camminare in un libro di Bruce Chatwin, che Francesco Careri cita spesso: Le vie dei canti, una sorta di inno al pensiero nomade più che al nomadismo. Il camminare, in effetti, permette di vedere dinamizzando delle linee, linee di canti (song lines) che disegnano il territorio aborigeno, linee di fuga che bucano lo schermo del paesaggio nella sua rappresentazione più tradizionale, linee di streghe, come direbbe Deleuze, che trascinano il pensiero dietro al movimento delle cose, lungo vene che disegnano nelle profondità delle acque quei tragitti delle balene che Melville descrive così bene in Moby Dick.

Ma il mondo che Francesco Careri e i suoi amici prediligono esplorare è quello delle trasformazioni urbane subite da quella che un tempo veniva chiamata campagna e della quale non resta più che una realtà «perforata» o «tarmata» – l’autore ricorre all’immagine della pelle di leopardo, «con macchie vuote nella città costruita, e macchie piene nel bel mezzo della campagna» –, un insieme di territori che appartengono ai suburbs, termine che, come spiega Smithson, «significa letteralmente ‘città di sotto’», che lui descrive come «un baratro circolare tra città e campagna, un luogo in cui gli edifici sembrano svanire dalla nostra vista, dissolversi in babeli o limbi rampanti». È qui che «il paesaggio si cancella per effetto di espansioni e contrazioni siderali»3.

Questo concetto non è, e anzi non è più, esclusivamente europeo, come testimonia il riferimento americano a Smithson. Si pensi anche a John Brinckerhoff Jackson, grande osservatore e teorico del paesaggio, morto nel 1996, che si è interessato molto al tracciato delle strade e alla loro organizzazione sul territorio americano, dimostrando come, lungi dall’attraversare soltanto paesaggi e agglomerazioni, queste generassero nuove forme di spazi nei quali abitare creando in tal modo nuovi tipi di socialità. «Le strade non conducono più soltanto a luoghi, sono esse stesse dei luoghi»4, scriveva Jackson. Tali sono anche i percorsi che sceglie Stalker in occasione delle camminate «nelle soffitte della città» ai margini delle grandi arterie di comunicazione.

Ora, Jackson, pur senza averlo inventato, ha introdotto, come afferma lui stesso, un «nuovo termine dotto» nel lessico del paesaggio. Il termine è «odologia», che deriva da hodos, parola greca che significa strada, cammino, viaggio. Jackson la prende a prestito da uno psicologo sperimentale, Kurt Lewin, che se ne è servito negli anni ’30 per caratterizzare lo «spazio vissuto» in cui si situa un individuo nel suo ambiente. Questo spazio si contrappone allo spazio geometrico della mappa o della carta, allo spazio euclideo razionale omogeneo e misurabile. L’odologia privilegia infatti il camminare rispetto al cammino, il «senso della geografia» piuttosto che il calcolo metrico. Ecco perché l’approccio artistico è così importante per comprendere il nostro modo di percepire il mondo attraverso le vie che lo percorrono, nella misura in cui pone l’accento sulla dimensione dell’esperienza sensibile e affettiva del camminare5. Di fatto, gli uomini oscillano sempre tra queste due dimensioni, quali che siano le loro pratiche.

Jackson ci ricorda che l’uomo è sempre diviso: in quanto abitante della terra ama stabilirsi, fondare, «mettere radici», imprimere il proprio segno – è qui il significato di Estia e dei penati – e la strada, da quel momento, è una minaccia che potrebbe turbare l’ordine stabilito. In quanto animale politico, invece, guidato da Ermes – dio dei viaggiatori e dei banditi, delle pietre miliari e dei passaggi – tende a lasciare la propria famiglia e la propria casa volgendosi a luoghi più stimolanti per cimentarsi e agire. Di fatto, siamo stretti tra due desideri: stabilirci da qualche parte, appartenere a un luogo, e trovare altrove un nuovo campo di azione. Dunque non siamo poi ancora tanto diversi dagli antichi Greci. «La città, dove diventiamo cittadini, e possiamo essere visti, comincia appena fuori della nostra porta, laddove la strada simboleggia la vita pubblica. Se, come credevano i Greci, gli dèi nelle loro erranze hanno creato le prime strade, allora mi spingerei fino a dire che camminare sulle loro tracce è pietas e che, in termini politici, il paesaggio migliore, la strada migliore, sono quelli che suscitano un moto verso uno scopo socialmente desiderabile. Ma di questo decida l’odologo»6. Ed è importante, perché se anche l’odologia è inerente alla geografia e alla organizzazione del territorio, si riferisce comunque, a un livello più profondo, a decisioni politiche fondate su di un insieme di scelte etiche. La questione non è solamente tecnica, ma è anche filosofica.

Stalker lo sa bene e lo esprime a modo suo. Jackson, in effetti, faceva le stesse constatazioni fatte dal gruppo degli italiani nomadi: il formarsi di un nuovo paesaggio che non corrispondeva né a quello delle rappresentazioni classiche, disegnato dal potere, né alla sua forma «vernacolare» che lui aveva prescelto di indagare. Questo paesaggio inedito è creato dalle strade e dalle nuove abitudini della mobilità e dei trasporti di beni un tempo accumulati all’interno delle case. È un paesaggio caratterizzato dal cambiamento, ed è nelle contiguità di queste vie di comunicazione che si realizzano gli incontri e, senza dubbio, anche un nuovo genere di mutuo aiuto sociale. Si hanno in successione una serie di «chiese convertite in discoteche, abitazioni trasformate in chiese … spazi vuoti in città gremite e fabbriche in aperta campagna»7.

Ora, gli interstizi, i vuoti che Francesco Careri osserva, e che non si trovano soltanto ai margini della città ma nel suo cuore stesso, sono tuttavia occupati da popolazioni «marginali» che hanno creato reti ramificate, ignorate quasi da tutti, luoghi non percepiti perché sempre in movimento, che formano, dice l’autore, come un mare del quale gli isolotti di abitazioni sarebbero gli arcipelaghi. Si tratta di un’immagine efficace perché evidenzia bene l’indeterminazione relativa dei limiti suscitati dal camminare. Stalker viene così a corrispondere piuttosto bene a quella figura di odologo futuro, di cui succedeva a volte a Jackson di sognare.

In francese il termine marche (marca) veniva tradizionalmente attribuito alle regioni situate ai confini di un territorio, lungo le sue frontiere. Al contempo, lo stesso termine marche (in questo caso, nell’accezione di «marcia») designa un limite in movimento, che di fatto altro non è se non quello che viene chiamato una «frontiera»8. La frontiera coincide sempre con gli sfrangiamenti, con gli spazi intermedi dai contorni incerti e che si possono vedere davvero solo percorrendoli. Ed è ancora il camminare che manifesta i limiti interni della città, che svela la zona identificandola. Da qui il bel titolo Walkscapes, che consente efficacemente di percepire il potere rivelatore di una dinamica che mobilizza tutto il corpo – individuale, ma anche sociale – per trasformare lo spirito di chi abbia imparato a vedere e a rendere visibile. Una simile impresa ha una reale implicazione «politica» – nel senso proprio del termine –, un modo di porre l’arte, l’urbanistica e il progetto sociale a pari e sufficiente distanza l’uno dall’altro, per mettere in luce in modo efficace quei vuoti che ci sono così necessari per vivere bene.

Note

1 Ripubblicato in francese e in italiano in Stalker attraverso i territori attuali / à travers les territoires actuels, con un testo di Guy Tortosa, Jean-Michel Place, Paris 2000. Riguardo al primo percorso di Stalker vedi anche f. careri, Rome archipel fractal, voyage dans les combles de la ville, in «Techniques & Architecture», 427 (1996), pp. 84-87; l. romito, Stalker, in p. lang (a cura di), Suburban Discipline, Princeton Architectural Press, New York 1997, pp. 130-41; g. a. tiberghien, La vraie légende de Stalker in Stalker, catalogo della mostra (Bordeaux, CAPC, Musée d’art contemporain), Fage, Lyon 2004, pubblicato anche in forma ridotta in «Vacarme», 28 (estate 2004). Siti web: www.stalkerlab.it e www.osservatorionomade.net.

2 e. hocquard, Taches Blanches, in Ma Haie. Un privé à Tanger II, P.O.L., Paris 2001; Gordon Matta-Clark, Rmn Éditions, Marseille 1993, p. 314.

3 r. smithson, A Museum of Language in the vicinity of art, in The Writings of Robert Smithson, a cura di N. Holt, New York University Press, 1979, pp. 74-76.

4 j. b. jackson, A Sense of Place, a Sense of Time, Yale University Press, New Haven 1994, p. 190.

5 Cfr. su questo punto t. davila, Marcher, créer. Déplacements, flâneries, dérives dans l’art de la fin du xxe siècle, Éditions du Regard, Paris 2003, che propone una riflessione originale su quello che lui definisce «la cineplastica nell’arte».

6 j. b. jackson, Discovering the Vernacular Landscape, Yale University Press, New Haven 1984, p. 27. Per un maggiore approfondimento della questione si veda g.-a. tiberghien, Hodologique e i testi di J.-M. Besse che lo corredano in aa.vv., Cheminements, «Les Carnets du Paysage», 11, Actes-Sud/Ensp, Paris 2004.

7 jackson, Discovering cit., p. 154. Questo testo può essere messo in relazione con quanto scrive Francesco Careri: «Abbiamo visitato chiese che sembravano capannoni industriali, fabbriche abbandonate che sembravano cattedrali in rovina, rovine romane nello stato in cui le avevano viste Goethe, Poussin e Piranesi, spazi indefiniti nei quali si aggiravano i personaggi di Fellini e di Pasolini»: Careri, Rome cit., p. 85.

8 Al riguardo cfr. p. zanini, Significati del confine, Bruno Mondadori, Milano 1997.


Nomad City

In Walkscapes, Francesco Careri does more than write a book on walking considered as a critical tool, an obvious way of looking at landscape, and as a form of emergence of a certain kind of art and architecture. Into the bargain he gives the Stalker group, originally made up of young student architects, a work that partly roots its activities in the past, gives it a genealogy in any event, as did André Breton when he considered Surrealism historically as a sort of comet’s tail of German Romanticism, and as did the Jena Romantics themselves in their review the Athenaeüm by annexing Chamfort, Cervantes or Shakespeare and declaring them to be premature Romantics. Or then again like Smithson in his text on Central Park, making its creator, Frederick Law Olmstead, an ancestor of Land Art.

More than the Surrealists –whom he nonetheless opportunely rereads here via André Breton’s Nadja and Mad Love, or Louis Aragon’s Paris Peasant–, it is Dada and its outings in the capital, its random wanderings through the French countryside, that Francesco Careri claims kinship with. Nearer still to our own time, it’s the Situationists that the Stalkers can be compared to. The two groups share a taste for urban investigation, and a sensitivity to contemporary change as being symptomatic of a society in a state of mutation, not to say “decomposition”. They know how to scrutinize the unconscious of the city, as Benjamin once did in studying 19th-century Paris.

When Francesco Careri writes in “Rome archipel fractal” that “We’ve chosen the trajectory as a form of expression which accentuates a place by physically tracing a line through it. The act of traversal, an instrument of phenomenological knowledge and symbolic interpretation of the territory, is a form of psychogeographical reading of it comparable to the ‘walkabout’ of the Australian aborigenes,” the references, be they implicit, are clear. 

But make no mistake about it: neither the Stalkers nor Francesco Careri are neo-Situationists. Stalker is a group, to be sure, but a completely informal one, and if Francesco Careri and Lorenzo Romito are its two most prolific theoreticians they have no final say in the matter. Furthermore, each member of the group knows what he or she owes to the others in the collective, the number of which varies momentarily between seven and twenty individuals. This is its fundamental difference with the avant-garde groups that sprang up in the 20th century, alternatively enrolling and excluding their members. We are faced, here, with an experimental praxis that avails itself of theoretical tools when and as they are needed, and always with a sense of appropriateness, something which gives it great suppleness and considerable intellectual mobility. Indeed, the group launched a manifesto in January 1996,  but reading it quickly convinces us of its non-dogmatic quality and its essentially heuristic function. Walkscapes partakes of this same spirit. It gives point to a practice of which Stalker seeks to be the prolongation, the amplification, the adjustment, and –why not?– also the culmination, in a sense. Francesco Careri puts his researches, and also his theoretical inventiveness, at the disposition of the group. At the same time he offers us a rereading of the history of art in terms of the practice of walking (such as he conceives of it), from the erection of the menhirs, through Egypt and Ancient Greece, up to the protagonists of Land Art.

The anthropological, philosophic, sociopolitical and artistic insights the author presents us with serve, at any one moment, a discourse of great lucidity, the ambition of which is to bring us up to today, to Zonzo, that purely linguistic place encountered in the expression andare a Zonzo, and which means drifting without a goal, as did the walker in the 19th-century city.

Such an expression is what’s called a “fixed syntagm”, one which may only conform to a timeless reality. Today the landmarks have disappeared: one no longer traverses Zonzo as before, with the guarantee of going from the center to the periphery. There was a time when the center was dense and the outskirts of the city increasingly dispersed; right now the center is riddled with empty spaces.

The idea suffusing the book as a whole, and which the author convincingly describes–and what does it matter if it’s historically correct or not, as long as it’s operative–, is that walking has always generated architecture and landscape, and that this practice, all but totally forgotten by architects themselves, has been reactivated by poets, philosophers and artists capable of seeing precisely what is not there, in order to make “something” be there. Hence, for instance, Emmanuel Hocquard and Michael Palmer, who in 1990 founded the Museum of Negativity after having spotted an immense hole beside the Autoroute du Nord in France. Or Gordon Matta-Clark, who in the 1970s bought up tiny bits of land in between almost touching buildings, and who declared that “through the ‘negative space’ a void exists so that the ‘ingredients can be seen in a moving way or a dynamic way’.” 

We find the inventory of a certain number of these attitudes, and the philosophical reflections elicited by walking, in a Bruce Chatwin book Careri often cites, The Songlines, a sort of paean to nomad thinking, more than to nomadism itself, it has to be said. By dynamizing them, the act of walking in fact makes the songlines crisscrossing Aborigine territory visible, those perspective lines which cleave the screen of the landscape in its most traditional representation, “witch lines,” as Deleuze would say, that sweep thought along in the wake of the movement of things, along the veins the passing whales delineate at the bottom of the sea, described so well by Melville in Moby–Dick.

But the world Careri and his friends elect to explore is that of the urban changes wrought to what used to be called the countryside, and of which nothing more remains than a “holed” or “moth-eaten” reality –the author utilizes the image of a leopard skin “with empty spots in the built city and full spots in the heart of the countryside”–, a group of territories belonging to the suburbs, a word that, as Smithson explains, “literally means ‘city below’,” and which he describes as “a circular abyss between town and country, a place where buildings seem to sink away from one’s vision or buildings fall back into sprawling babels or limbos.” There, he adds, “the landscape is effaced into sidereal expanses and contractions.” 

This notion is not –or no longer is– uniquely European: far from it, as the reference to Smithson demonstrates. One also thinks of John Brinckerhoff Jackson, a great observer of landscape, who was extremely interested in the traces and organization of roads across American territory, showing how, far from just traversing landscapes and built-up areas, they engendered new forms of inhabitable space, thus creating new kinds of sociability. “Roads no longer merely lead to places,” he wrote, “they are places.”  And so are the paths the Stalkers follow during their walks through “the city limits”, far from the main communication routes. As it is, Jackson observed exactly the same thing as the group of Italian nomads: the formation of a new landscape that didn’t correspond to either the one in the classical representations power had described or to their “vernacular” form, which is what he preferred to scrutinize. This unprecedented landscape is created by roads, new habits of mobility and the transporting of goods previously stockpiled at home. It is characterized by mobility and change, and it is on the approaches to these thoroughfares that encounters, as well as an indubitably new type of mutual aid, occur. Thus, “churches used as discothèques, dwellings used as churches […] one encounters empty spaces in the very heart of dense cities and industrial installations in the middle of the countryside.” 

The interstices and voids Careri observes, and which aren’t just on the outskirts of the city but in its very center, are nevertheless occupied by “marginal” populations who have invented branching systems that are largely unknown, unnoticed places that, because they are always shifting, come together, the author says, like a sea whose islets of dwellings would be the archipelagos. This image is a good one, since it illustrates the relative indeterminacy of these limits incurred by walking.

The “marches” was the name traditionally given to territories situated at the confines of a territory, at the edges of its borders.  Walking [la marche] also designates a shifting limit, which is nothing other, in fact, than what’s called a frontier. The latter always goes hand in hand with fringes, intermediary spaces, with undeterminable contours that can only really be made out when travelling through them. It’s walking, too, which makes the internal frontiers of the city evident; which, by identifying it, reveals the zone. Whence the beautiful title Walkscape, which stresses the revelatory power of this dynamism mobilizing the entire body –social as well as individual–, in order to then transform the mind of he who knows how to look. Such an enterprise has a genuine “political” stake—in the primal sense of the word—a way of keeping art, urbanism and the social project at an equal, and sufficient, distance from each other in order to effectively illuminate these empty spaces we have such need of to live well.


La ciudad nómada

Con Walkscapes, Francesco Careri ha hecho más que escribir un libro sobre el andar entendido como una herramienta crítica, como una manera obvia de mirar el paisaje, como una forma de emergencia de cierto tipo de arte y de arquitectura. Proporciona también al grupo Stalker, formado en su origen por jóvenes arquitectos todavía estudiantes, una obra que de algun modo enraiza sus actividades con el pasado, construye su genealogía, tal como lo hizo André Breton cuando consideró históricamente el surrealismo como una especie de cola de cometa del romanticismo alemán, y tal como lo hicieron por su parte los románticos de Jena, en su revista Athénaüm, cuando se apropiaron de Chamfort, de Cervantes o de Shakespeare declarándolos románticos avant-la-lettre. Y también como lo hizo Robert Smithson, quien, en su último texto sobre el Central Park, veía a Frederick Law Olmstead, su creador, como un ancestro del land art.
Más que a los surrealistas -a quienes sin embargo lee oportunamente en el libro, a través de Nadja y L'amour fou, de Breton, o de Le paysan de Paris, de Aragon-, es a Dada y a sus garbeos por la capital, a sus caminatas al azar por la campiña francesa, a lo que Francesco Careri apela. Y, todavía más cercanos a nosotros, son los situacionistas quienes podrían ser comparados con Stalker. Ambos grupos comparten su gusto por las investigaciones urbanas, su sensibilidad hacia las transformaciones contemporáneas y hacia los síntomas característicos de una sociedad en proceso de mutación, por no decir de "descomposición". Ambos han sabido escrutar el inconsciente de la ciudad, del mismo modo que lo hizo Walter Benjamin en su día examinando el París del siglo XIX.
En su artículo Rome archipel fractal, Careri ha escrito: "Hemos escogido el recorrido como una forma de expresión que subraya un lugar trazando físicamente una línea. El hecho de atravesar, instrumento de conocimiento fenomenológico y de interpretación simbólica del territorio, es una forma de lectura psicogeográfica del territorio comparable al walkabout de los aborígenes australianos". Las referencias, por muy implícitas que sean, son suficientemente claras. 
Sin embargo, que nadie se lleve a engaño: ni Stalker ni Francesco Careri son por ello unos neo-situ. Es cierto que Stalker constituye un grupo, pero se trata de un grupo completamente informal, y si Francesco Careri y Lorenzo Romito son sus dos teóricos más productivos, no poseen ningún monopolio sobre el tema. Por lo demás, cada uno de los miembros del grupo sabe muy bien lo que debe a todos los demás, cuya cantidad puede variar entre siete y una veintena de individuos, según el momento. Esta es una diferencia fundamental con respecto a los grupos de vanguardia que jalonan la historia del siglo XX, los cuales reclutaban y excluían alternativamente a sus miembros. En este caso nos encontramos frente a una práctica experimental que va aplicando distintas herramientas teóricas en función de sus necesidades, siempre con un sentido de la oportunidad que le confiere una gran flexibilidad y una considerable movilidad intelectual. Es cierto que en junio de 1992 el grupo redactó un manifiesto . Sin embargo, la lectura del mismo nos puede convencer con bastante rapidez de su carácter no dogmático y de su función esencialmente heurística. Walkscapes es partícipe de este mismo espíritu. Pone en perspectiva una práctica de la cual Stalker quiere ser su continuación, su amplificación, su ajuste y -por qué no- en cierto sentido también el cumplimiento de sus objetivos. Francesco Careri ha puesto a disposición del grupo sus investigaciones históricas pero también su inventiva teórica, al mismo tiempo que propone una nueva lectura de la historia del arte a través de la práctica del andar tal como él la entiende, desde la elevación de los menhires, pasando por Egipto y la Grecia Antigua, hasta los artistas del land art.
Las observaciones antropológicas, filosóficas, sociopolíticas y artísticas que nos ofrece el autor son puestas también al servicio de un propósito de una gran claridad, cuyo objetivo es conducirnos hasta el momento actual, esto es, zonzo, un lugar puramente lingüístico que podemos encontrar en la expresión italiana andare a zonzo, que significa errabundear sin objetivo, tal como lo hacía el paseante de la ciudad del siglo XIX.
Ahora bien, esta expresión es lo que suele llamarse un "sintagma estereotipado", que sólo puede ser concordante con una realidad intemporal. En la actualidad todas las referencias han desaparecido: ya no atravesamos zonzo como lo hacíamos ayer, con la seguridad de que vamos desde el centro hacia la periferia. Hubo un tiempo en que el centro era denso, y las inmediaciones eran cada vez más dispersas. En la actualidad, el centro está formado por una constelación de vacíos.
La idea que cruza todo el libro, y que el autor expone de un modo convincente -poco importa si es históricamente cierta, con tal de que sea operativa- es que, en todas las épocas, el andar ha producido arquitectura y paisaje, y que dicha práctica, casi olvidada por completo por los propios arquitectos, se ha visto reactivada por los poetas, los filósofos y los artistas, precisamente capaces de ver aquello que no existe para hacer surgir algo de ello. Por ejemplo, Emmanuel Hocquard y Michael Palmer, quienes fundaron en 1990 el Museo de la Negatividad, tras haber descubierto un inmenso agujero junto a la autopista del norte, en Francia; o Gordon Matta-Clark, quien en los años setenta se convirtió en comprador de unas minúsculas parcelas de terreno situadas entre edificios casi medianeros, declarando que "en medio del 'espacio negativo' existe un vacío que permite que los componentes puedan ser vistos de un modo móvil, de un modo dinámico". 
Podemos encontrar un inventario de cierta cantidad de actitudes y reflexiones filosóficas como éstas, suscitadas por el andar, en un libro de Bruce Chatwin citado muchas veces por Careri: The songlines, una especie de himno al pensamiento nómada, más que propiamente al nomadismo. Efectivamente, el andar vuelve visibles, al dinamizarlas, unas líneas, los trazos de los cantos (the songlines), que dibujan el territorio aborigen, unas líneas de huida que revientan la pantalla del paisaje en su representación más tradicional, unas 'líneas hechizadas', tal como las llama Deleuze, que arrastran al pensamiento tras el movimiento de las cosas, a lo largo de las vetas dibujadas en el fondo del mar por los trayectos de las ballenas, tan bien descritos por Melville en Moby Dick. 
Ahora bien, el mundo que Careri y sus amigos exploran con predilección es el de las transformaciones urbanas sufridas por lo que en otro tiempo se llamaba 'el campo', y del cual sólo permanece una realidad "horadada" o "apolillada" -el autor utiliza la imagen de la piel de leopardo, "con manchas vacías en la ciudad construida y manchas llenas en medio del campo"-, un conjunto de territorios que pertenecen a los suburbs, una palabra que según Smithson significa literalmente 'ciudad inferior', y que describe como "un abismo circular entre la ciudad y el campo, un lugar donde las construcciones parecen desaparecer ante nuestros ojos, parecen disolverse en una babel o en unos limbos en declive". Ahí -añade-, "el paisaje se borra bajo el efecto de unas expansiones y unas contracciones siderales". 
Esta noción no es -o ya no es-, ni mucho menos, únicamente europea, como lo demuestra la referencia americana a Smithson. Nos recuerda asimismo a John Brinckerhoff Jackson, un gran observador del paisaje, y muy interesado por los trazados y la organización de las carreteras en el territorio americano, demostrando de qué modo, lejos de atravesar tan sólo los paisajes y las aglomeraciones, generaban nuevas formas de espacios donde era posible habitar, creando con ello nuevas formas de sociabilidad. "Las carreteras ya no nos llevan solamente a unos lugares -escribió-, sino que constituyen lugares por ellas mismas".  Así son también los caminos que toma Stalker en sus andanzas por "las partes ocultas de la ciudad", más allá de los grandes ejes de comunicación.
Jackson constató precisamente lo mismo que este grupo de nómadas italianos: la formación de un nuevo paisaje que no se correspondía ni con el de las representaciones clásicas dibujadas por el poder, ni a sus formas "vernaculares", que él observaba con predilección. Este paisaje inédito ha sido creado por las carreteras y por las nuevas formas de movilidad y de transporte de bienes, en otro tiempo almacenados en las casas. Se caracteriza por la movilidad y el cambio, y es en las inmediaciones de estas vías de comunicación donde se producen los encuentros, como también, sin duda, un nuevo tipo de solidaridad. De ese modo, "las iglesias se convierten en discotecas, y las viviendas en iglesias (...). Podemos encontrar espacios vacíos en el corazón mismo de las densas ciudades, e instalaciones industriales en medio del campo (...)". 
Sin embargo, estos intersticios, estos vacíos que Careri observa y que no se encuentran solamente en las inmediaciones de las ciudades sino también en su corazón, están ocupados por una población "marginal" que ha creado unas redes ramificadas e ignoradas por la mayoría, unos lugares desapercibidos puesto que son siempre móviles, y que forman, según dice el autor, una especie de océano en el cual las manzanas de viviendas serían como archipiélagos. Se trata de una imagen eficaz, puesto que es muy indicativa de la indeterminación relativa de los límites suscitados por el andar.
"Marcas" (marches) era el nombre tradicional que se solía dar a los lugares situados en los confines de un territorio, a los bordes de sus fronteras.  Del mismo modo, el andar (marche) designa un límite en movimiento, que en realidad no es más que lo que solemos llamar frontera. Esta va siempre a la par con las franjas, los espacios intermedios, los contornos indefinibles que sólo podemos ver realmente cuando andamos por ellos. El andar pone también de manifiesto las fronteras interiores de la ciudad, y revela las zonas identificándolas. De ahí el bello título de Walkscapes, que define muy bien el poder revelador de esta dinámica, poniendo en movimiento todo el cuerpo -el individual, pero también el social- con el fin de transformar el espíritu de quien a partir de ahora ya sabe mirar. Un propósito como éste conlleva un auténtico posicionamiento "político" -en el sentido primordial de la palabra-, un modo de considerar el arte, el urbanismo y el proyecto social a una distancia igual y suficiente entre ellos, con el fin de dilucidar con eficacia estos vacíos de los que tanta necesidad tenemos para vivir bien.  


A cidade nômade

Com Walkscapes, Francesco Careri faz algo mais que escrever um livro sobre o caminhar entendido como instrumento crítico, como modo óbvio de olhar a paisagem e forma emergente de um certo tipo de arte e de arquitetura. O autor fornece ao grupo Stalker, originariamente composto por jovens estudantes de arquitetura, uma obra que de algum modo enraíza as suas atividades no passado, determina uma sua genealogia em cada caso, à maneira de André Breton, que considerava o surrealismo como uma espécie de cauda de cometa do romantismo alemão, e como fizeram os próprios românticos de Jena na sua revista “Athenaeum”, incorporando para si Chamfort, Cervantes e Shakespeare e declarando-os românticos ante litteram. Ou como Smithson, que no seu último texto sobre o Central Park fazia do seu criador, Frederick Law Olmstead, um progenitor da land art.
Mais que os surrealistas — aos quais, de todo modo, propõe aqui uma oportuna releitura com Nadja e L’amour fou, de Breton, e Le paysan de Paris, de Aragon —, Francesco Careri evoca o movimento Dadá e as suas incursões na cidade de Paris, as suas caminhadas pelos campos franceses.
No entanto, ainda mais próximos de nós, é aos situacionistas que o Stalker pode ser comparado. Os dois grupos compartilham o gosto pela investigação urbana, pela sensibilidade pelas transformações contemporâneas enquanto sintomas característicos de uma sociedade em mutação, por não dizer em “decomposição”. Eles sabem perscrutar o subconsciente da cidade, como à sua época fez Benjamin, assomando-se à Paris do século XIX.
Mas não nos equivoquemos: o Stalker é um grupo de todo informal, no qual cada um dos membros sabe bem o que deve ao conjunto dos demais. Conforme os momentos, o número dos membros varia de sete a vinte. Em janeiro de 1996 , o grupo elaborou; quando é lido, logo se fica convencido do seu caráter não-dogmático e da sua função essencialmente heurística. Walkscapes participa deste espírito. Examina uma prática da qual o Stalker pretende ser a prolongação, a amplificação, o ajustamento e também, por que não, num certo sentido, o fim último. Com este livro, Francesco Careri põe à disposição do grupo as suas pesquisas históricas e também a sua inventividade teórica, propondo-nos uma releitura da história da arte através da prática do caminhar tal como ele a concebe, da edificação dos menires ao longo do Egito e da Grécia antiga até os artistas da land art.
A ideia que perpassa todo o livro e que o autor expõe de modo convincente é que, em todas as épocas, o caminhar tem produzido arquitetura e paisagem, e que esta prática, quase inteiramente esquecida pelos próprios arquitetos, tem sido reabilitada pelos poetas, pelos filósofos e pelos artistas capazes precisamente de ver aquilo que não há, para fazer brotar daí algo. Pense-se, por exemplo, em Emmanuel Hocquard e em Michael Palmer, um poeta francês e um poeta americano, respectivamente, que, em 1990, fundaram o “Musée de la Négativité”, após terem localizado um imenso buraco à beira da estrada do Norte, na França; ou então no artista Gordon Matta-Clark, que, nos anos 1970, adquirira minúsculos lotes de terreno entre edifícios quase contíguos, declarando que “ao longo do ‘espaço negativo’ existe um vazio que permite que os componentes sejam vistos de maneira móvel, de modo dinâmico” .
Pode-se encontrar o inventário de comportamentos análogos e das reflexões filosóficas induzidas pelo caminhar em um livro de Bruce Chatwin, que Francesco Careri cita muitas vezes: Le vie dei canti (Os caminhos dos cantos), uma espécie de hino ao pensamento nômade mais que ao nomadismo. Com efeito, o caminhar permite que se veja dinamizando as linhas, linhas de canções (song lines) que delineiam o território aborígine, linhas de fuga que esburacam a tela da paisagem na sua representação mais tradicional, linhas de bruxas, como diria Deleuze, que arrastam o pensamento atrás do movimento das coisas, ao longo de veios desenhados nas profundidades das águas pelas trajetórias das baleias, tão bem descritas por Melville em Moby Dick.
Mas o mundo que Francesco Careri e seus amigos preferem explorar é o das transformações urbanas sofridas por aquilo que numa época se chamava campo e do qual não resta mais que uma realidade “perfurada” ou “carcomida” — o autor recorre à imagem da pele de leopardo, “com manchas vazias construídas na cidade vazia e manchas cheias bem no meio do campo” —, um conjunto de territórios pertencentes aos suburbs, termo que, como explica Smithson, “significa, literalmente, ‘cidades de baixo’”, por ele descritas como “um abismo circular entre cidade e campo, um lugar em que os edifícios parecem se desvanecer da nossa vista, dissolver-se em babéis ou limbos empinados”. É aqui que “a paisagem se apaga por efeito de expansões e contrações siderais” .
Este conceito não é — aliás, não é mais — exclusivamente europeu, como testemunha a referência americana a Smithson. Pense-se também em John Brinckerhoff Jackson, grande observador e teórico da paisagem, falecido em 1996, que se interessou muito pelo traçado das ruas e pela sua organização no território americano, demonstrando como, longe de atravessar apenas paisagens e aglomerações, elas geravam novas formas de espaços nos quais habitar, criando assim novos tipos de socialidade. “As ruas já não conduzem apenas a lugares, elas mesmas são lugares” , escrevia Jackson. Assim também são os percursos escolhidos pelo Stalker por ocasião das caminhadas “nos sótãos da cidade”, às margens das grandes artérias de comunicação.
Ora, Jackson, mesmo sem o ter inventado, introduziu, como ele próprio afirma, um “novo termo científico” no léxico da paisagem. O termo é “hodologia”, que deriva de hodos, palavra grega que significa estrada, caminho, viagem. Jackson toma-a de empréstimo de um psicólogo experimental, Kurt Lewin, que se serviu dela nos anos 30 para caracterizar o “espaço vivido” em que um indivíduo se situa no seu ambiente. Esse espaço contrapõe-se ao espaço geométrico do mapa ou do plano, ao espaço euclidiano racional homogêneo e mensurável. A hodologia privilegia, com efeito, o caminhar em vez do caminho, o “senso da geografia” antes que o cálculo métrico. Eis por que a abordagem artística é tão importante para compreender o nosso modo de perceber o mundo através dos caminhos que o perpassam, na medida em que enfatizam a dimensão da experiência sensível e afetiva do caminhar . De fato, os homens oscilam sempre entre estas duas dimensões, sejam quais forem as suas práticas.
Jackson recorda-nos que o homem está sempre dividido: enquanto habitante da terra, gosta de estabelecer-se, de fundar, de “fincar raízes”, de imprimir o seu próprio sinal — é aqui que se encontra o significado de Héstia e dos penados —, e a partir desse momento a estrada é uma ameaça que poderia perturbar a ordem estabelecida. Por outro lado, enquanto animal político, guiado por Hermes — deus dos viajantes e dos bandidos, das pedras miliares e das passagens —, tende a deixar a própria família e a própria casa dirigindo-se a lugares mais estimulantes, a fim de experimentar-se e agir. De fato, estamos espremidos por dois desejos: estabelecer-nos em alguma parte, pertencer a um lugar, e encontrar alhures um novo campo de ação. Portanto, ainda não somos tão diferentes dos antigos gregos. “A cidade, onde nos tornamos cidadãos e podemos ser vistos, começa logo depois da nossa porta, lá onde a rua simboliza a vida pública. Se, como acreditavam os gregos, os deuses, nas suas errâncias, criaram as primeiras ruas, então eu me arriscaria a dizer que caminhar sobre as suas pegadas é pietas, e que, em termos políticos, a melhor paisagem, a melhor rua, são aquelas que suscitam um movimento em direção a um escopo socialmente desejado. Mas que seja o hodólogo a decidir isso” . E é importante, porque se também a hodologia é inerente à geografia e à organização do território, ela se refere, de todo modo, em um nível mais profundo, a decisões políticas fundadas sobre um conjunto de escolhas éticas. A questão não é somente técnica, mas também filosófica.
O Stalker bem o sabe e o expressa ao seu modo. Com efeito, Jackson fazia as mesmas constatações feitas pelo grupo dos italianos nômades: o formar-se de uma nova paisagem que não correspondia nem à das representações clássicas, desenhada pelo poder, nem à sua forma “vernacular”, que ele escolhera para indagar. Essa paisagem inédita foi criada pelas ruas e pelos novos hábitos da mobilidade e dos transportes de bens, acumulados dentro das casas em uma época. É uma paisagem caracterizada pela mudança, e é nas contiguidades desses caminhos de comunicação que se realizam os encontros e, sem dúvida, também um novo gênero de mútua ajuda social. Desse modo, tem-se uma série de “igrejas convertidas em discotecas, moradias transformadas em igrejas […] espaços vazios em cidades abarrotadas e fábricas no campo aberto” .
Agora, os interstícios, os vazios que Francesco Careri observa, e que não se encontram apenas às margens da cidade, mas no seu próprio núcleo, são, todavia, ocupadas por populações “marginais” que criaram redes ramificadas, ignoradas por quase todos, lugares despercebidos porque sempre em movimento, que formam, diz o autor, como que um mar cujas ilhotas de moradias seriam os arquipélagos. Trata-se de uma imagem eficaz, por evidenciar bem a indeterminação relativa dos limites suscitados pelo caminhar. O Stalker vem assim a corresponder-se antes àquela figura de hodólogo futuro, com a qual Jackson às vezes sonhava.
Em francês, o termo marche (marca) era atribuído tradicionalmente às regiões situadas nos confins de um território, ao longo das suas fronteiras. Simultaneamente, o mesmo termo marche (neste caso, com a acepção de “marcha”) designa um limite em movimento, que não é senão aquilo que se chama “fronteira” . A fronteira coincide sempre com as desfiaduras, com os espaços intermédios de contornos incertos e que só se podem ver realmente ao percorrê-los. E ainda é o caminhar que manifesta os limites internos da cidade, que desvela a zona, identificando-a. Daí o belo título Walkscapes, que permite que se perceba com eficácia o poder revelador de uma dinâmica que mobiliza todo o corpo — individual, mas também social — para transformar o espírito de quem tiver aprendido a ver e a tornar visível. Um empreendimento assim tem uma real implicação “política” — no sentido próprio do termo —, um modo de situar a arte, a urbanística e o projeto social em igual e suficiente distância um do outro, para lançar luz de modo eficaz àqueles vazios que nos são tão necessários para viver bem.



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