Learning from Corviale
Francesco Careri
10 November 2015, 18:30Auditorium De Molen
Kasteelpark Arenberg 1, 3001 Leuven, Belgio
Master of Architecture and Human Settlements (MaHS)Master of Urbanism and Strategic Planning (MaUSP)Department of Architecture, KU Leuven.
Learning from Corviale
di Francesco
Careri, 2006, in “Osservatorio Nomade. Immaginare Corviale. Pratiche estetiche per la città contemporanea”, a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Flaminia Gennari, Bruno Mondadori, Milano, pp. 80-99
Corviale
è il simbolo di tanti quartieri modello abbandonati prima dagli architetti che
li avevano immaginati, poi dalle amministrazioni che avrebbero dovuto gestirli
e infine dalla città che ha voltato la faccia per non guardarli. Territori
lasciati all’auto-organizzazione degli abitanti, agli assistenti sociali, alle
strumentalizzazioni dei partiti e al controllo delle questure, dove il potere pubblico
ha prodotto più danni che soluzioni e più promesse che fatti.
È proprio in
questi luoghi che l’arte pubblica e la ricerca sperimentale possono svolgere un
importante ruolo di mediazione tra abitanti e amministrazione. Qui l’arte, forse
a causa di una supposta innocenza e inutilità, permette di sospendere le ordinarie
procedure urbanistiche e le astratte attitudini degli studi professionali, per
lasciare il campo a inedite modalità di intervento a cavallo tra arte e architettura,
tra antropologia e urbanistica, tra geografia e politica. Questi luoghi nati
dal determinismo del progetto moderno mettono oggi in crisi la nozione stessa
di progetto, implorano di rinnovare il senso della parola urbanistica, invitano
l’arte alla disponibilità e all’ascolto, spingono l’architettura ad essere attitudine
prima di tradursi in forma. Immaginare Corviale ha mostrato come, attraverso
l’arte pubblica, le amministrazioni possono riuscire ad affrontare luoghi
difficili, come le università possono affrontare temi più che mai centrali per
la cultura, come le discipline urbane e le ricerche artistiche possono
incrociarsi con la formazione e sperimentarsi nel vivo della città, lontano da
aule, laboratori e dipartimenti.
La
Corviale UniverCity è una struttura di formazione messa in campo
dall’Università Nomade per indagare la realtà fisica dell’edificio, per
raccontarla e per fornire proposte, visioni e progetti aperti alla condivisione
con gli abitanti. Ha funzionato attraverso diversi workshop e ha avuto come
sede e come insegnante principale Corviale stesso. Il suo ruolo è stato quello
di strumento d’indagine ravvicinata e molteplice, di operare attraverso una
esplorazione continua e un continuo scambio di informazioni che ha permesso al
sapere di ramificarsi e di divenire patrimonio comune per insegnanti, studenti e
per gli stessi abitanti. Qui sono confluite le conoscenze di tutti quanti hanno
indagato la quotidianità dell’edificio, ognuno con le proprie forme e con il
proprio approccio. E in questo senso è stata fondamentale la stretta relazione con
le altre due principali sezioni del progetto: Storie Comuni, le cui ricerche
sulla memoria si sono più volte intersecate con la didattica, e soprattutto Corviale
Network che ha seguito l’insieme dei workshop e lo ha diffuso alla città. La
televisione si è così rivelata un inedito e potente strumento progettuale che
ha mutato le forme della comunicazione dei progetti: gli studenti oltre che
immagini e disegni hanno confezionato servizi televisivi per parlare
direttamente al quartiere e alla città, risvegliando negli abitanti il
desiderio di progettare il proprio spazio e informando le discussioni che hanno
portato ai Laboratori Condominiali e alle seguenti fasi progettuali sul quarto
piano e gli orti urbani.
Corviale
è un edificio molto semplice da fuori e molto complesso da dentro, un immenso
oggetto che contiene tanti piccoli luoghi, abitati da altrettante microcomunità
di vicinato. È una complessa geografia in cui si deve passare dal grande
oggetto ai luoghi, dalla scala urbana a quella condominiale. Verificare il suo
reale rapporto con il territorio e riconoscere delle differenze in quel che
sembra un monotono continuum di cemento, dare nomi diversi ad ambienti che
sembrano tutti uguali, ma in realtà cambiano da piano a piano, da lotto a lotto,
in base a complicatissime alchimie sociali, antropologiche e spaziali. Per
conoscerlo veramente in ogni suo ingranaggio bisognava trovare il modo di
esplorarlo in tutti i suoi angoli più nascosti, svelarne le dinamiche, conoscere
gli abitanti e costruire quante più relazioni personali possibili.
Nelle
esplorazioni urbane fatte con Stalker a metà degli anni novanta, guardando ai vuoti ci eravamo disinteressati ai pieni e Corviale con gli altri quartieri
di edilizia popolare erano solo punti di riferimento geografici durante le
derive, costellazioni ordinate in un planisfero caotico. Attraverso la Corviale
UniverCity ora volevamo esplorare l’edificio con la stessa attitudine che
avevamo avuto per i vuoti, mapparlo come se fosse un Territorio Attuale a più
piani. Dopo i primi due workshop spesi ad esplorare il territorio intorno, si è
passati così ad affrontare il territorio interno, a interpretarlo non a partire
dalla forma o dai valori simbolici che essa può evocare, ma dagli usi capaci di
raccontarne il vissuto, dalle microstorie cristallizzate nella sua architettura,
dalle microtrasformazioni: le manomissioni,
appropriazioni e soluzioni a volte ingegnose con cui gli abitanti hanno riposto
al progetto.
Percorrerlo
il più possibile è sembrata l’unica maniera di conoscerlo e i workshop hanno
permesso di moltiplicare i passi, gli occhi e le relazioni personali. Per
alcune settimane piccoli gruppi hanno esplorato l’edificio in tutte le sue
parti, sono stati ospitati nei soggiorni delle case, hanno cominciato ad avere
un frequentazione quasi quotidiana, con appuntamenti, incontri e riunioni. Avendo
delle cose da si è cominciato a camminare con un’aria meno da turista, a prendere
gli ascensori giusti, ad andare in giro come ospiti in cerca di un numero
civico, a trovare ostacoli inaspettati, a volte scorciatoie, e a capire dove si passa e dove non si passa.
Immediatamente
il monolite di cemento si è trasformato in un’articolata cartografia di luoghi,
di nomi e di persone. Cominciamo a comprendere come si usa questo spazio.
Gli abitanti ci insegnano a ragionare per
lotti e per piani e a decifrare le prime differenze: il terzo lotto è
considerato la “zona nobile”, la più pulita e la meglio organizzata dal punto
di vista gestionale; il primo e il secondo lotto sono i più angusti, con meno
vegetazione e meno relazioni sociali; il quarto e quinto lotto sono più
solidali e con più vita comunitaria, sono più vicini alla città ma anche più
isolati dal resto dell’edificio; chi abita all’ultimo piano ha infiltrazioni
dalla terrazza ma la vista è panoramica e i ballatoi sono pieni di piante
perché ci arriva una bella luce; le case che si affacciano sulla campagna sono
considerate migliori di quelle che si affacciano verso la città; chi vive nei
primi quattro piani “in linea” deve passare per l’angusto porticato interno, ma
si sente più sicuro di quelli che vivono nei piani “a ballatoio” dove ti passa
davanti alla porta di casa un’intera città; nei ballatoi hanno messo dei
cancelli tra un lotto e l’altro ed è sempre più difficile camminare in
orizzontale; il numero civico di chi ha le chiavi dei lucchetti del tetto-terrazza
è scritto sul muro accanto al cancello, mentre per passare di lotto in lotto si
deve verificare di persona: i cancelli sono aperti o chiusi come in un
labirinto dinamico con infinite variabili. Qui la geografia cambia di giorno in
giorno.
Le
microtrasformazioni sembrano essere strategie o piuttosto tattiche di
sopravvivenza indotte dagli errori progettuali, e questi a nostro parere sono molti
e diversificati. Il più evidente è l’ostilità contro il paesaggio, accademicamente
considerato un contesto naturale in cui inserire l’oggetto artificiale, ma la
cui vista panoramica dagli spazi pubblici dell’interno viene sempre negata e
impedita da scelte formali. Ne sono un esempio gli alti muri di bordo del
tetto-terrazza, un potenziale ponte di nave da cui si sarebbe potuto vedere il
mare, i corpi scala monumentali otturati da pannelli di plastica traslucida e gli
spazi di aggregazione dei ballatoi che hanno panchine e tavolini, ma neanche una
finestra per guardare fuori. Poi ci sono errori tipologici come l’eccessiva
vicinanza dei due corpi di fabbrica che produce chiostrine buie e profonde dove
si sarebbe invece potuto avere dei veri cortili, la non flessibilità delle
tipologie abitative in molti casi obsolete ma non più modificabili; e quelli
morfologici come l’interruzione dello skyline orizzontale dovuto alla scelta di
seguire il salto di quota del crinale della collina e che ha causato l’interruzione
tra terzo e quarto lotto; e infine quelli tecnologici, che con la scelta della
struttura in setti di cemento armato, rende l’edificio assolutamente non
flessibile.
Corviale,
pur non prestandosi essendo una struttura rigida, è stato trasformato quasi al
massimo delle sue possibilità. Le trasformazioni hanno agito a più scale: le macrotrasformazioni degli abusivi, come l’intero sistema del piano libero e la fascia degli orti urbani, entrambe
con caratteristiche sia di bonifica che di esclusione, ma al piano libero con
un’evoluzione dall’appropriazione alla condivisione: è chiuso all’esterno ma al
suo interno offre una gradazione di spazi semiprivati condivisi. Nei ballatoi invece
c’è un sentimento di rinuncia ad un’azione organizzata e finalizzata all’uso
comune dello spazio, qui sono più frequenti le microtrasformazioni degli assegnatari,
che sono di tipo architettonico (espansioni dello spazio domestico, appropriazioni
di parti di ballatoio e di pianerottoli, chiusure con porte, muri e finestre),
decorativo (piante, panchine, luci, colori, filtri per l’introspezione),
funzionale (citofoni, parabole, grate, cancelli), gestionale (manutenzioni, pulizie,
sorveglianza, indicazioni). Vanno poi ricordate le auto-dotazioni di servizi
sociali mancanti e oramai consolidate (il centro anziani, la palestra, il
giardino del bar); e le trasformazioni dovute alla polizia, come le chiusure
delle uscite del ponte di ferro e l’interruzione del porticato del piano terra dove
per un maggiore controllo sono stati murati tutti i passaggi tra i lotti
interrompendo la continuità dei collegamenti, trasformazioni forse utili negli
anni duri, ma oggi sicuramente obsolete.
Le
microtrasformazioni oltre ad essere un interessante indice di come gli abitanti
rispondono all’imposizione dall’alto, sono indizi e suggerimenti utili per i futuri
interventi sull’edificio. A volte per affrontare lo stesso problema esse
variano di lotto in lotto, mostrando una diversificata domanda delle
microcomunità che li abitano, fatto che dovrebbe portare a non immaginare mai
più delle soluzioni a trafilato,
ossia il disegno di una sezione tipo da imporre su tutta la lunghezza, ma
piuttosto a cominciare ad immaginare soluzioni per punti. Se le
microtrasformazioni sono un indice per misurare il rapporto soggettivo degli
abitanti con l'edificio e se indicano l’adattabilità e la vitalità dell’organismo,
allora esse possono anche rivelarci dove e perché Corviale è più o meno vitale,
dove, in una ipotetica progettazione omeopatica sul corpo dell’edificio, si
devono inserire gli aghi dell’agopuntura. Corviale che così tanto ha subito
l’architettura, non potrebbe infatti più sopportare una nuova progettazione
dall’alto, necessita di un pensiero dal basso, un’architettura debole che nasca
dalla conoscenza delle microtrasformazioni e dalla relazione con le
microcomunità che lo abitano. Necessita di soluzioni geografiche che tengano
conto delle complesse mappe interne dell’abitato, delle loro differenze, delle
loro identità, dei loro desideri. Siamo convinti che un’architettura
sperimentale come Corviale abbia bisogno di nuove sperimentazioni
interdisciplinari tra arte e città, di grandi visioni futuribili fondate questa
volta sulla quotidianità e non sulla monumentalità. Ogni futuro progetto su
corviale dovrebbe essere la moltiplicazione di tante sezioni tipo possibili per
le tante microcomunità che lo abitano: un’infinità di soluzioni che possano
variare in base alla geografia abitata dell’edificio. Corviale è una città che
deve essere affrontata come un edificio, forse come ogni città: come un insieme
di appartamenti da ristrutturare e di spazi pubblici dalle infinite gradazioni la
cui cura non potrà che essere affidata a quelle microcomuità che nel tempo se
ne sono appropriate.
Corviale
UniverCity vuole essere un invito a continuare a proiettare visioni su questa
incompiuta città ideale che è sopravvissuta eroicamente al moderno e che ha
sicuramente ancora bisogno di immaginazione, di creatività, di architettura.
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