Sul camminare e il Corso di Arti Civiche
(intervista di Serena Savelli a Francesco Careri, in occasione della Tavola Rotonda walk the landscape.
Facoltà di Architettura, Università La Sapienza, 31 gennaio 2011)
S. Savelli: Nel celebre articolo “La sindrome suburbana” in Lotus Navigator n. 8 Rebecca Solnit scrive che “ la libertà del camminare vale poco se non si ha un luogo dove andare”. Poi prosegue ricordando che “camminare ha avuto la sua età dell'oro che è iniziata a fine '700 e culminata nel '900 quando nordamericani ed europei si davano appuntamento per passeggiare” e le passeggiate avevano una loro sacralità. Questa età dell'oro finisce , secondo l'autrice, nel 1970 anno in cui negli States la maggior parte degli abitanti inizia a concentrarsi nei sobborghi residenziali privi delle glorie naturali come delle gioie civiche degli spazi abitativi di storia più antica (il corso nel quale molte delle popolazioni del Mediterraneo praticano lo “ struscio”). I sobborghi residenziali sono costruiti a misura di automobile, senza marciapiedi e si propagano ad un ritmo a cui il corpo umano non riesce a far fronte. Ciò, per l'autrice è segno evidente che “la fine del camminare sia stata intenzionalmente progettata”. In queste espansioni urbanistiche non ci si aspetta più che le persone camminino ed infatti raramente lo fanno perché vengono offerti spazi monotoni, oltre che pericolosi, per passeggiare a 4 km/h anzi che a 90. Spazi dove il frazionamento urbanistico per chi cammina può risultare ripetitivo fino allo stordimento. E' possibile che la gente decida di mettersi in cammino verso Santiago, Roma, Gerusalemme anche perché nelle città non si può più camminare?(... è una provocazione so che voi lo fate ...)
F. Careri: Forse ha ragione la Solnit nel dire che la fine del camminare è stata “intenzionalmente progettata”, ma è altrettanto vero che ogni progetto porta con sé i suoi anticorpi, e che quando si vuole creare ordine non si po’ che generare disordine tutto intorno. È per questo che nelle città si può camminare benissimo, basta volerlo e “se si hanno dei luoghi dove andare” - come dice la Solnit - poiché lo spazio non è omogeneo, ed è importante capire che cosa ci interessa, su cosa vogliamo andare ad inciampare. Il problema non è infatti poter camminare per via del Babbuino nel centro turistico di Roma o nei marciapiedi di un suburbio americano, ma piuttosto camminare per andare a conoscere tipi di spazio altri, luoghi inediti e che ti fanno nascere delle domande diverse da quelle che ci siamo fatti fin ora... il camminare è innanzitutto una forma di conoscenza. Le città, tutte le città, sono un enorme contenitore di luoghi da camminare per conoscere. E' pieno. Se uno capisce dove vuole inciampare. Se uno capisce cos'è che non gli torna, dov'è che si ha colto qualcosa che non si è riusciti a riconoscere e che però ritorna in mente, stimola la curiosità a ricercarlo. La difficoltà sta tutta lì: scegliere dove andare. E anche sapendo dove, poi bisogna saper lasciare molto al caso. Sapere cosa si sta cercando ma non andare dritti là. Sapere osservare in modo strabico: con un occhio si punta ad un luogo perché è quello che ci interessa ma, mentre lo si insegue, con l'altro occhio ci si guarda in giro, si cerca di scoprire indizi dai quali lasciarsi dirottare. Il progetto, anche il solo progetto del dove camminare, deve essere disponibile al territorio: se nella tua direzione trovi un muro insormontabile e intravedi che lì vicino c'è un buco nella rete, è bene infilarsi di là, dove di solito si scopre che ci sono cose anche più inaspettate di quelle che immaginavi dietro il muro. Si lo so, sembra che sto filosofeggiando metaforicamente, ma in realtà è tutta pratica.
Volevo invece ricollegarmi a quanto diceva prima Raffaele Milani, in particolare sui pellegrinaggi e l’aspetto sacro. Io nel libro Walkscapes ho saltato tutta la storia che va dai menhir fino a Dada, ossia la storia del camminare religioso, perché sapevo che là si apriva una dimensione teologica e concetti che mi erano un decisamente lontani. Sto cominciando ad avvicinarmi adesso, attraverso il tema dell’incontro, che pocanzi menzionava Milani citando Marc Augè: il camminare come incontro con l’altro e con il diverso. Siamo sempre all’interno del camminare come conoscenza, ma c’è dell’altro, c’è un aspetto etico, di comportamento sociale, di costruzione di uno spazio di relazione tra diversi. Le mie ultime camminate non sono più il perdersi in città per il piacere estetico del paesaggio entropico ma soprattutto per incontrare storie, persone, per conoscere chi abita e trasforma i luoghi, e se possibile, per fermarmi e trasformarli con loro. Negli ultimi dieci anni in realtà mi ha sempre più interessato incontrare gli abitanti che i luoghi.
Il camminare e l’incontro sono uno dei primi temi su cui si sofferma la nostra religione giudaico cristiana. All’inizio della Genesi che cito nel libro Walkscapes (un brano citato da chiunque si occupi del camminare) Caino uccide Abele, o meglio l'agricoltore Caino uccide il pastore nomade Abele che probabilmente aveva sconfinato nei campi agricoli recintati dal proprietario Caino. Questo brano ci dice moltissime cose, anche in proposito al camminare come mezzo di incontro verso l'altro. Quando Dio punisce Caino, lo manda per punizione ad errare nel deserto di Nod (ecco l’erranza come errore e come punizione). Ma Caino, in modo quasi inaspettato, in risposta alla punizione divina ha un sola cosa da dire: lui nel deserto ha paura di incontrare l'altro, il diverso, teme che questi lo ucciderà. Nella Bibbia si dice che Dio allora dà a Caino un segno che servirà a proteggerlo. Un marchio? Il marchio di Caino? Ho cominciato a studiare e mi sembra che questo segno non si ritrovi nell'iconografia di Caino. Sono arrivato a pensare che il Signore non ha dato propriamente un segno a Caino, ma ha insegnato a Caino qualcosa non sapeva fare. Dio ha insegnato a Caino a salutare, ad andare verso l'altro. E credo di poter dire che questo saluto è quello che si ritrova in uno dei più antichi simboli della preistoria, il simbolo del Ka (che poi è anche alla radice del nome Kaino) il simbolo dell'eterna erranza che dal paleolitico arriva ai geroglifici egiziani. Il segno del Ka si compone di due braccia alzate che ti vengono incontro. L’erranza è quindi legata all’incontro e al saluto. E camminare salutando permette di andare incontro all'altro, non più di ucciderlo come Caino aveva appena fatto con suo fratello, ma mostrare all’altro che hai le mani vuote, che sei senz'armi, sei inoffensivo e ti accingi ad abbracciarlo. Nella Bibbia comprendiamo che questo primo rivoluzionario atto di pace è legato al camminare. Riassumendo quindi è camminando che si è costruito lo spazio intorno a noi e che si sono riconosciuti i luoghi, è perdendosi in spazi inesplorati che si sono dati i nomi ai luoghi e si è costruita la geografia, ed è sempre camminando è nato il saper costruire una relazione diversa e non belligerante con il diverso.
Per tornare alla domanda iniziale ed al fatto che la città si possa o meno camminare, dunque la risposta è si, e soprattutto si deve camminare proprio laddove non si credeva di poterlo fare, perché camminando si vincono paure e i pregiudizi, si costruisce una comunità non identitaria ma meticcia, uno spazio tra diversi, le regole della città.
S. Savelli: Secondo una delle tesi sostenute in Walkscapes all'atto del camminare è conferita la paternità del paesaggio come prodotto culturale: “è' camminando che l'uomo ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo circondava […] modificando i significati dello spazio attraversato, il percorso è stato la prima azione estetica che ha penetrato i territori del caos costruendovi un nuovo ordine sul quale si è sviluppata l'architettura degli oggetti situati (in primis il menhir). Camminare ha portato in grembo il menhir, la scultura, l'architettura ed il paesaggio. Adesso che il paesaggio è tutto umanizzato e che quindi non può più essere costruito ex novo camminando ed attribuendogli significati, quale valenza può assumere il camminarci attraverso? Si può ancora applicare al paesaggio la metodologia d'indagine sperimentata per le transurbanze e riempirlo di significato?
Voi Stalker non sembrate provare timore di quello stordimento che, nello sprawl, prova il pedone. Anzi proprio tra i sobborghi inframezzati da quel sistema di spazi vuoti (il rimosso, l'inconscio della città, il suo arcipelago) individuate il territorio d'elezione per le vostre transurbanze. Un territorio che, citando Walkscapes, avete percorso “andando alla deriva tentando la lettura della città attuale dal punto di vista dell'erranza ed indicando il camminare come uno strumento estetico in grado di descrivere e modificare quegli spazi metropolitani che presentano una natura che deve essere compresa e riempita di significati piuttosto che progettata e riempita di cose”. Adesso che il paesaggio è tutto umanizzato e che quindi non può più essere costruito ex novo camminando ed attribuendogli significati, quale valenza può assumere il camminarci attraverso? Si può ancora applicare al paesaggio la metodologia d'indagine sperimentata per le transurbanze e riempirlo di significato?Quali risultati avete ottenuto?
F. Careri: Bellissima domanda: me lo chiedo continuamente. Spesso sono portato a rispondermi negativamente, mi vedo come un involontario strumento di gentrificazione. Penso che dopo il nostro passaggio arrivano sempre le ruspe e i bulldozer, perche questo è anche successo. Ma mi dico anche che noi più semplicemente arriviamo prima dei bulldozer, raccontiamo realtà che sarebbero scomparse comunque, riusciamo a far parlare i territori in momenti cruciali del loro continuo divenire altro, a testimoniare il passaggio da uno stato all’altro, ad attraversare l’Attuale. Sicuramente fino ad oggi non siamo riusciti a bloccare i bulldozer, ma questo non vuol dire che siamo stati inefficaci e comunque ad una macroscala mi sembra che nessuno sia riuscito a bloccare l’economia speculativa della globalizzazione, che poi è la stessa che manda le ruspe. Io mi rispondo che abbiamo prodotto una importante conoscenza... forse non è un risultato spendibile su molti mercati... e abbiamo anche indicato modalità di azione e relazione con il territorio e con l’altro, che sono assolutamente innovative e diverse da quello che urbanisti architetti e amministratori utilizzano, con risultati non poi molto più positivi dei nostri, anzi spesso le ruspe sono proprio loro a mandarle.
Quando ho cominciato a insegnare, ho proposto di fare un corso intermante peripatetico alla Facoltà di Roma Tre. Non ho un aula perché il corso è interamente in città, si cammina un giorno a settimana. Nel Corso di Arti Civiche ho cercato di capire se quello di stalker è un tipo di conoscenza trasmissibile, o meglio una modalità che si può insegnare. E devo dire che con gli studenti ho ottenuto molti risultati su diversi fronti. Non solo una conoscenza più approfondita dei fenomeni urbani e un allargamento delle loro mappe mentali, ma anche un cambiamento più profondo nei comportamenti tra loro e lo spazio cittadino. Molto spesso mi sembra di risvegliarli, di regalargli un momento non funzionale, è una sorta di ricreazione. Gli studenti, nel momento in cui gli regali o meglio gli ricordi della loro una libertà innata e che a volte hanno conosciuto in altri momenti della vita, cominciano a cambiare. Gli ricordi che possono scavalcare, andare ovunque vogliano, che lo spazio è a loro disposizione. Allora imparano che non devono temere il territorio e che con le persone che incontriamo - anche se sono rom, baraccati, clandestini e hanno vite difficili, anzi soprattutto per questo - ci si può fermare a prendere un caffè. Che si possono imparare da loro molte cose impossibili da apprendere in altri modi, non in un libro, non alla televisione e neanche in internet. Insomma vedo che gli studenti dopo qualche lezione cominciano a relazionarsi meglio con gli altri e con lo spazio intorno a loro, imparano a sapere dove si può osare e dove no, ad allargare i limiti, ad appropriarsi di territori, di spazi, modalità, e cominciano a manifestare comportamenti e attitudini che prima non avevano. A proposito di questo vi racconto questa cosa, che mi ha fatto particolarmente piacere. Alla fine di un esame, dopo aver già dato i voti, ho chiesto agli studenti quali fossero per loro i risultati del corso, ossia qual’era la cosa che gli è “tornata” dal mio corso, cosa si erano messi in tasca. Mi aspettavo risposte sulla città, l’acquisizione di nuove geografie… ma invece una ragazza mi ha risposto che aveva riscoperto “il parlare con gli altri”. Era una ragazza aperta, attiva politicamente, e che non mi sembrava né timida né con pregiudizi. Però ha detto che prima, quando ad un centro sociale o ad una festa, le si avvicinava un migrante aveva qualche imbarazzo a parlare, sentiva una differenza sociale, un tabù, non sapeva come iniziare, che argomenti affrontare. Adesso attraverso il corso aveva superato tutto questo, aveva imparato a riconoscere i suoi pregiudizi - che comunque ci sono sempre - ed aveva riconquistato una naturalezza, una propria capacità relazionale. Aveva imparato ad incontrare l’altro. Ecco questo non mi sembra che lo insegni più nessuno, mentre credo che serva molto e non solo agli architetti e agli urbanisti, ma la formazione di cittadini, di qui il civiche del titolo del corso. Ma quello che mi interessa è insegnare un approccio artistico, le arti. E qui mi riallaccio alle mani alzate del Ka, alla non belligeranza e al salutare non offensivo di Caino. L’arte di solito non fa paura né agli abitanti né al potere. L’artista viene accolto come un personaggio innocuo, un po’ folle, forse inutile, senza potere, senza capacità progettuale. E questa è la sua più grande forza. Di qui la capacità dell’azione artistica di scandagliare la realtà in modo indiretto, laterale, ludico, non utilitario. L’arte civica ha la capacità di cogliere la realtà di sorpresa, di inciampare in territori inesplorati, di suscitare nuovi interrogativi, di cogliere nuovi fenomeni, e anche di indurre trasformazioni immateriali, a volte più importanti e durature di quelle materiali.
S.Savelli: Lei ci ha spiegato come i menhir di epoca paleolitica hanno funzionato come sistema di orientamento territoriale, hanno funzionato come una guida scolpita nel paesaggio che conduceva a destinazione il viaggiatore, portandolo da un segnale all'altro lungo le rotte intercontinentali. In epoca medievale lungo le viae peregrinales un equivalente di questi sistemi segnaletici è stato costituito dai programmi iconologici, che furono imprescindibili supporti di ogni pellgrinaggio. Essi si costituivano di tracce e rimandi continui alla meta finale ed agli altre viae peregrinales. E servivano da sistema di orientamento e da supporto motivazionale (facevano sentire l'immanente presenza di Dio lungo il percorso e la sua protezione). Erano labirinti gerosolimitani scolpiti nelle chiese, affreschi (come quello della grancia di Cuna che rimanda al miracolo di S. Domino della Calzada). Architetture (il tema dell'ottagono caro all'esegesi cristiana e rimandante al S. sepolcro) ed altri eventi artistici. La Via, come del Cammino, oggi sono essenzialmente fatti di segnali che ne costituiscono la principale infrastruttura fisica. Questi segnali assumono funzione analoga al menhir ed al labirinto, e vanno dai loghi ben riusciti come la concha del Camino, alle frecce disegnate con pennello e vernice, agli stancil, fino ai paradossali cartelli stradali indicanti la direzione della Via. Lei ha indagato le varie forme ed i vari esponenti che hanno fatto del percorso un'opera d'arte. In un approccio architettonico alla riqualificazione di un itinerario culturale inteso come infrastruttura come vedrebbe l'integrazione di questi sistemi di segnali con una sequenza di eventi architettonici ed artistici disseminati lungo il percorso? Ovvero come vedrebbe la sovrapposizione al percorso di una sorta di parco artistico lineare che funga da sequenza orientativa di tracce e riferimenti? Secondo Lei potrebbero tali itinerari costituire un terreno di prova per quell'espansione di campo che l'arte ha già praticato e che anche l'architettura, secondo Lei, può fare nel percorso?
F. Careri: Sono temi molto delicati che richiedono molto tempo e ne è rimasto poco. Quello di lasciare delle tracce per fare in modo che qualcun altro possa ripetere il tuo percorso, come la concha di Santiago, è uno degli infiniti modi possibili. Maquello che mi preme dire è che c'è sempre il rischio del consumo, anche gli sguadi consumano, anche i soli passi. Il turismo è il male del secolo e ovunque c’è sempre il rischio di banalizzare lo spazio che faticosamente hai scoperto e che, nel momento in cui ci metti il cartello, lo hai necessariamente perduto. Tu proponi per esempio di fare un parco lineare sul cammino, ma in questo modo lo avrai trasformato, non sarà più quello che hai incontrato. C'è da chiedersi quindi lascio delle tracce permanenti? Oppure lascio delle tracce evanescenti che scompaiono alla prima pioggia? Io personalmente provo il piacere a lasciare tracce. Le lascio, spesso: con piccole azioni e performance... però di qui a fare un progetto di un parco lineare fatto di tracce progettate... non lo so… io alla fine ad oggi non l'ho mai fatto, dovrei avere una commessa... per approcciarmi in modo concreto. E' un crinale molto difficile, ma non mi sento di dire che non si debba fare, su questo sono sempre aperto e disponibile al progetto e alla trasformazione. Oggi ci son molti strumenti che ti permettono di lasciare tracce immateriali... basti pensare a google maps, o agli smart phone con cui vai in giro e capti segnali georeferenziati, fai l'esperienza in un paesaggio vergine e nudo senza informazioni fisiche ma su cui invece puoi avere migliaia di informazioni invisibili... (e ti riservi il diritto di spegnere il telefono, rendere le tracce completamente invisibili per finalmente poter andare ad inciampare). Quello che mi attrae ultimamente è proprio esplorare la dimensione della scrittura di queste tracce immateriali sul territorio. Credo che questa sia una nuova frontiera dell’architettura dell’andare.
Nessun commento:
Posta un commento