26/03/15

Walking as Civic Art.

Patrick Geddes with residents of the Scots College,
Montpellier 1930.
Camminare come Arte Civica 
(o dove si narra del perché di questo corso con questo nome...) articolo scritto per un catalogo di arte sul camminare, ma rifiutato perchè troppo personale...

abajo hay una traducion castillana

Nel 1913 Patrick Geddes, già affermato biologo di Edimburgo, inventa Civics un nuovo corso universitario dedicato allo studio pratico della città, vista attraverso gli occhi di Darwin, applicando l’evoluzionismo alla civitas. È la nascita di una nuova disciplina ancora inesistente: l’urbanistica itinerante, una Scienza Civica che propone agli studenti e futuri planners, di immergersi direttamente tra le sue pieghe, di “sottrarsi alle correnti astrazioni dell’economia e della politica, nelle quali siamo stati tutti più o meno allevati, per tornare allo studio concreto da cui la politica e la filosofia sociale ebbero origine in passato, ma dal quale si sono in seguito allontanate: quello delle città come sono, o piuttosto così come le vediamo crescere”.[1] L’urbanistica nasce dunque a piedi, in modo labirintico e partecipativo, un metodo deambulatorio che permette di leggere e trasformare le città. Il cui prodotto non è una visione astratta e zenitale di statiche mappe colorate in zone funzionali, ma piuttosto un racconto fenomenologico evolutivo, descritto da un punto di vista orizzontale messo in movimento camminando tra le pieghe della città: la survey walk.


Tra il 1914 ed il 1924, Geddes sperimenta in India le sue prime survey, una sorta di piani regolatori evolutivi che, a parte poche eccezioni, non sono mai disegnati, ma raccontati in forma peripatetica. Sono passeggiate dentro la città. Lunghe camminate scritte sotto forma di guide che descrivono la civitas, la fotografano nel suo stato attuale, e danno indicazioni per le successive evoluzioni. Non quindi standard o norme da applicare in forma zenitale, ma osservazioni itineranti rappresentate dall’altezza di un uomo che si perde tra i meandri urbani, scoprendo nuovi territori, immaginandovi correzioni e reinterpretazioni. È andando in giro infatti che Geddes prende nota delle evoluzioni storiche dei centri urbani, giunge a conoscere quelle in cui intervenire, quelle da lasciare al loro proprio naturale divenire, quelle in cui aiutare l’organismo urbano ad mutarsi verso nuove conformazioni. Geddes camminava prima e dopo la redazione del piano, sperimentando un nuovo metodo pedagogico in grado di riuscire a comunicare con gli abitanti, i veri attuatori del piano. Da buon anarchico era convinto che la produzione della città dovesse essere bottom-up, credeva in una partecipazione ante litteram. Nella fase di analisi incontrava gli abitanti sul posto per ascoltarne i problemi e le soluzioni che suggerivano, poi nella scrittura delle survey vi si rivolgeva come interlocutori privilegiati: erano loro i depositari e gli esecutori delle sue indicazioni, a loro era rivolto un continuo invito a camminare lungo le soluzioni che aveva immaginato. Giovanni Ferrero ha descritto con grandissima passione questo metodo itinerante e partecipativo di Geddes: “Camminare non è solo guardare: è anche ascoltare, in ogni singolo luogo, chi vive e conosce la città. Per questo Geddes evoca spesso di persona, con gratitudine, i suoi interlocutori locali. Con loro il Planner – Surveyor cammina, guarda, ascolta. E parla. Proprio camminando attraverso la città indiana a Geddes pare riscoprire il significato autentico della “Peripathetic Philosophy”, quando “i Greci parlavano di filosofia sotto i loro platani, proprio come gli indiani – Tagore e Bose - insegnano ancora, sedendo all’ombra”.[2]  

Ferrero racconta di un episodio toccante in cui Geddes sperimenta il camminare non solo come arte di guardare la città, ma come arte performativa capace di trasformarla. Siamo nel 1923 e Geddes è in America, invitato dal suo allievo Lewis Mumford per una lezione al Regional Planning Association of America. Geddes è “seduto a gambe incrociate, come un guru indiano, sotto una grande quercia che nella magia del suo racconto quasi si trasformò in un banano, a raccontarci il suo town planning in India: e come, da Mahrajà per un giorno, aveva bandito la peste da Indore”[3]. Era costernato perché non riusciva a trovare un vero contatto con gli abitanti e a risvegliarli dal loro torpore. Gli abitanti vedendolo gironzolare e prendere appunti non solo lo temevano come l’ennesimo planner occidentale pronto a radergli al suolo le case, ma avevano cominciato a dire che stava diffondendo la peste. Come riuscire a comunicare con loro? Come rappresentare il Civic Developpment alle menti dei suoi cittadini? Quando ecco gli balza in mente un idea, una sorta di town planning procession capace di risvegliare in loro l’interesse per l’igiene e la manutenzione della città. Né mappe, né disegni, né plastici avrebbero mai potuto competere con una camminata dentro la città stessa: “Fatemi Mahrajà per un giorno!”. Si mette ad organizzare il capodanno hindu di Diwali, in cui la processione “invece di seguire la strada tradizionale, ne avrebbe seguita una nuova: quella lungo la quale le case fossero giudicate le meglio sistemate per l’occasione”. L’operazione è un successo. Nasce una vera competizione per ridipingere e risistemare le case e le strade. Nella sfilata, accanto a carri di nuove maschere mitologiche, scorrono i carri con i piani della città ed i plastici degli edifici da costruire. La città di Indore appare come non la si era mai vista. La partecipazione della gente è altissima. Non si sa se per la gara di pulizia o se per il giungere della nuova stagione, ma la peste è definitivamente sconfitta.

Quando nel 2005 ho avuto l’occasione di inventare un nuovo corso per la Facoltà di Architettura di Roma Tre, il Professor Giorgio Piccinato in omaggio a Geddes, mi ha suggerito di chiamarlo Civics. Non conoscevo Geddes e gli avevo proposto un corso interamente a piedi, che si svolgesse in città e mai dentro l’università, peripatetico come quelli dei filosofi ateniesi, itinerante come forse lo stesso Geddes avrebbe voluto il suo Civics. Pensavo di chiamarlo Arti Urbane ma poi mi sono convinto a chiamarlo Arti Civiche[4]. Anche se in principio mi sembrava retorico, scolpito in lettere latine su un frontone delle architetture mussoliniane di Roma. Ma forse quel sapore desueto e fuori moda, poteva essere una buona provocazione: non Arti Pubbliche, termine mainstream di casa negli ambienti accademici e del mercato dell’arte, consumato da banali interventi di arredamento e abbellimento degli spazi pubblici; non Street Art, più di moda negli ambienti antagonisti ma che indica solo la pittura murale e i graffiti sui palazzi della città; non Arti Urbane, termine che indica oggetti e installazioni calati in una urbe solo fisica fatta di edifici di case e di strade; ma Arti Civiche, termine più impegnato, che ha a che fare con la civitas, lo status di cittadino, con il produrre non solo spazi, ma anche cittadinanza, senso di appartenenza alla città. Non solo produzioni di oggetti, installazioni e pitture quindi, ma anche di camminate, di significati, di relazioni. Come le Civics di Geddes, anche Civiche è al plurale, perché è transdisciplinare: la trasformazione della città non può essere lasciata ai soli urbanisti o architetti o imprenditori, ma deve essere estesa a tutte le scienze che si interessano alla città, quindi anche ad antropologi, geografi, sociologi, biologi. E accanto alle Scienze devono camminare anche le Arti, sempre al plurale: esplorare a piedi la città e penetrarne i suoi significati è un arte al pari della scultura, della pittura e dell’architettura, ma anche della fotografia, del cinema, della poesia che ci raccontano spesso con più efficacia degli urbanisti i fenomeni più difficilmente leggibili della città attuale. Ed è evidente l’intenzione di “educazione civica”: far conoscere a studenti e cittadini le realtà estranee alle loro routine quotidiane; indagare fenomeni emergenti attraverso l’interazione con lo spazio sociale; entrare in contatto con le diverse culture che abitano la città, quelle degli esclusi nei campi e nelle baraccopoli, e quelle dei reclusi nelle ricche gated communities. Il camminare di oggi ci porta infatti a constatare come l’urbanistica ha rinunciato a produrre città e come, piegata alle regole del mercato neoliberista, ha cominciato a produrre spazi urbani senza interazioni tra diversi, senza città: una urbe senza civics. Quella in cui operava Geddes era ancora una città unitaria, con regole e linguaggi condivisi, con una evoluzione lenta e con trasformazioni ridotte e il camminare in città era ancora un azione tutto sommato “normale”, non un’azione sperimentale di avanguardia artistica. Nelle città di oggi che si trasformano così velocemente, all’insaputa dei cittadini e che esplodono in miriadi di enclave nel territorio extraurbano, il camminare e attraversare i confini è diventato invece l’unico modo con cui ricostruire un filo unitario ai frammenti di città separate in cui viviamo. Il camminare è diventato lo strumento estetico e scientifico con cui ricostruire la mappa in divenire delle trasformazioni in atto, un’azione conoscitiva capace di accogliere anche quelle amnesie urbane che inconsapevolmente cancelliamo dalle nostre mappe mentali perché non le riconosciamo come città.

Una volta trovato il nome ho chiesto al Preside, il Prof. Francesco Cellini, di non assegnarmi un aula perché non ce n’era bisogno visto che nessuna lezione e neanche gli esami si sarebbero svolti dentro l’università, tutto si sarebbe svolto camminando. Finalmente avevo l’occasione di trasmettere agli studenti il sapere e le modalità che negli anni avevamo acquisito con le derive urbane di Stalker[5] tra i margini abbandonati delle grandi città e a cui avevo dato una prima sistemazione nel libro Walkscapes, il camminare come pratica estetica[6]. Arti Civiche è il corso che mi sarebbe piaciuto frequentare quando ero studente: esplorazione e riappropriazione della città; il camminare come metodologia di ricerca e di didattica; la sperimentazione diretta dell’arte della scoperta e della trasformazione poetica e politica dei luoghi. Il corso chiede infatti agli studenti ed ai cittadini che si incontrano lungo il percorso, di agire nella città alla scala 1:1, come azione fisica dei loro corpi nello spazio. Ha l’obiettivo di riattivare le loro innate capacità di trasformazione creativa, di ricordargli che hanno un corpo con cui prendere posizione in città, dei piedi con cui camminare e delle mani con cui possono modificare lo spazio in cui abitano. In ogni lezione si percorrono circa dieci chilometri camminando dal pranzo al tramonto. Ogni tanto ci si ferma a leggere dei testi, a commentare gli spazi in cui siamo riusciti a penetrare, a ragionare sulla città, sull’arte e sulla società. Camminando diventiamo una sorta di tribù itinerante, con regole proprie, un corpo unico multiforme che compie un’esperienza unica da cui costruiamo le nostre conoscenze condivise. Uno spazio unitario di sperimentazione, una sorta di laboratorio scientifico in movimento, che sviluppa creativamente una processione rituale ed iniziatica. Una università nomade.

Sono passati dieci anni da quando è iniziato il corso e nel tempo abbiamo messo a punto il suo funzionamento cambiando sempre la zona di esplorazione intorno a Roma. Ogni anno abbiamo realizzato un percorso unico a tappe: il primo uscendo simbolicamente dall’università e andando verso il mare, fino al luogo in cui era stato ucciso Pier Paolo Pasolini, poi risalendo tutto il fiume Tevere abbiamo incontrato i nuovi abitanti delle baraccopoli fluviali e siamo inciampati nella grande questione dei Roma People; in seguito abbiamo compiuto l’intero il giro del Grande Raccordo Anulare, in un cammino aperto ai cittadini di Primaveraromana per vedere le trasformazioni lungo i bordi della più importante infrastruttura cittadina; dal GRA siamo usciti in direzione della pianura pontina  e risalendo fino ai vulcani e ai castelli romani; da qui abbiamo seguito l’intero litorale camminando lungo le spiagge e la città litoranea; infine un corso interamente notturno, camminando da mezzanotte all’alba, inseguendo la Luna.[7]

Nelle lezioni itineranti si cammina in modo strabico, verso una meta e verso ciò che distoglie dalla meta, è un perdersi consapevole sulla base dei concetti situazionisti di dérive e di psychogéographie. Disponendosi agli incidenti di percorso, ai dirottamenti, alla possibilità di inciampare e di sbagliare strada deliberatamente. Giocare con il caso e l’imprevisto è infatti l’unico modo per prendere la città di sorpresa, in modo indiretto, laterale, ludico, non funzionale, di ritrovarsi in territori inesplorati dove nascono nuovi interrogativi. Ci sono due regole per camminare in questi spazi e con il tempo sono diventati una sorta di slogan. Il primo è “chi perde tempo guadagna spazi”: la meta deve essere sempre solo una ipotesi, un progetto che è già messo in discussine nel momento in cui lo si pronuncia. L’esplorazione non ha bisogno di mete ma di tempo da perdere, tempo non funzionale, ludico-costruttivo. La seconda regola è “non si torna mai indietro per lo stesso cammino”: se siamo entrati in un buco della recinzione ed ormai abbiamo percorso già alcuni chilometri, dover retrocedere sarebbe veramente deprimente. Il dover cercare una via di uscita è un ottimo stimolo per esplorare a fondo il territorio, porta a seguire sentieri che portano ad altri buchi. Mette addosso quello stato di apprensione in cui la paura e il pericolo sono medium per apprendere.

A differenza di Geddes non andiamo in giro con un mandato di planners, ma piuttosto per vedere di persona come la città si trasforma in assenza di una pianificazione, sperimentare come la nostra presenza possa essere una de-pianificazione, inventando porte e percorsi dove ci sono solo barriere. La capacità di penetrazione è uno degli aspetti su cui viene valutata l’azione che si sta conducendo. Se si è costretti a camminare sul marciapiede il valore è zero. Se si riesce a entrare ed uscire con fluidità tra spazi differenti il valore è alto: il territorio è permeabile e permette un numero maggiore di incontri e di conoscenza. Il cammino non si fa infatti lungo le strade di asfalto, ma il più possibile lungo i margini tra città e campagna, nel fango e tra i rovi, dove la città si espande e si trasforma più velocemente, dove viene in contatto con quello che rimane della natura. Qui la natura si ibrida in nuove forme, sopravvive invadendo le fabbriche abbandonate, i vecchi casolari in rovina, cresce nei campi agricoli non più seminati da anni, perché in attesa di diventare palazzi. Per buona parte si cammina in luoghi dove non abbiamo diritto di andare: se si vuole conoscere si deve entrare in spazi dove non siamo stati invitati ad entrare, attraversare campi, scavalcare cancelli, trovare buchi nelle reti, seguire sentieri e tracce lasciate da chi abita nascosto dagli occhi della città. In questi luoghi gli studenti vengono in contatto per la prima volta con persone che vivono accanto a noi e di cui non conosciamo altro che l’immaginario dei media e dei nostri pregiudizi. Allora diventano importanti le capacità relazionali: non lasciar spazio al banale, far succedere delle cose, saper cogliere al volo situazioni che si creano casualmente, convertirle in azioni poetiche. Comporre i comportamenti, costruire con attenzione e poesia quello che sta succedendo sotto i loro occhi, far attraversare barriere comportamentali a chi partecipa dell’azione. Vengono valutati con il massimo dei punti gli studenti che riescono a fermarsi a chiacchierare su temi inaspettati, chi riesce ad entrare in casa di qualcuno a farsi offrire un caffè, chi riesce a fare ospitare tutto il gruppo a piantare le tende nel suo giardino. Perché il corso conclude sempre le sue tappe con una camminata di due giorni e per fare l’esame si deve dormire almeno una notte in tenda. L’urbanistica è nata itinerante e non potrà che essere nomade.




[1] Patrick Geddes, Cities in evolution : an introduction to the town planning movement and to the study of civics, Williams & Norgate, London 1915,  p. 399.
[2] Giovanni Ferraro, Rieducazione alla Speranza. Patrick Geddes planner in India 1914-1924, Jaka Book, Milano 1998, p. 83. Le parole di Geddes sono tratte da una lettera a Mumford del maggio-giugno 1931.
[3] Ibidem, p. 271, nota 12. Nel virgolettato sono le parole di Lewis Mumford 40 anni dopo in: “the disciplin’s rebellion”, riportata in F.G. Novark Jr. Lewis Mumford & Patrick Geddes. The corrispondence, London 1995, p.345-348. Il racconto chiude anche il primo tomo dei Talks from my Outlook, Tower, Survey Graphics, Kellog, London 1925, pp. 527-9 e 553.
[4] La dizione Arti Civiche è già presente per altro nel titolo dell’articolo di Alessandra Ponte, Patrick Geddes. Arti Civiche o sociologia urbana, “Lotus” n° 30, 1981.
[5] Stalker Osservatorio Nomade è un artista collettivo che opera a Roma dai primi anni novanta e che ha fatto del camminare il suo principale strumento di azione e di pratica estetica. Negli ultimi anni si è ramificato in una articolata rete di relazioni e progetti sotto diverse sigle, tra i quali ricordiamo: Primaveraromana, LAC_Laboratorio Arti Civiche, Museo Relazionale, Stalker Walking School. http://www.osservatorionomade.net/ 
[6] Francesco Careri, Walkscapes. Walking as an aesthetic practiceEditorial Gustavo Gili, Barcellona 2002.
[7] Sui diversi corsi vedi: http://articiviche.blogspot.it/


Caminar como Arte Cívico
Traducion castellana publicada en:
Francesco Careri, Caminar como Arte Civico, in Derive Lab (editor) “la revoluciòn peatonal”, Ciudad de Mexico, pp.6-15 

En 1913, Patrick Geddes inventó Civics, un curso universitario en el que este consagrado biólogo de Escocia se dedicaba al estudio práctico de la ciudad, viéndola a través de los ojos de Darwin y aplicando el evolucionismo a la civitas. Se trató del nacimiento de una nueva disciplina: el urbanismo itinerante, una Ciencia Cívica que propone a los estudiantes y futuros planners, sumergirse directamente entre los pliegues de la ciudad.
“Escapar de las abstracciones actuales de la economía y la política en las que todos, más o menos por igual hemos sido educados; para retornar al estudio concreto, desde el cual la política y la filosofía social surgieron en el pasado, pero del que se han alejado posteriormente: preguntándose si las ciudades son cómo son, o más bien, son como las vemos crecer”. Es lo que dice Geddes en Cities in evolution: an introduction to the town planning movement and to the study of civics.
El urbanismo nace así, a pie, en modo laberíntico y participativo: un método deambulatorio que permite leer y transformar la ciudad, cuyo producto no es una visión abstracta ni cenital de mapas estáticos coloreados en zonas funcionales, sino un recuento fenomenológico evolutivo, descrito desde un punto de vista horizontal, puesto en marcha al caminar entre los pliegues de la ciudad: la survey walk.
Entre 1914 y 1924, Geddes experimentó en India sus primeras survey walks, una especie de planes reguladores evolutivos que, con algunas excepciones, no son diseñados sino contados en forma peripatética: son paseos dentro de la ciudad, largas caminatas que terminan en forma de guías que describen la civitas, que la fotografían en su estado actual y dan indicaciones para cambios sucesivos. No se trata de guías estandarizadas o normas para aplicar de forma cenital, sino observaciones itinerantes representadas desde la altura de un hombre que se pierde entre los meandros urbanos, descubriendo nuevos territorios, imaginándose correcciones e interpretaciones.
Es dando vueltas que Geddes tomó nota de las evoluciones históricas de los centros urbanos, llegando a definir cuáles se debían intervenir, cuáles se debían dejar a su propio devenir natural y cuáles ayudaban al organismo urbano a convertirse en nuevas conformaciones. Geddes caminaba antes y después de la preparación de un plan regulador, experimentando un nuevo método pedagógico con el cual fuera capaz de salir a comunicarse con los habitantes, los verdaderos actores de dicho plan.
Como buen anarquista, estaba convencido que la producción de la ciudad debía ser bottom-up, creía en una participación ante litteram. En la fase de análisis se encontraba con los habitantes en el sitio, para escuchar sus problemas y las soluciones que ellos mismos sugerían; después, en la escritura de los survey, se refería a ellos como interlocutores privilegiados: eran ellos los custodios y ejecutores de sus indicaciones, a ellos se dirigía una continua invitación a caminar a lo largo de las soluciones que él había imaginado.
En Rieducazione alla Speranza. Patrick Geddes planner in India 1914-1924, Giovanni Ferrero ha descrito con grandísima pasión este método itinerante y participativo. “Caminar no es solo mirar: es también escuchar, en cada lugar, a quien vive y conoce la ciudad. Por eso Geddes evoca a menudo con gratitud a sus interlocutores locales. Con sus Planner–Surveyor camina, observa, escucha. Y platica. Solamente caminando a través de la ciudad india, es que Geddes parece haber descubierto el auténtico significado de la Peripathetic Philosophy, en la que los griegos hablaban sobre filosofía bajo sus plátanos, al igual que los indios Tagore y Bose enseñan todavía, sentados bajo la sombra”.
Ferrero cuenta un episodio conmovedor en el que Geddes experimentó el caminar, no únicamente como arte de observar la ciudad, sino como arte performativa capaz de transformarla. Era 1923 y Geddes estaba en América, invitado por su estudiante Lewis Mumford para una clase en el Regional Planning Association of America. Relata cómo se veía Geddes. “Sentado con las piernas cruzadas, como un gurú indio, bajo un gran roble que dentro de la magia de su historia casi se transforma en un banano mientras nos cuenta sobre su town planning en India: y cómo, como Mahrajà por un día, había erradicado la peste en Indore”.
Ferrero cuenta que Geddes estaba consternado porque no podía encontrar un verdadero contacto con los habitantes ni despertarlos de su letargo. Los habitantes, al verlo pasar y tomar apuntes, no solo le temían, como el enésimo planner occidental que estaba listo para tirar sus casas al suelo, sino que también habían comenzado a decir que estaba propagando la peste. ¿Cómo lograr comunicarse con ellos? ¿Cómo representar el Civic Development en las mentes de sus ciudadanos? Se le vino a la mente una idea, una especie de town planning procession capaz de despertar su interés por la higiene y el mantenimiento de la ciudad. Ni mapas, ni dibujos, ni modelos pudieron haber competido con una caminata dentro de la misma ciudad: “¡Háganme Mahrajà por un día!”. Así organizó el Año Nuevo hindú de Duwani, en donde la procesión “en vez de seguir la calle tradicional, siguió una nueva: una calle a lo largo de la cual las casas fueron ubicadas de mejor forma para la ocasión”.
La operación fue un éxito. Nació una verdadera competencia para repintar y re-sistematizar las casas y las calles. En el desfile, al lado de los carros de nuevas máscaras mitológicas, se desplazaron los carros con los planes de la ciudad y los modelos de los edificios a construirse. La ciudad de Indore apareció como nunca antes fue vista. La participación de la gente fue altísima. No se sabe si fue por la limpieza o por la llegada de la nueva estación, pero la peste había sido definitivamente erradicada.
Cuando en 2005 tuve la oportunidad de inventar un nuevo curso para la Facultad de Arquitectura de Roma Tre, en homenaje a Geddes, el profesor Giorgio Piccinato me sugirió llamarlo Civics. Yo aún no conocía al profesor escocés, pero había propuesto un curso enteramente a pie, que tuviera lugar en la ciudad y nunca dentro de la Universidad. Peripatético como aquellos filósofos atenienses, itinerantes, tal vez como el mismo Geddes hubiera querido. Pensaba llamarlo Arte Urbano, pero después me convencí de llamarlo Arte Cívico.
Aunque en un principio me parecía retórico, esculpido en letras latinas sobre un frontón de la arquitectura mussoliniana de Roma, tal vez aquél sabor obsoleto y fuera de moda podría ser una buena provocación. No fue Arte Público, término mainstream en el ambiente académico y en el mercado del arte, consumido por acciones triviales de mobiliario y de embellecimiento de los espacios públicos. Tampoco fue Street Art, más de moda en los ambientes antagonistas, que indica solamente las pinturas murales y los grafittis sobre los palacios de la ciudad. No fue Arte Urbano, término que denota objetos e instalaciones colocados en una urbe física, hecha sencillamente de edificios, casas y calles. Fue Arte Cívico, término más comprometido, que tiene que ver con la civitas, con el status de ciudadano, con la producción no solo de espacios sino también de ciudadanía, sentido de pertenencia a la ciudad; no únicamente la producción de objetos, instalaciones o pinturas, sino también de caminatas, de significados, de relaciones.
Como la Civics de Geddes, también es plural porque es transdisciplinaria. La transformación de la ciudad no puede ser dejada solamente a los urbanistas o arquitectos o empresarios, debe ser ampliada a todas las ciencias que se interesan en la ciudad, a los antropólogos, geógrafos, sociólogos, biólogos. Y aparte de las ciencias, deben caminar también los artistas. Explorar la ciudad a pie y penetrar sus significados es un arte a la par de la escultura, de la pintura y de la arquitectura, pero también de la fotografía, del cine y de la poesía, que nos cuentan frecuentemente con más eficiencia que los urbanistas, los fenómenos más difíciles de leer en la ciudad actual.
Es evidente la intención de la educación cívica: dar a conocer a los estudiantes y ciudadanos realidades ajenas a sus rutinas cotidianas; indagar fenómenos emergentes a través de la interacción con el espacio social; entrar en contacto con las diversas culturas que habitan la ciudad, las de los excluidos en el campo, o en los barrios pobres, y las de los recluidos en las ricas gated communities.
En el caminar de hoy se constata que el urbanismo ha renunciado a producir la ciudad y, doblegado ante las reglas del mercado neoliberal, ha comenzado a producir espacios sin interacción entre diversos. Caminar sin ciudad: una urbe sin civics. Aquella en la que trabajaba Geddes, era todavía una urbe unida, con reglas y lenguajes compartidos, con una evolución lenta y transformaciones reducidas. El paseo seguía siendo una acción después de todo “normal”, no una acción experimental de vanguardia artística.
En las ciudades de hoy, que se transforman velozmente, el caminar y atravesar los límite se ha convertido en el único modo para reconstruir tejido a partir de los fragmentos urbanos separados en los que vivimos. Caminar se ha vuelto el instrumento estético y científico para reconstruir el mapa del proceso de aquellas transformaciones que tienen lugar, una acción cognoscitiva capaz de dar la bienvenida, también, a las amnesias urbanas que desprevenidamente eliminamos de nuestros mapas mentales porque no las reconocemos como ciudad.
Una vez definido el nombre, le pedí al decano, el profesor Francesco Cellini, que no me asignara un aula porque no había necesidad. Ninguna lección y ningún examen tendrían lugar dentro de la Universidad, todo se haría caminando. Finalmente tuve la ocasión de transmitir a los estudiantes el conocimiento y la metodología que con los años habíamos adquirido con las derivas urbanas  de Stalker, un colectivo de artistas de Roma que tiene el caminar como instrumento estético y de acción.  Fueron derivas entre los límites abandonados de las grandes ciudades y sobre ellas pude hablar en el libro Walkscapes, caminar como práctica estética,
Arte Cívico es el curso que me habría gustado tomar cuando era estudiante: exploraciones y reapropiaciones de la ciudad; caminar como metodología de investigación y de didáctica; la experimentación directa de las artes del descubrimiento y de la transformación poética y política de los lugares. De hecho, el curso pide a los estudiantes y a los ciudadanos que se encuentran a lo largo del curso para actuar en la ciudad a escala 1:1, como acción física de sus cuerpos en el espacio. Tiene el objetivo de reactivar sus capacidades innatas de transformación creativa, de recordarles que tienen un cuerpo con el cual tomar una posición en la ciudad, unos pies con los cuales caminar y unas manos con las que pueden modificar el espacio en el que habitan. En cada lección se recorren cerca de diez kilómetros caminando, desde el almuerzo hasta la puesta del sol. De vez en cuando nos detenemos para leer textos, a comentar los espacios que hemos logrado penetrar, a razonar sobre la ciudad, sobre el arte y sobre la sociedad. Caminando nos volvemos una especie de tribu itinerante, con reglas propias, un cuerpo único multiforme que logra una experiencia única a partir de la cual construimos nuestros conocimientos compartidos. Un espacio unificado de experimentación, una especie de laboratorio científico en movimiento, que desarrolla creativamente una procesión ritual. Una universidad nómada.
Han pasado diez años desde que inicié el curso y en ese tiempo hemos desarrollado su funcionamiento, cambiando siempre la zona de exploración en torno a Roma. Cada año hemos realizado un camino único en etapas: Primero, salimos simbólicamente de la universidad y andamos hacia el mar hasta llegar al lugar en el que Pier Paolo Pasolini fue asesinado;  después subimos a lo largo del río Tíber, en donde hemos encontrado a los nuevos habitantes informales y en donde nos topamos con la gran pregunta de Roma People; enseguida caminamos por completo el Grande Raccordo Anulare, en un paseo abierto a los ciudadanos de Primeveraromana, para ver las transformaciones a lo largo de los bordes de la infraestructura urbana más importante de la ciudad; más adelante, desde el GRA salimos en dirección a la llanura, subiendo hasta los volcanes y a los castillos romanos; de allí seguimos toda la costa, caminando por las playas y la ciudad costera; por último, hacemos un curso enteramente nocturno, caminando desde la medianoche hasta el alba, siguiendo la luna.
En las clases itinerantes se camina de modo bizco, hacia una meta y hacia aquello que distrae de la meta. Es un perderse conscientemente en la base de los conceptos situacionistas de dérive y de psychogéographie, disponiéndose a los incidentes de la ruta, a los secuestros, a la posibilidad de tropezarse y de olvidar la calle deliberadamente. Jugar con lo inesperado es de hecho el único modo de tomar a la ciudad por sorpresa, indirecta, lateral, lúdica, no funcional, de re-encontrarse en territorios inexplorados donde nacen nuevas interrogantes.
Hay dos reglas para caminar en estos espacios y con el tiempo se convierten en una especie de slogan. El primero es “quien pierde tiempo, gana espacios”: la meta debe ser siempre una hipótesis, un proyecto que ya se puso en discusión en el momento en que se le pronuncia. La exploración no necesita metas, sino tiempo para perder, tiempo no funcional,  lúdico-constructivo. La segunda regla es “no se regresa nunca por el mismo camino”: si hemos entrado por un hueco en la valla y por ahora hemos recorrido ya algunos kilómetros, tener que retroceder sería verdaderamente deprimente. El deber de buscar una vía de salida es un estímulo óptimo para explorar a fondo el territorio, lleva a seguir los caminos que invitan a otros huecos y pone en ese estado de aprensión en el que el miedo y el peligro son medios para aprender.
A diferencia de Geddes, no vamos por ahí con un mandato de planners. Vamos para ver en persona cómo la ciudad se transforma en ausencia de una planificación, para experimentar cómo nuestra presencia puede ser una des-planificación, para inventar puertas y recorridos donde únicamente hay barreras. La capacidad de penetración es uno de los aspectos en los que se evalúa la acción que se está llevando a cabo. Si se es forzado a caminar sobre la acera, el valor es cero. Si se consigue entrar y salir con fluidez entre diferentes espacios, el valor es alto: el territorio es permeable y permite un número mayor de encuentros y conocimiento. El camino no se hace a lo largo de las carreteras asfaltadas sino, en la medida de lo posible, a lo largo de los márgenes entre ciudad y campo, en el barro y entre los matorrales, donde la ciudad se expande y se transforma más rápidamente, donde entra en contacto con lo que queda de la naturaleza.
Aquí la naturaleza adquiere nuevas formas, sobrevive invadiendo las fábricas abandonadas, las viejas casas en ruinas, crece en los campos agrícolas que ya no se siembran cada año porque están en espera de convertirse en palacios. En buena parte se camina en lugares por donde no debemos caminar: si se quiere conocer se debe entrar en espacios donde no hemos sido invitados a entrar, atravesar los campos, saltar por encima de las puertas, encontrar agujeros en las rejas, seguir caminos y pistas dejadas por los que viven ocultos de los ojos de la ciudad.
En estos lugares se entra en contacto por primera vez con personas que viven junto a nosotros, pero de quienes no conocemos nada más que el imaginario de los medios y de nuestros prejuicios. Por lo tanto, se vuelven importantes las capacidades de relacionarse: no dar cabida a lo trivial, hacer que las cosas sucedan, detenerse a charlar sobre temas inesperados, saber cómo aprovechar las situaciones que se crean al azar y convertirlas en acciones poéticas. Componer los comportamientos, construir con atención y poesía aquello que está sucediendo delante de los ojos, hacer atravesar barreras de comportamiento a quien participa de la acción.
El urbanismo nació itinerante y no podrá ser más que nómada.


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