Mappe
(appunti per un articolo incompiuto da pubblicarsi su un numero della rivista "lo Squaderno" nel 2010)
“Anche gli sguardi consumano”. Me lo dice Guy Tortosa più di dieci anni fa quando gli racconto che il giardino illegale di “vivilerive – al Quantara”, che avevamo inventato sulla riva del Tevere nelle estati del ‘93 e ‘94, dopo il nostro intervento era diventato un banale giardinetto con la pista ciclabile, le panchine e la staccionata in legno stile soprintendenza. È la prima grossa contraddizione che si trova ad affrontare quel gruppo di studenti che in seguito darà il via al progetto Stalker: la trasformazione del territorio non si attua solo disegnando una linea su un foglio, ma anche semplicemente indicando un luogo, nel svelarlo alla città, nel convogliare lì dei corpi e degli sguardi. Quella prima azione territoriale che intendeva “assecondare e di amplificare quel processo di metabolizzazione, a volte di vera e propria mutazione, che sta portando la natura, almeno in quel luogo, ad aver ragione della battaglia ingaggiata con gli scarti dell'uomo, più attenti ad ascoltarne i clamori che non ad imporre l'esito”, e che aveva svelato ai cittadini l’esistenza sotto le loro case di un luogo naturale e incantevole perché in stato di abbandono, si era trasformata dopo una raccolta di firme in un giardinetto omologato al resto della città, perdendo tutte le qualità per cui quel luogo aveva attratto la nostra fantasia. Credo che sia questa la ragione per cui le mappe successive di Stalker sono state realizzate con un alto grado di imprecisione: facevano i conti la volontà di raccontare i luoghi e le nostre azioni - le foto e i video erano già la dimostrazione che “quei luoghi” di cui parlavamo esistevano davvero -, ma anche con la consapevolezza che se volevamo perpetuarne l’abbandono, ossia “il massimo grado di cura”, non dovevamo essere precisi sul “dove” quei luoghi si trovavano, ci avremmo portato solo sguardi fidati, capaci di non consumare.
Nel 2007 siamo di nuovo sul Tevere con “sui letti del fiume”, un’ azione che va a conoscere e raccontare il nuovo fenomeno delle baraccopoli spontanee sorte sulle rive. Da subito, dai primo incontri che facciamo, ci rendiamo conto del pericolo che la nostra mappatura possa trasformarsi in denuncia non del fenomeno ma degli stessi baraccati. Camminando in gruppi lungo i due argini incontriamo una grande quantità di persone, circa duemila. Sono persone molto diverse tra loro, ci sono rom di varia provenienza, moltissimi rumeni non rom, e poi moldavi, ucraini, polacchi, austriaci, italiani, tutte persone che in molti casi hanno un lavoro, ma che non possono permettersi un affitto e sono dunque costrette a vivere nascosti tra i canneti del fiume. Spesso siamo le prime persone che vedono. Ancora non sono passati né gli assistenti sociali, né un servizio medico-sanitario, né i giornalisti, solo in alcuni casi le baracche sono state demolite dalla polizia, ma poi – ci dicono - sono state ricostruite negli stessi posti, in alcuni casi l’unica preoccupazione dell’amministrazione (c’era ancora giunta Veltroni), è quello di chiudergli le fontanelle più vicine, cacciarli prendendoli per sete, cercare comunque di nascondere il fenomeno ai media e ai cittadini. L’unico che ne parla è stato Berlusconi che per attaccare Veltroni già a settembre 2006 dice che a Roma ci sono diecimila baraccati
Ci è subito chiaro che dobbiamo raccontare quello che stiamo vedendo, non per confermare le parole del premier, ma perché non possiamo permettere che succeda tutto questo, e soprattutto che il sindaco e l’intera sinistra neghi le sue responsabilità dopo sedici anni di latitanza sul problema casa. Siamo altrettanto consapevoli del fatto che non si devono fare mappe, che non si deve essere precisi sulla localizzazione degli insediamenti, e così faremo. Ma il fenomeno è così evidente ed è incredibilmente facile trovarle, basta scendere sugli argini e vedere dove portano i sentieri che si inoltrano nella macchia.
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