In occasione della conferenza di Gilles A. Tiberghien del 15 marzo al Master Environmental Humanities, pubblico qui la sua prefazione al mio libro Walkscapes, scritta per la prima edizione del 2002. (traduzioni inglese e spagnola in fondo al testo)
La città nomadeCon Walkscapes Francesco Careri fa qualcosa di più che scrivere un libro sul camminare inteso come strumento critico, come modo ovvio di guardare il paesaggio e forma emergente di un certo tipo di arte e di architettura. L’autore fornisce al gruppo Stalker, in origine composto da giovani studenti di architettura, un’opera che in qualche modo ne radica le attività nel passato, ne determina in ogni caso una genealogia, alla maniera di André Breton che considerava il surrealismo come una sorta di coda di cometa del romanticismo tedesco, e come hanno fatto i romantici di Jena stessi nella loro rivista «Athenaeum» annettendosi Chamfort, Cervantes o Shakespeare e dichiarandoli romantici ante litteram. O come anche Smithson, che nel suo ultimo testo su Central Park faceva del suo creatore, Frederick Law Olmstead, un progenitore della land art.
Più che ai surrealisti – dei quali, comunque,
propone qui una opportuna rilettura con Nadja e L’amour fou di Breton, o Le
paysan de Paris di Aragon – è a Dada e alle sue incursioni nella città di
Parigi, alle sue camminate senza meta nella campagna francese, che Francesco
Careri si richiama.
Ma, ancora a noi più vicini, è ai situazionisti che
Stalker può essere paragonato. I due gruppi condividono il gusto per
l’investigazione urbana, la sensibilità per le trasformazioni contemporanee in
quanto sintomi caratteristici di una società in mutazione, per non dire in
«decomposizione». Della città loro sanno scrutare il subconscio, come a suo
tempo ha fatto Benjamin affacciandosi sulla Parigi del xix secolo.
Ma non equivochiamo: Stalker è un gruppo del tutto
informale nel quale ciascuno dei membri sa bene cosa deve all’insieme degli
altri. Il numero dei membri varia, a seconda dei momenti, da sette a venti. Il
gruppo ha elaborato nel gennaio del 19961 un manifesto, ma leggendolo ci si
convince subito del suo carattere non dogmatico e della sua funzione
essenzialmente euristica. Walkscapes partecipa di questo stesso spirito. Prende
in esame una pratica della quale Stalker vuole essere il prolungamento, l’amplificazione,
l’aggiustamento e anche, perché no, in un certo senso, il fine ultimo. Con
questo libro, Francesco Careri mette a disposizione del gruppo le sue ricerche
storiche, ma anche la sua inventività teorica proponendoci una rilettura della
storia dell’arte attraverso la pratica del camminare così come lui la
concepisce, dall’edificazione dei menhir attraverso l’Egitto e la Grecia
antica, fino agli artisti della land art.
L’idea che percorre l’intero libro e che l’autore
espone in modo convincente è che, in ogni tempo, il camminare ha prodotto
architettura e paesaggio, e che questa pratica, quasi del tutto dimenticata
dagli stessi architetti, è stata ripristinata dai poeti, dai filosofi e dagli
artisti, capaci per l’appunto di vedere quello che non c’è per farne scaturire
qualcosa. Si pensi, per esempio, a Emmanuel Hocquard e Michael Palmer, un poeta
francese e un poeta americano, che fondarono nel 1990 il «Musée de la Négativité»
dopo aver individuato una immensa buca sul bordo dell’autostrada del Nord, in
Francia; o all’artista Gordon Matta-Clark che, negli anni ’70, aveva acquistato
minuscole parcelle di terreno tra edifici quasi contigui dichiarando che
«attraverso ‘lo spazio negativo’ esiste un vuoto che permette ai componenti di
essere visti in modo mobile, in modo dinamico»2.
Si può trovare l’inventario di atteggiamenti
analoghi e delle riflessioni filosofiche indotte dal camminare in un libro di
Bruce Chatwin, che Francesco Careri cita spesso: Le vie dei canti, una sorta di
inno al pensiero nomade più che al nomadismo. Il camminare, in effetti,
permette di vedere dinamizzando delle linee, linee di canti (song lines) che
disegnano il territorio aborigeno, linee di fuga che bucano lo schermo del
paesaggio nella sua rappresentazione più tradizionale, linee di streghe, come
direbbe Deleuze, che trascinano il pensiero dietro al movimento delle cose,
lungo vene che disegnano nelle profondità delle acque quei tragitti delle
balene che Melville descrive così bene in Moby Dick.
Ma il mondo che Francesco Careri e i suoi amici
prediligono esplorare è quello delle trasformazioni urbane subite da quella che
un tempo veniva chiamata campagna e della quale non resta più che una realtà
«perforata» o «tarmata» – l’autore ricorre all’immagine della pelle di
leopardo, «con macchie vuote nella città costruita, e macchie piene nel bel
mezzo della campagna» –, un insieme di territori che appartengono ai suburbs,
termine che, come spiega Smithson, «significa letteralmente ‘città di sotto’»,
che lui descrive come «un baratro circolare tra città e campagna, un luogo in
cui gli edifici sembrano svanire dalla nostra vista, dissolversi in babeli o
limbi rampanti». È qui che «il paesaggio si cancella per effetto di espansioni
e contrazioni siderali»3.
Questo concetto non è, e anzi non è più,
esclusivamente europeo, come testimonia il riferimento americano a Smithson. Si
pensi anche a John Brinckerhoff Jackson, grande osservatore e teorico del
paesaggio, morto nel 1996, che si è interessato molto al tracciato delle strade
e alla loro organizzazione sul territorio americano, dimostrando come, lungi
dall’attraversare soltanto paesaggi e agglomerazioni, queste generassero nuove
forme di spazi nei quali abitare creando in tal modo nuovi tipi di socialità.
«Le strade non conducono più soltanto a luoghi, sono esse stesse dei luoghi»4,
scriveva Jackson. Tali sono anche i percorsi che sceglie Stalker in occasione
delle camminate «nelle soffitte della città» ai margini delle grandi arterie di
comunicazione.
Ora, Jackson, pur senza averlo inventato, ha
introdotto, come afferma lui stesso, un «nuovo termine dotto» nel lessico del
paesaggio. Il termine è «odologia», che deriva da hodos, parola greca che
significa strada, cammino, viaggio. Jackson la prende a prestito da uno
psicologo sperimentale, Kurt Lewin, che se ne è servito negli anni ’30 per
caratterizzare lo «spazio vissuto» in cui si situa un individuo nel suo
ambiente. Questo spazio si contrappone allo spazio geometrico della mappa o
della carta, allo spazio euclideo razionale omogeneo e misurabile. L’odologia
privilegia infatti il camminare rispetto al cammino, il «senso della geografia»
piuttosto che il calcolo metrico. Ecco perché l’approccio artistico è così
importante per comprendere il nostro modo di percepire il mondo attraverso le
vie che lo percorrono, nella misura in cui pone l’accento sulla dimensione
dell’esperienza sensibile e affettiva del camminare5. Di fatto, gli uomini
oscillano sempre tra queste due dimensioni, quali che siano le loro pratiche.
Jackson ci ricorda che l’uomo è sempre diviso: in
quanto abitante della terra ama stabilirsi, fondare, «mettere radici»,
imprimere il proprio segno – è qui il significato di Estia e dei penati – e la
strada, da quel momento, è una minaccia che potrebbe turbare l’ordine
stabilito. In quanto animale politico, invece, guidato da Ermes – dio dei
viaggiatori e dei banditi, delle pietre miliari e dei passaggi – tende a
lasciare la propria famiglia e la propria casa volgendosi a luoghi più
stimolanti per cimentarsi e agire. Di fatto, siamo stretti tra due desideri:
stabilirci da qualche parte, appartenere a un luogo, e trovare altrove un nuovo
campo di azione. Dunque non siamo poi ancora tanto diversi dagli antichi Greci.
«La città, dove diventiamo cittadini, e possiamo essere visti, comincia appena
fuori della nostra porta, laddove la strada simboleggia la vita pubblica. Se,
come credevano i Greci, gli dèi nelle loro erranze hanno creato le prime
strade, allora mi spingerei fino a dire che camminare sulle loro tracce è
pietas e che, in termini politici, il paesaggio migliore, la strada migliore,
sono quelli che suscitano un moto verso uno scopo socialmente desiderabile. Ma
di questo decida l’odologo»6. Ed è importante, perché se anche l’odologia è
inerente alla geografia e alla organizzazione del territorio, si riferisce
comunque, a un livello più profondo, a decisioni politiche fondate su di un
insieme di scelte etiche. La questione non è solamente tecnica, ma è anche
filosofica.
Stalker lo sa bene e lo esprime a modo suo. Jackson,
in effetti, faceva le stesse constatazioni fatte dal gruppo degli italiani
nomadi: il formarsi di un nuovo paesaggio che non corrispondeva né a quello
delle rappresentazioni classiche, disegnato dal potere, né alla sua forma
«vernacolare» che lui aveva prescelto di indagare. Questo paesaggio inedito è
creato dalle strade e dalle nuove abitudini della mobilità e dei trasporti di
beni un tempo accumulati all’interno delle case. È un paesaggio caratterizzato
dal cambiamento, ed è nelle contiguità di queste vie di comunicazione che si
realizzano gli incontri e, senza dubbio, anche un nuovo genere di mutuo aiuto
sociale. Si hanno in successione una serie di «chiese convertite in discoteche,
abitazioni trasformate in chiese … spazi vuoti in città gremite e fabbriche in
aperta campagna»7.
Ora, gli interstizi, i vuoti che Francesco Careri
osserva, e che non si trovano soltanto ai margini della città ma nel suo cuore
stesso, sono tuttavia occupati da popolazioni «marginali» che hanno creato reti
ramificate, ignorate quasi da tutti, luoghi non percepiti perché sempre in
movimento, che formano, dice l’autore, come un mare del quale gli isolotti di
abitazioni sarebbero gli arcipelaghi. Si tratta di un’immagine efficace perché
evidenzia bene l’indeterminazione relativa dei limiti suscitati dal camminare.
Stalker viene così a corrispondere piuttosto bene a quella figura di odologo
futuro, di cui succedeva a volte a Jackson di sognare.
In francese il termine marche (marca) veniva tradizionalmente attribuito alle regioni situate ai confini di un territorio, lungo le sue frontiere. Al contempo, lo stesso termine marche (in questo caso, nell’accezione di «marcia») designa un limite in movimento, che di fatto altro non è se non quello che viene chiamato una «frontiera»8. La frontiera coincide sempre con gli sfrangiamenti, con gli spazi intermedi dai contorni incerti e che si possono vedere davvero solo percorrendoli. Ed è ancora il camminare che manifesta i limiti interni della città, che svela la zona identificandola. Da qui il bel titolo Walkscapes, che consente efficacemente di percepire il potere rivelatore di una dinamica che mobilizza tutto il corpo – individuale, ma anche sociale – per trasformare lo spirito di chi abbia imparato a vedere e a rendere visibile. Una simile impresa ha una reale implicazione «politica» – nel senso proprio del termine –, un modo di porre l’arte, l’urbanistica e il progetto sociale a pari e sufficiente distanza l’uno dall’altro, per mettere in luce in modo efficace quei vuoti che ci sono così necessari per vivere bene.
Note
1 Ripubblicato in francese e in italiano in
Stalker attraverso i territori attuali / à travers les territoires actuels, con
un testo di Guy Tortosa, Jean-Michel Place, Paris 2000. Riguardo al primo
percorso di Stalker vedi anche f. careri, Rome archipel fractal, voyage dans
les combles de la ville, in «Techniques & Architecture», 427 (1996), pp.
84-87; l. romito, Stalker, in p. lang (a cura di), Suburban Discipline,
Princeton Architectural Press, New York 1997, pp. 130-41; g. a. tiberghien, La vraie
légende de Stalker in Stalker, catalogo della mostra (Bordeaux, CAPC, Musée
d’art contemporain), Fage, Lyon 2004, pubblicato anche in forma ridotta in
«Vacarme», 28 (estate 2004). Siti
web: www.stalkerlab.it e www.osservatorionomade.net.
2 e.
hocquard, Taches Blanches, in Ma Haie. Un privé à Tanger II, P.O.L., Paris
2001; Gordon Matta-Clark, Rmn Éditions, Marseille 1993, p. 314.
3 r.
smithson, A Museum of Language in the vicinity of art, in The Writings of
Robert Smithson, a cura di N. Holt, New York University Press, 1979, pp. 74-76.
4 j. b.
jackson, A Sense of Place, a Sense of Time, Yale University Press, New Haven
1994, p. 190.
5 Cfr. su questo punto t. davila, Marcher,
créer. Déplacements, flâneries,
dérives dans l’art de la fin du xxe siècle, Éditions du Regard, Paris 2003, che
propone una riflessione originale su quello che lui definisce «la cineplastica
nell’arte».
6 j. b.
jackson, Discovering the Vernacular Landscape, Yale University Press, New Haven
1984, p. 27. Per un maggiore approfondimento della questione si
veda g.-a. tiberghien, Hodologique e i testi di J.-M. Besse che lo corredano in
aa.vv., Cheminements, «Les Carnets du Paysage», 11, Actes-Sud/Ensp, Paris 2004.
7 jackson, Discovering cit., p. 154. Questo
testo può essere messo in relazione con quanto scrive Francesco Careri:
«Abbiamo visitato chiese che sembravano capannoni industriali, fabbriche
abbandonate che sembravano cattedrali in rovina, rovine romane nello stato in
cui le avevano viste Goethe, Poussin e Piranesi, spazi indefiniti nei quali si
aggiravano i personaggi di Fellini e di Pasolini»: Careri, Rome cit., p. 85.
8 Al riguardo cfr. p. zanini, Significati del
confine, Bruno Mondadori, Milano 1997.
Nomad City
In Walkscapes, Francesco Careri does more than write a book on walking considered as a critical tool, an obvious way of looking at landscape, and as a form of emergence of a certain kind of art and architecture. Into the bargain he gives the Stalker group, originally made up of young student architects, a work that partly roots its activities in the past, gives it a genealogy in any event, as did André Breton when he considered Surrealism historically as a sort of comet’s tail of German Romanticism, and as did the Jena Romantics themselves in their review the Athenaeüm by annexing Chamfort, Cervantes or Shakespeare and declaring them to be premature Romantics. Or then again like Smithson in his text on Central Park, making its creator, Frederick Law Olmstead, an ancestor of Land Art.
More than the Surrealists –whom he nonetheless opportunely rereads here via André Breton’s Nadja and Mad Love, or Louis Aragon’s Paris Peasant–, it is Dada and its outings in the capital, its random wanderings through the French countryside, that Francesco Careri claims kinship with. Nearer still to our own time, it’s the Situationists that the Stalkers can be compared to. The two groups share a taste for urban investigation, and a sensitivity to contemporary change as being symptomatic of a society in a state of mutation, not to say “decomposition”. They know how to scrutinize the unconscious of the city, as Benjamin once did in studying 19th-century Paris.
When Francesco Careri writes in “Rome archipel fractal” that “We’ve chosen the trajectory as a form of expression which accentuates a place by physically tracing a line through it. The act of traversal, an instrument of phenomenological knowledge and symbolic interpretation of the territory, is a form of psychogeographical reading of it comparable to the ‘walkabout’ of the Australian aborigenes,” the references, be they implicit, are clear.
But make no mistake about it: neither the Stalkers nor Francesco Careri are neo-Situationists. Stalker is a group, to be sure, but a completely informal one, and if Francesco Careri and Lorenzo Romito are its two most prolific theoreticians they have no final say in the matter. Furthermore, each member of the group knows what he or she owes to the others in the collective, the number of which varies momentarily between seven and twenty individuals. This is its fundamental difference with the avant-garde groups that sprang up in the 20th century, alternatively enrolling and excluding their members. We are faced, here, with an experimental praxis that avails itself of theoretical tools when and as they are needed, and always with a sense of appropriateness, something which gives it great suppleness and considerable intellectual mobility. Indeed, the group launched a manifesto in January 1996, but reading it quickly convinces us of its non-dogmatic quality and its essentially heuristic function. Walkscapes partakes of this same spirit. It gives point to a practice of which Stalker seeks to be the prolongation, the amplification, the adjustment, and –why not?– also the culmination, in a sense. Francesco Careri puts his researches, and also his theoretical inventiveness, at the disposition of the group. At the same time he offers us a rereading of the history of art in terms of the practice of walking (such as he conceives of it), from the erection of the menhirs, through Egypt and Ancient Greece, up to the protagonists of Land Art.
The anthropological, philosophic, sociopolitical and artistic insights the author presents us with serve, at any one moment, a discourse of great lucidity, the ambition of which is to bring us up to today, to Zonzo, that purely linguistic place encountered in the expression andare a Zonzo, and which means drifting without a goal, as did the walker in the 19th-century city.
Such an expression is what’s called a “fixed syntagm”, one which may only conform to a timeless reality. Today the landmarks have disappeared: one no longer traverses Zonzo as before, with the guarantee of going from the center to the periphery. There was a time when the center was dense and the outskirts of the city increasingly dispersed; right now the center is riddled with empty spaces.
The idea suffusing the book as a whole, and which the author convincingly describes–and what does it matter if it’s historically correct or not, as long as it’s operative–, is that walking has always generated architecture and landscape, and that this practice, all but totally forgotten by architects themselves, has been reactivated by poets, philosophers and artists capable of seeing precisely what is not there, in order to make “something” be there. Hence, for instance, Emmanuel Hocquard and Michael Palmer, who in 1990 founded the Museum of Negativity after having spotted an immense hole beside the Autoroute du Nord in France. Or Gordon Matta-Clark, who in the 1970s bought up tiny bits of land in between almost touching buildings, and who declared that “through the ‘negative space’ a void exists so that the ‘ingredients can be seen in a moving way or a dynamic way’.”
We find the inventory of a certain number of these attitudes, and the philosophical reflections elicited by walking, in a Bruce Chatwin book Careri often cites, The Songlines, a sort of paean to nomad thinking, more than to nomadism itself, it has to be said. By dynamizing them, the act of walking in fact makes the songlines crisscrossing Aborigine territory visible, those perspective lines which cleave the screen of the landscape in its most traditional representation, “witch lines,” as Deleuze would say, that sweep thought along in the wake of the movement of things, along the veins the passing whales delineate at the bottom of the sea, described so well by Melville in Moby–Dick.
But the world Careri and his friends elect to explore is that of the urban changes wrought to what used to be called the countryside, and of which nothing more remains than a “holed” or “moth-eaten” reality –the author utilizes the image of a leopard skin “with empty spots in the built city and full spots in the heart of the countryside”–, a group of territories belonging to the suburbs, a word that, as Smithson explains, “literally means ‘city below’,” and which he describes as “a circular abyss between town and country, a place where buildings seem to sink away from one’s vision or buildings fall back into sprawling babels or limbos.” There, he adds, “the landscape is effaced into sidereal expanses and contractions.”
This notion is not –or no longer is– uniquely European: far from it, as the reference to Smithson demonstrates. One also thinks of John Brinckerhoff Jackson, a great observer of landscape, who was extremely interested in the traces and organization of roads across American territory, showing how, far from just traversing landscapes and built-up areas, they engendered new forms of inhabitable space, thus creating new kinds of sociability. “Roads no longer merely lead to places,” he wrote, “they are places.” And so are the paths the Stalkers follow during their walks through “the city limits”, far from the main communication routes. As it is, Jackson observed exactly the same thing as the group of Italian nomads: the formation of a new landscape that didn’t correspond to either the one in the classical representations power had described or to their “vernacular” form, which is what he preferred to scrutinize. This unprecedented landscape is created by roads, new habits of mobility and the transporting of goods previously stockpiled at home. It is characterized by mobility and change, and it is on the approaches to these thoroughfares that encounters, as well as an indubitably new type of mutual aid, occur. Thus, “churches used as discothèques, dwellings used as churches […] one encounters empty spaces in the very heart of dense cities and industrial installations in the middle of the countryside.”
The interstices and voids Careri observes, and which aren’t just on the outskirts of the city but in its very center, are nevertheless occupied by “marginal” populations who have invented branching systems that are largely unknown, unnoticed places that, because they are always shifting, come together, the author says, like a sea whose islets of dwellings would be the archipelagos. This image is a good one, since it illustrates the relative indeterminacy of these limits incurred by walking.
The “marches” was the name traditionally given to territories situated at the confines of a territory, at the edges of its borders. Walking [la marche] also designates a shifting limit, which is nothing other, in fact, than what’s called a frontier. The latter always goes hand in hand with fringes, intermediary spaces, with undeterminable contours that can only really be made out when travelling through them. It’s walking, too, which makes the internal frontiers of the city evident; which, by identifying it, reveals the zone. Whence the beautiful title Walkscape, which stresses the revelatory power of this dynamism mobilizing the entire body –social as well as individual–, in order to then transform the mind of he who knows how to look. Such an enterprise has a genuine “political” stake—in the primal sense of the word—a way of keeping art, urbanism and the social project at an equal, and sufficient, distance from each other in order to effectively illuminate these empty spaces we have such need of to live well.
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